di Piersandro Pallavicini
AREE PROTETTE E RISERVE INDIANE…Un valore aggiunto di questi primi libri stava nel senso di possibilità che hanno offerto. Nell’idea che una narrativa scritta da chi viene da lontano potesse trovar spazio anche in Italia. L’effetto delle aperture di credito, nella scrittura, è quello di creare movimentazione di idee, di chiamare altri allo scrivere, di suggerire a chi già scrive di provare a spingersi più in la. In questa direzione hanno dato una mano anche altri libri, stampati in modo più appartato da un fitto sottobosco di case editrici piccole e piccolissime, nonché le pagine di riviste letterarie di carta o elettroniche.

Viene difficile anche solo definirli, tanto le etichette sembrano tutte inadeguate se non, in qualche caso, persino sottilmente offensive: scrittori migranti, scrittori allofoni, stranieri che scrivono in italiano, scrittori (e qui, francamente, sale un brivido d’orrore) “extracomunitari”… E ulteriore incertezza c’è sui confini di questo recinto, poichè di sicuro vi rientra chi è nato altrove, si è spostato in Italia ed è riuscito a padroneggiare abbastanza la nostra lingua da saperci scrivere racconti e romanzi, ma anche, per una specie di contiguità culturale, chi è figlio dell’immigrazione e ha l’italiano come prima lingua. E ancora: con quale metro giudicare i libri di questi scrittori? Occorre considerarne il contenuto in connessione alla biografia dell’autore (e dunque tener conto, se del caso, del valore aggiunto che viene dalla testimonianza sociale), oppure cancellare nome cognome e quarta di copertina e leggere, per farsi un parere sul libro come tale?
Sono qui in Argentina da diversi giorni e non sono ancora riuscito ad andare al cesso. Il mio cagare sta diventando argomento di discussione quotidiana tra noi. Contiamo i giorni. Tre, quattro, cinque… E non ci sono segnali. Eppure mangio: bife al sangue, medialunas, quelle incredibili torte col dulce de leche… “Vedrete che succederà all’improvviso” dico agli amici.
Andiamo a mangiare il solito bife con Nic e Laura. Raccontiamo loro quello che è successo al Boca. Lei non dice niente. È un po’ stanca, va a casa a riposare. Passiamo il resto del pomeriggio e la serata io e Giovanni da soli. A un certo punto ci viene la smania di andare a vedere il tango. Rintracciamo un locale dove Laura ci aveva detto che fanno il tango per i turisti, con le ballerine scosciate. Quando arriviamo è tardi. Io sono vestito come uno straccione, Giovanni è in mutande.
Ascolto i racconti di Laura, di quando è venuta le altre volte in Argentina, dei peruviani e dei boliviani con le loro facce da indios, immobili per giorni sotto i ponteggi dei cantieri, in attesa che qualcuno cada o si faccia male per poter prendere il suo posto. L’amica che le ha confessato di aver mangiato per disperazione anche un topo. “Come hai fatto?” le ha chiesto Laura, intendendo come hai fatto a vincere lo schifo, ecc… L’amica invece, intendendola come una domanda tecnica, le ha risposto: “L’ho lavato con un pezzo di sapone prima di cucinarlo!”.
L’ultimo numero di Impackt – contenitori e contenuti (da cui è tratto questo intervento di Antonio Piotti) è dedicato allo sporco e al pulito, ai detersivi, alle merci che smacchiano le cose e le coscienze. La rivista è curata da Sonia Pedrazzini e Marco Senaldi. Per informazioni: impakt@dativo.it. (T.S.)
Ci sono due immagini che mi vengono alla mente quando penso al pulito, alla macchia da cancellare, al sapone o ai detersivi. La prima è classica, shakespeariana, e rimanda all’idea che ci siano alcune macchie non cancellabili. Nessun sapone può cancellare il delitto commesso, la traccia è condannata a rimanere, come una lettera scarlatta incisa sul corpo perché la colpa merita una punizione ed un ricordo eterni. Non vale a nulla allora affannarsi a lavare e a strofinare: ciò che è, è per sempre, e bolla l’esistenza. Persino quando il delitto-trauma è del tutto dimenticato dall’individuo, esso non smette di ripresentarsi come sintomo, come segno che ritorna dal rimosso.
Una lettura integrale che è anche una performance vocale, un`atletica staffetta che per sei ore, senza interruzione, racconta un libro.
L’articolo sfogo sulla Resistenza nel mondo dei libri che ho scritto qualche giorno fa ha generato un cumulo di reazioni, molte assolutamente adesive, altre assolutamente offese. Persone a cui voglio bene mi hanno tolto il saluto. La colpa è stata in gran parte mia che ho sparato alzo zero, sapendo di insolentire alcuni. Ma la mia idea utopistica era che, scagliando in maniera violenta e sintetica queste affermazioni, si potesse trovare una tensione fruttifera, una dialettica non falsa di scontro. Per questo, ma non solo per questo (anche e soprattutto per rendere quella che può essere sembrata una polemica personale una prospettiva di dibattito), provo a contestualizzare, a correggere, e ad ampliare alcune questioni.
Al dibattito sulla strage di Nassiriya a mio avviso manca un tassello importante, che stranamente nessuno ha voglia di piazzare. Molto è stato scritto – forse a cuor troppo leggero, stabilendo nessi avventati – sulle truppe coloniali italiane, sui carabinieri protagonisti prima dell’orrido episodio della caserma Bolzaneto e poi dell’occupazione in Irak, e via così.
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