Pontiggia e gli altri

di Helena Janeczek
Scusate il ritardo. Ho avuto solo oggi il tempo di leggere un po’ di commenti arretrati che mi hanno fatto tornare l’urgenza di aggiungere al mio pezzo di qualche settimana fa un paio di precisazioni.

In effetti, quella frase ripresa da Tiziano Scarpa sugli autori solo un po’ più giovani di Pontiggia era così breve da poter essere fraintesa. Anzi: intesa in tutti i possibili sensi. Un sasso lanciato con la mano nascosta. Un po’, ammetto, di proposito, un po’ assolutamente no.

Certo non mi interessava alzare il tiro su Tabucchi, Vassalli o de Luca. Non ho nulla contro nessuno di loro. Non credo nemmeno che siano scrittori che non leggono altri scrittori, o i dattiloscritti di giovani che hanno conosciuto e così via.

Di quei tre conosco solo Erri de Luca che è una persona – e uno scrittore e un traduttore dall’ebraico e dallo yiddish- degno della massima stima, alieno da mire di potere, schivo perché schivo, disponibile e generoso nei limiti del suo carattere. Mi dispiacerebbe enormemente fargli un torto.

So bene quante volte de Luca ha portato camion in Bosnia e so anche che Pontiggia non ha fatto cose del genere. E sono l’ultima a credere che l’impegno civile o politico conti meno di quello letterario. Come dice la parola stessa, portare generi di prima necessità in un paese devastato dalla guerra rappresenta un aiuto più primario e necessario che mandare delle cartoline in risposta a centinaia di scrittori o aspiranti scrittori.

E poi mica tutti gli autori coetanei di Pontiggia facevano come lui.

Come vedete, sembra che mi sia ormai demolita da sola il mio discorso generazionale. Che infatti temo come una trappola, perché i numeri sono troppo piccoli e le differenze individuali troppo grandi.

Eppure il cordoglio per Pontiggia mi è sembrato qualcosa di eccezionale, come il sentimento comune che con lui si è conclusa un’epoca.
Forse è riuscito a rappresentare per ultimo la figura e il ruolo dello scrittore borghese illuminato, rimandano a una concezione della cultura che aveva dietro una comunità – anche se si riuniva nei salotti – e che era vincolata a quest’ultima da un senso di responsabilità o di dovere. Dai valori borghesi, appunto.

E allora non stupisce e non fa scandalo che nella generazione successiva – quella investita dalla contestazione la quale aveva fra i suoi obiettivi principali proprio la borghesia – questa concezione e il ruolo che vi si collega entrano in agonia. Che gli scrittori da quel momento in poi vedono il loro lavoro, quel che gli ruota intorno e anche il loro impegno politico e civile come qualcosa che gli riguarda solo individualmente o come scrive Tiziano Scarpa che “ognuno fa per sé. ”

Se c’è qualcosa di vero in quanto ho detto sopra, è chiaro che Pontiggia non può essere preso direttamente come modello. Quella cultura borghese, della quale lui ha saputo interpretare gli aspetti migliori, è finita ed è irrecuperabile. Non è il caso di rimpiangerla ed è inutile cercare di rianimarla.

Però credo che come indica il suo esempio, possiamo recuperare a modo nostro l’idea che fare gli scrittori (i poeti, i critici ecc.) significhi anche assumersi un ruolo e una responsabilità nei confronti di una società letteraria che è ormai irriconoscibile, ma che per continuare ad essere qualcosa di vitale e produttivo ha bisogno di un gesto di riconoscimento da parte nostra (anche e non secondariamente da parte dei lettori, inclusi quelli di questo sito, che ne fanno parte). Il che, all’atto pratico, può comportare nessuna o quasi nessuna differenza nelle cose che gli scrittori di tutte le generazioni hanno continuato a fare in forme e misura diverse quando leggono dattiloscritti, parlano in pubblico, rispondono alla posta, intercedono presso gli editori.

Volevo suggerire solo questo: che pur conservando ognuno i suoi modi individuali sia come scrittore, sia come persona, ci si possa riappropriare di un’idea di appartenenza e di servizio a una collettività. Che non si sa bene quale sia, che certamente non ha nulla di idilliaco o di uniforme, che non rischia di morire di setticemia come i feriti nelle zone di guerra, ma di svanire definitivamente nel nulla. Non sarebbe, appunto, la morte reale di nessuno, però impedirlo può essere esclusivamente compito nostro.

