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Viaggio a Tokyo

di Aldo Nove tokio.jpgL’impero dei segni è esploso. La grande bolla non c’è più, e la sua schiuma cola da tutte le parti, grassa di merci e corpi, immaginari o reali poco importa, vischiosa di immagini. Come un caleidoscopio impazzito, sottoposto alle maree del mercato, Tokyo combina i propri colori e li dissolve in infinite forme differenti. Tutte da desiderare. Tutte da comprare. E’ il mondo che è approdato al futuro e lieto di questo continua a proiettarsi le immagini di sé. E’ un mondo che ti schiaccia. Ti culla in una melodia fatta di milioni di note eseguite allo stesso momento. Tokyo non si può capire. Non si può pensare che sia fatta in un modo o in un altro. Ce n’è troppa, di Tokyo. Lo vedi da subito, dalla foresta di cartelli che dappertutto ti rimandano a qualcos’altro. Partiamo proprio da questi. Dalle segnalazioni. Da quelle scritte direttamente sulla strada. Mezza Tokyo ha dipinto per terra, sui marciapiedi, ogni dieci metri, una sigaretta sotto il simbolo del divieto. Vietato fumare. Vietato fumare per strada. Non tutte le strade. Ci sono strade per fumatori e non. Nelle strade per non fumatori ci sono locali dove è consentito gustarsi una sigaretta. Entri e delle ragazze ti consegnano volantini pubblicitari dove è spiegato che sì, fumare fa male, ma le sigarette del locale dove sei entrato fanno meno male delle altre. Ti siedi, fumi e guardi i video dei documentari che ti mostrano polmoni salutisti di fumatori delle sigarette pubblicizzate. Stai lì. Quando hai finito di fumare e hai imparato tutto sul fumo che fa male abbastanza, giusto quel tanto che ti consente di continuare a farlo, esci con il tuo volantino in mano e ti prepari a riceverne un’infinità di altri. A Tokyo tutti ti danno volantini. Se sei straniero ti risparmiano quelli che propagandano commercio sessuale. I club erotici, le sterminate variazioni sul tema del legame tra commercio e sessualità sono negati agli stranieri. Dicono perché le ragazze giapponesi non vogliono avere a che fare con chi non mastica la lingua. La loro lingua. Torniamo ai volantini. Tutto è sempre in offerta speciale. Il mondo del futuro è speciale e costa poco. Questo dice di se stesso, il futuro. Quando si reclamizza. Bluffando come un governo italiano qualunque. Tecnologia a basso prezzo. Divertimento a basso prezzo. Carne a basso prezzo (la carne, in Giappone, costa moltissimo, specialmente quella di manzo, fatto ingrassare apposta a dismisura perché la cucina giapponese è da sempre povera di grassi). A distribuire volantini sono spesso anziani. Sono ragazzi, ragazze, e vecchietti. Gli stessi vecchietti che trovi a frotte nei cantieri aperti ovunque. Fanno i lavori più umili. Il motivo è semplice. Se Tokyo è il futuro, come nel futuro che a noi ci attende e da loro è arrivato le pensioni non esistono più. Così a settanta anni ci si inventa un lavoro precario per tirare avanti. Futuro bellissimo. Futuro pieno di cartelli e di sconti. Di video pubblicitari e fame. Quando il mondo perde se stesso, quando la bolla esplode, quello che rimane è il racconto. Dirsi la propria magnificenza sull’orlo del baratro. A accompagnarmi in questo viaggio nella Tokyo 2004 è Taro. Taro Okamoto ha 44 anni, ha tradotto in giapponese alcuni miei testi e parla un italiano fluente. Da poco ha pubblicato un libro di racconti sui modi di dire italiani che non hanno un corrispettivo in lingua giapponese. Taro è seduto con me ad un tavolino di Mister Donut a Shibuya, il quartiere di Tokyo a cui Ridley Scott anni fa si ispirò per il suo Blade Runner, e confronta con me la sua visione da giapponese innamorato dell’Italia con la mia concezione di Italiano curioso del Giappone. Parliamo delle differenze culturali che ci distinguono, dalla politica ai costumi sessuali, dai rapporti con la tecnologia alle usanze gastronomiche. Si fa sera, a Shibuya. Io mangio una brioche ai fagioli dolci con un caffè lunghissimo, come si usa qua (il caffè più simile al nostro espresso lo si trova in prevalenza da Starbucks, multinazionale della pausa caffè che ha attecchito in tutto il mondo tranne che da noi, dove verrebbe subito stanato nel suo tentativo di