Le “Nughette” di Canella: Wunderkammer di una civiltà idiota

[Presento qui alcuni testi tratti dal volume di prose Nughette ’17-’20 di Leonardo Canella, appena uscito per Affinità Elettive, seguito dal saggio che ho scritto come postfazione. A. I.]

di Leonardo Canella

1)

pensavo che potevi spararmi prima di leggere le tue poesie. Mentre la Polly chiama il centodiciotto che facciamo un bel pubblico letterario, e la Dimmy dirimpettaia che grida e Bruno Vespa che ride, in TV. E mentre leggi, ti ascolto. Tranquillo. Che felice penso che tanto ci sei tu chi mi hai già sparato. E leggi le tue poesie. Ed io rivedo la mia piantagrassa Selly divenuta cieca e le nuvole in alto. Bianche.

2)

tutti a dirmi che eri morto. Con una siringa nel braccio e un batuffolo di cotone rosso sull’erba. Tipo fiore sfiorito. E invece no. Adesso sei nero e fai il nigeriano ai giardinetti, mitico Ellis. E sorridi. Tutti a dirmi che eri morto. E Invece no. Sorridi tipo 1978. E tu sei lì, mitico Ellis, con la Dalmy sdentata e il Dirby stecchetto. Che adesso fanno i nigeriani neri pure loro, ai giardinetti. E sorridono tipo 1978 che il fiore sfiorito c’è pure per loro, sull’erba. La siringa e il batuffolo di cotone lo porto invece io.

3)

donna tenuta in freezer per 19 anni. Mitico Ciclope, leggo questo sul corrierepuntoit e penso alla tua isola che mi piacevano un sacco le capre. E le bacche, nere. E davanti alla TV c’eravamo noi, io tu e le capre. E il rumore del freezer. E stavamo la sera così, davanti alla TV, davanti al mare. Col rumore del freezer. A pensare, a fare poesia. Poi il freezer si è rotto e c’hanno trovato dentro una donna. Dopo 19 anni. E non so se sono stato io o sei stato tu che la Polly dice che sono un mostro quando in casa non ci do retta. E oggi quando l’ho rivista tornare coi sacchetti della spesa, ho pensato che anche lei era uscita di casa 19 anni fa. Sì, ora ricordo, era uscita di casa diciannove anni fa.

4)

Bubu migrante, tu sei lì. Io lo so. Tocco lo schermo, e tu sei lì. Infilo le dita, e sento la tua lingua. Non so, tipo spugnetta umida. E ci sono dieci centesimi, ma dipende. Se metto un euro, ce ne sono sessanta, di centesimi. Sulla lingua. A scuola dicono che parlo da solo ma non è vero:  IO PARLO COL DISTRIBUTORE DEL CAFFÈ! E dentro al distributore del caffè ci sei tu, Bubu migrante. Io lo so. E sento la tua lingua, umida tipo spugnetta. E la tua voce. Che se parliamo di letteratura, tu mi dici ‘prendere il resto’. Ed io sono d’accordo.

5)

in fondo al mare c’è più plastica che vita. E ci sono i migranti. Con la plastica nello sterno e dentro il teschio, seduti in poltrona col telecomando. Che ti vedono con pantaloni a zampa di elefante calibro 38 e basette lunghe, mitico Ellys. Com’eri nel 1978, alla tv. Così ti ho invitato a cena trent’anni dopo in fondo al mare, mitico Ellys. Con pantaloni a zampa di elefante, calibro 38 e basette lunghe. E i migranti seduti in poltrona col telecomando. A parlare della plastica e del dolore. In cerchio, in fondo al mare. E sentire la vita e le previsioni del tempo.

6)

a Milano c’è il bosco della droga e ci sono gli zombi. E c’è anche un agglomerato di cemento armato e rifiuti, vicino. Vicino agli zombi. E Canella va lì, a leggere le nughette e a sentire l’eco fra i rami del bosco della droga. E l’arietta di primavera. Che la Polly dice che in casa sono uno zombi che non pulisci mai. E io vado fra i rami del bosco della droga per sentire l’eco delle mie nughette. Felice. E l’arietta di primavera. E gli zombi ridono sorrisi sdentati nel bosco della droga. A Milano. Con l’agglomerato di cementoarmatoerifiuti vicino. Felice pure lui.

*

 

LE WUNDERKAMMER DI UNA CIVILTÀ IDIOTA

 

di Andrea Inglese

devo combattere la morte e i peli, dici mentre ti strappi i peli sul braccio.

Nughetta n° 47.