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1 commento

  1. Sento parlare dell’età, giovane e meno, degli scrittori fin da quando ho fatto capolino nel loro mondo che è anche il mio – io per me so di essere uno scrittore, anzi senza preamboli lo sono e basta, da che avevo dieci anni, anche se per gli altri (e non devono essere molti a conoscermi – anche perché ufficialmente ho combinato ancora poco) risulta che bazzico in giro da una quindicina d’anni (e qui s’accettano scommesse sull’età di questa impertinente signorina).
    I giovani scrittori sono stati una categoria dorata inventata dagli editori Theoria sul finire degli anni Ottanta e hanno veleggiato col vento in poppa per tutti i Novanta, e lì giù mèssi di distinguo, duelli finti e spuntati tra dinosauri e cannibali, tutta una mega sovrastruttura di chiacchiere che spero nessuno si azzarderà a spacciare per la vulgata di un concetto ben più alto – quasi medicobiologico – che si deve a T.S.Eliot secondo cui ogni nuova opera e ogni nuovo scrittore immettono carne e sangue ulteriori nel gran corpus dell’opera/letteratura mondiale.
    Cioè si spalanca sempre il parallelismo irricongiungibile (l’equivoco colossale) che la questione sia tra scrittori giovani e scrittori già nel limbo da vivi a un passo dal diventare classici (sorte che spetterà loro di diritto una volta – gloriosamente – morti).
    Il discorso mi pare fosse partito da Pontiggia.
    Finché è stato vivo era considerato già scrittore di establishment o perlomeno rispettabile anche per meriti anagrafici o poteva ancora essere compreso nel novero degl’irriducibili rivoluzionari a salve armati di penna (una volta – ora strumentati con notebooks)?
    Un discorso anche di linea d’ombra, in cui il conradiano spartiacque – o meglio la conradiana soglia di superamento – è un puro fatto temporale, il trascorrere irresistibile del tempo: che ha una sua parte di verità, ma appunto dà adito (o alito, come dicono in molti), anzi offre andito, cioè spalanca la via, verso una china pericolosa: che tutto si riduca a un discorso sulle “carriere”, e quindi tutto in soldoni consista in bottini di operine, medaglie, premi.
    Un amico carissimo, morto troppo presto – anche se nel tempo che ha circolato, tra una distrazione e l’altra (come è per tutti noi), ha sparso frammenti di quell’opera incessante che mano mano veniva componendo -, Pietro Pedace (si chiamava) diceva sempre e lo ha anche scritto: una cosa sono i libri e una cosa è l’opera – lo scrittore vive nell’opera, gl’importa solo di quella, il pubblico, quando c’è un pubblico, può riceverne solo i molti o pochi frammenti, i libri e gli scritti sparsi, e poi ognuno si deve avventurare, se crede, se davvero vuol conoscere l’autore, nei meandri della sua opera che è essa stessa un immenso corpus con i suoi equilibri tutti da esplorare, con i suoi rapporti interni relativi. Questo diceva e scriveva Pietro, mio caro amico, fratello grande nonostante fosse anagraficamente appena un po’ più giovane di me, ragazzo saggio che ha corso tutti i rischi e intrapreso tutte le avventure di vita che costa sempre agli scrittori la stranezza (o l’epica?) della loro impresa.
    E’ curioso: Pietro è morto di setticemia in un’epoca in cui non si muore più neppure di tumore (per la verità a mie spese ho scoperto che i guariti di cancro delle statistiche buone, quelle della guarigione appunto, qualche anno dopo rientrano nelle statistiche dei morti per cancro – ma questa è un’altra storia).
    Ora se fossi una di gran mestiere troverei una chiusa prodigiosa e sbalorditiva come sanno fare gli scrittori navigati, quelli bravi e vincenti.
    Invece ora la chiusa non mi viene, non brillante almeno. Dirò solo che quello che la letteratura è in Italia perlomeno nelle pagine dei giornali somiglia allo skyline di Manhattan, un profilo di punte d’iceberg e cemento e vetro in cui non si può intravvedere il brulichìo di vita, che pure c’è. Scorgerlo e scovarlo è compito di chi ne ha voglia – tutti gli scrittori che partecipano al formicaio e giocoforza devono guardarlo dal di dentro e tutti i lettori entomologi di buona volontà, o meglio: pazzi perditempo efferati.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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