imitare, in stile globalizzante, i caffé italiani). In strada si fa buio presto, alle cinque e mezza del pomeriggio è andato via e una marea di gente, in un carosello incessante di colori, ci passa davanti. Innanzitutto, quindi, la politica. Il Giappone è incredibilmente conservatore. Da queste parti, la vittoria di Bush è stata salutata con grande calore. Ma poco di più. La politica non si critica apertamente. Se ne discute poco. Come in parte da noi in Italia negli ultimi oscuri anni. Il senso di impossibilità di un cambiamento reale, prossimo, il peggioramento continuo del senso di appartenenza sociale sono dei deterrenti notevoli al confronto. In Italia come in Giappone. I giovani giapponesi sono troppo impegnati ad entrare in un sistema produttivo spietato, organizzato con sistemi gerarchici di matrice religiosa, per interessarsi di politica attiva. E’ una forma di lusso che è difficile concedersi in un paese dove la gente appena può si addormenta ovunque, in metropolitana, ai concerti, sulle panchine. Eppure, nel crogiolo giapponese di realtà contrastanti, è in questo paese che resiste il più grande partito comunista del mondo, che ha sette milioni di voti ma è isolato e incapace di produrre alleanze. Pio D’Emilia, corrispondente del Manifesto e grande conoscitore del Giappone (si era impegnato, anni fa, a fianco di Naoto Kan, amico di Romano Prodi, nel tentativo di importare in Giappone un Ulivo del Sol Levante, fallito in un paese che del centrosinistra non riesce a digerire il concetto) mi raccontava dell’immobilismo del Partito Comunista Giapponese, del suo essere arroccato su posizioni nobili, riformiste realmente ma insensibili al dialogo con le masse sempre più grandi di precari, di giovani che non ce la fanno a tirare avanti e scelgono altre forme di cambiamento che con la politica non c’entrano nulla. Ad esempio la scelta dell’eremitaggio. In casa propria. Da almeno in decennio in Giappone sono sempre di più i ragazzi che si rintanano nella loro cameretta e non escono più, per anni. Sono gli Hikikomori, i “rintanati”. Secondo le stime ufficiali, 70 mila. Secondo molti operatori sociali, molti di più. Le famiglie se ne vergognano e le istituzioni coprono per lo stesso motivo il fenomeno. Il mondo fuori e crudele e spietato e allora loro lo eliminano o meglio lo sublimano attraverso contatti più blandi, virtuali e meno intrusivi, essenzialmente il computer e il cellulare. Chattano per ore o meglio per anni. Fanno sesso virtuale su Internet. La mamma gli lascia il cibo fuori dalla camera. Loro escono il tempo di prendere il piatto e si rinchiudono nel mondo dell’irrealtà a consumare i pasti navigando come dei piccoli Ulisse senza futuro nella Rete. La grande illusione, la grande bolla esplosa. Da Mister Donut la fauna umana è mista. Trionfano i piercing a fianco delle tradizionalissime, e per le istituzioni eccitanti, divise da marinaretta in minigonna delle studentesse. Chiedo a Taro di un altro fenomeno giapponese inquietante. L’aumento dei suicidi. In Giappone, ogni quindici minuti una persona si uccide. 30 mila persone all’anno. Il doppio di quelli che muoiono per incidenti stradali. Il triplo di quanti si ammazzavano negli Anni Ottanta, quando la bolla cresceva a dismisura e anche in Giappone tutti pensavano che saremmo diventati ben presto ricchi e felici. Alle pendici del monte Fuji sono circa duecento i corpi senza vita che ogni anno vengono raccolti. Ora la polizia ha messo un sacco di cartelli con le scritte: “Non chiudetevi in voi stessi, parlatene con noi”, oppure “Pensate alla vostra famiglia”. Una delle ultime mode (oltre alle videoconferenze con il cellulare, un modo sempre più diffuso per incontrarsi con gli amici mentre ciascuno passeggia agli angoli più remoti della città) è il suicidio di coppia organizzato via internet. Si chiama “Shiniju” e gode di siti, sempre oscurati dalla polizia e sempre riaperti, dove si cercano partner non per incontri amorosi o sessuali ma per farla finita. Qua, uno dei bestseller è “Il manuale del suicidio” di Wataro Tsurumi. 