 

Nonostante la crisi che l’ha accompagnata nel corso di tutto il Novecento, la lirica, genere dominante delle scritture poetiche, è sopravvissuta al cambio di secolo, e coabita, con più o meno imbarazzo, con altre forme, più sperimentali, anti-liriche o post-liriche, che si dispongono comunque nei medesimi dintorni editoriali e di attenzione critica. Per altri versi, la poesia continua vivacemente a morire, come tutta la letteratura, nell’era della cultura di massa e digitale. Al di là delle innumerevoli diagnosi apocalittiche, è interessante vedere come questo genere si caratterizzi più di altri per un destino ambivalente: la poesia, da un lato, è vergognosa editorialmente, perché non ha compratori, e spettacolarmente, perché – in genere – ha pochi spettatori; dall’altro, però, gli si affibbia spesso e volentieri una nobilissima missione. Per molto tempo, soprattutto a partire dagli anni Zero, si è parlato della poesia come una zona di resistenza, ossia un’attività letteraria che sembra, pur nella sua marginalità riconosciuta, salvaguardare qualcosa di “umano”, “non mercificato”, “autentico”. La poesia, insomma, costituirebbe, nella narrazione apologetica che essa tende a fare di se stessa, l’ultimo bastione contro la disumanizzazione e la mercificazione universali promosse dalla barbarie capitalistica. In quest’ottica, persino i media generalisti sono propensi di tanto in tanto a tirar fuori qualche figura di poeta, colmo di umanità e saggezza, di pazienza artigianale e ritrosia ascetica. Oggi, poi, la poesia sembra addirittura profittare di una nuova ondata culturale, ossia la sensibilità ecologica. Fino a ieri, il poeta difendeva i valori dell’umanesimo, ma oggi, con la faccenda dell’antropocene e del riscaldamento climatico, la centralità dell’uomo è diventata un po’ sospetta. Quindi si è passati al filone poesia ed ecologia. E, ancora una volta, la periferica scrittura in versi può riacquistare, almeno fino alla prossima crisi, una nuova autorevolezza.

L’interesse che desta un autore come Leonardo Canella viene, innanzitutto, dalla postura generale che egli assume nei confronti del genere che pratica. Canella sembra aver fatto i conti fino in fondo con le narrazioni catastrofiche e apologetiche che circondano la poesia. E le conclusioni che tira, lo vedremo, vanno nella direzione di una grande vitalità accompagnata da un perfetto disincanto. I testi che egli raccoglie sotto il titolo di “nughette”, pur non assomigliando in prima battuta a delle poesie, vogliono inscriversi, seppure in forma ironica e autoparodica, nella tradizione della poesia occidentale. Lo notava già Renato Barilli, introducendo il primo libro dell’autore (Nughette, Guaraldi, 2014), e ricordando le nugae del Petrarca, ossia un genere adatto a componimenti di secondaria importanza, scritti in volgare. Prima ancora, il termine è utilizzato nella lirica latina da Catullo, con il significato di “bagatelle” o “inezie”, per definire testi poetici brevi e di soggetto leggero, ossia legato alla quotidianità e alla vita privata dell’autore, che si distinguono dai carmina docta, testi più lunghi e su temi gravi, legati all’epica e all’impegno civile.

Riesumando un genere antico della tradizione poetica occidentale e assolutizzandolo, ossia limitando a esso la poesia possibile del XXI secolo, Canella non solo gli riconosce di fatto un carattere minoritario – per altro incontestabile –, ma anche gli attribuisce di diritto un carattere di scrittura minore, ossia programmaticamente non edificante. Questa preliminare operazione, che si pone a livello d’istituzione letteraria, ossia di “genere”, ed è quindi rivolta innanzitutto verso il pubblico per orientarne la lettura, annuncia una consapevolezza forte, storica, dell’azione di produrre letteratura. Oggi, la poesia, per Canella, può esistere principalmente nella forma diminuita delle “nughette”: componimenti brevi, seriali, privi di verso, d’argomento quotidiano. Si tratta, insomma, di scegliersi il proprio pubblico, di disambiguarsi rispetto al contesto che, pur essendo assai fragile e periferico, non rinuncia ai propri sogni di centralità e grandezza. In Canella non si troveranno elogi degli alberi e delle erbe di campo, come non si troveranno meditazioni sul destino nuvoloso dell’umanità. Non saremo confrontati a un uso estremo, sofisticato, della parola. Non vi è nessun tentativo di riscattare il linguaggio dalla sua usura, né attraverso operazioni di “pulizia” del dettato né attraverso operazioni d’“ispessimento” espressionistico. La strategia di Canella guarda in tutt’altra direzione: bisogna indebolire e rilasciare enormemente i filtri, per fare entrare quanta più materia possibile, quante più “occasioni”, anche se esse si caratterizzano per un alto grado d’insignificanza. Le nughette sono pensate non come un baluardo formale, stilistico e retorico, contro il già-detto, la parola ordinaria, il flusso eterogeneo e destrutturato della comunicazione mediale, la piattezza delle situazioni connesse alla vita domestica e lavorativa. Esse funzionano, al contrario, come un formidabile e sensibilissimo strumento di captazione; tutto vi può entrare: le frasi fatte, i titoli di cronaca, i gesti più comuni e impoetici, come tagliarsi le unghie o farsi la ceretta. E vi è un insolente proposito di rovesciamento dei valori: la poesia, se ancora esiste, si fa con le inezie o, più precisamente, si fa con gli scarti dell’esperienza, ciò di cui vorremmo senza sosta liberarci: le idiosincrasie, il funzionamento testardo e animale del corpo, le narrazioni mediali, che costituiscono per noi, cittadini informati e intrattenuti, una sorta d’inquinamento “delle menti”, altrettanto evidente di quello realizzato sugli ecosistemi del pianeta. (Della violenza di questo inquinamento se ne è avuta una prova ulteriore e recente nei mesi di confinamento obbligato a causa della pandemia di Covid-19. Durante questo periodo anomalo, tra le cose estremamente gravi da cui bisognava difendersi – il virus, ovviamente, la perdita del proprio lavoro, il dolore e il caos psichico – quasi tutte le persone che conosco hanno citato l’informazione televisiva e giornalistica.)