83 ristampe, un milione e mezzo di coppie vendute. Giappone che soffre e non sa cosa farsene del proprio splendore. Giappone che si vuol stordire nel godimento che assume forme sempre più paradossali e estreme, sfrenate ma insufficienti a arginare il proprio malessere in un edonismo di matrice anni Ottanta. Quei maledetti anni Ottanta dove ci siamo ubriacati di sogni guasti dai quali non riusciamo più a capire come svegliarci, in un coma politico che gonfia l’occidente di sogni che si consumano ogni giorno di più. I giapponesi non hanno il senso del peccato ma vivono in modo molto forte il rispetto delle forme. Qua, se è difficile trovare due ragazzi che si scambiano effusioni per strada, nei “love motel” (alberghi a ore, spesso pacchianamente, disneylandianamente arredati per il sesso mordi e fuggi) come nelle migliaia di locali a tema specifico, accade di tutto. I rapporti sadomaso, mi racconta Miko, ragazza giapponese che ha vissuto la maggior parte della sua vita a Milano con il padre, l’artista Katsumi Nakay, sono la norma. L’arte di legare il partner è una sofisticatissima parte del menage, quasi imprescendibile. Secondo Miko, il sesso sadomaso è un modo per sfogare la rigidità dei rapporti gerarchici in società. Le si prende dal capoufficio e si frusta la moglie. Mentre magari il capoufficio, per variare, si fa picchiare dalla prostituta di alto livello nei numerosissimi “dungeon” (saloni per giochi sadomaso, attrezzati con gogne, catene e aggeggi vari da gioiosa Santa Inquisizione) presenti in città. Un’altra cosa che piace molto ai giapponesi è la pipì. E anche qualcos’altro. Di sadiana memoria. Tipo le gare di peti ed oltre. Di cui qui non parleremo. I numerosissimi sexy shop che affollano la città spesso si affiancano a templi shintoisti, senza che nessuno si turbi del blasfemo (per noi) accoppiamento. E una volta all’anno, a Jinia Mae (a tre ore di treno da Tokyo) c’è la festa del Fallo, il Matsuri. Un sacerdote benedice un immenso pene di legno che viene portato in processione per il paese, come una nostra Madonna, e le donne lo toccano, palpano, leccano. E’ un antichissimo rito di fertilità, rimasto immutato attraverso i secoli. L’anno scorso, sebbene l’ente nazionale del turismo tenda a pubblicizzarlo poco, ha visto affluirvi più di 100.000 persone in adorazione di fronte all’organo della riproduzione. Anche questo è Giappone. C’è chi cerca di divertirsi e chi si uccide. Chi tira a campare e chi non riesce a farlo. Certo che la ricetta del liberismo selvaggio si rileva qui ancora più folle che altrove. Dalla vetrina di Mister Donut (dove gentilmente una cameriera mi riempie di nuovo la tazza del caffè che ho appena finito) si vedono passare anche gli homeless, i derelitti. Sempre più numerosi. Il lavoro è qualcosa di assolutamente effimero, qui. E’ facile perderlo. Ma anche trovarlo. E poi perderlo di nuovo. C’è chi non resiste a questi ritmi e a questa incarnazione costante, sulla propria pelle, della precarietà. Sono quindici milioni i giapponesi che vivono di “lavoretti”. C’è un sistema di sovvenzione statale per la disoccupazione, ma è complesso e quasi inaccessibile, pochi ne riescono a usufruirne. Molti finiscono in mano alla mafia locali (gli Yakuza: paghe da miseria e 16 ore di lavoro al giorno, prestiti con interessi del 3000 per cento), altri scelgono di smetterla. Ad esempio quelli che ricorrono all’“evaporazione” (Johatsu): ci si mette in una scatola di cartone, vicino all’immondizia, e si attende. Quando arriva il carro per la raccolta dell’immondizia ci si lascia tritare, oppure all’ultimo momento si può sempre decidere di saltare fuori e ricominciare a provarci. Si sono fatte le nove di sera. Vado in albergo. Domani torno in Italia. Torno alle vicende dei dissidi tra Follini e il Berlusca, all’epopea di Cogne e alle zuffe dell’“Isola dei famosi” commentate da don Mazzi. Questo mi aspetta. Mentre qui l’imperatore benedice l’Impero. Mentre si festeggia la vittoria di George Bush. Mentre la bolla esplosa colora il futuro di un’immensa, tutta terribilmente umana malinconia, nell’azzurrino elettrico che circonda i palazzi di ottanta piani, all’ombra del Sol Levante. Nel futuro che qui c’è adesso. Nel futuro che domani ci attende. _____________________________ Pubblicato su Liberazione, 25 novembre 2004.

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