Alle spalle di questo atteggiamento di Canella potremmo individuare eredità o analogie: la linea crepuscolare che va da Gozzano a Sanguinetti (soprattutto quello di Postkarten), ma anche l’objet trouvé e il collage dei dadaisti, e più recentemente l’Aldo Nove di Woobinda. Quello che più conta, però, è l’effetto globale che questo abbassamento dei valori produce sui suoi testi. Da un lato, assistiamo al gesto cinico-nichilista che dissacra ogni tema o figura dai possibili risvolti consolatori, dall’altro abbiamo la rilevazione, all’interno degli scenari più triti e triviali, di zone d’intensità impreviste. E queste zone sono spesso legate all’impoetica, anti-lirica, dimensione che Bachtin aveva definito il basso materiale e corporeo. Si legga la nughetta 31, che funziona anche da manifesto di poetica:

 

“mentre parli ¬ sei uno scrittore ¬ penso al verme che ho visto. L’ho visto sul cemento, pieno di vita. Al sole. Dici che tuo padre aveva i baffi. Negli anni Settanta. E io penso al verme che ho visto sul cemento. Pieno di vita, al sole. Non riesco a non pensarci, non so. Anche lui coi baffi, negli anni Settanta. E intanto parli di letteratura e io penso al verme che ho visto. L’ho visto sul cemento pieno di vita e al sole. Coi baffi, mentre parlava di letteratura anche lui, negli anni Settanta. Non riesco a non pensarci, non so. E questa è la mia idea di letteratura.”

 

Nulla è più basso, rasoterra, lontano dall’antropomorfismo e dall’antropocentrismo del “verme”, che però appare qui “sul cemento pieno di vita e al sole”. È quello che definisco una zona d’intensità, e che funziona grazie alla strategia globale della composizione, che si costruisce per contrasto con la zona debole “scrittore, anni Settanta, letteratura”. Questi termini generici che rinviano a un sistema d’identità e valori radicati nella storia umana si oppongono qui alla concretezza di una specifica situazione non umana: l’asse verme-vita-sole. In fondo, Canella fa qui quello che scrittori e artisti sono, a volte, in grado di fare, ossia si libera da quella “asfissiante cultura” – per riprendere il titolo di un celebre pamphlet di Jean Dubuffet – , che funziona, in realtà, come un sistema per ritardare e ostruire la visione, la presa d’atto della vita presente, delle cose come stanno. (Dubuffet, per altro, compare in un testo delle Nuove nughette, edite da Prufrock spa nel 2017. E, sia detto di passaggio, Canella è anche pittore e critico d’arte).

Bisogna, quindi, leggere il lavoro di Canella consapevoli della duplicità che manifesta: tanto più esso dismette ogni residuo sogno d’integrità lirica, ma anche d’emancipazione avanguardistica, tanto più organizza una macchina macrotestuale efficiente e articolata sul piano letterario. Egli, infatti, ha creato una chimera, un ibrido mostruoso, ossia un genere individuale, le nughette, appunto, come già fecero alcuni illustri predecessori novecenteschi, quali Francis Ponge (è l’oggetto della scrittura che crea il genere, non il contrario), ma anche suoi coetanei altrettanto ambiziosi, quali Vincenzo Ostuni con il suo Faldone.

La virtù delle nughette, lo abbiamo detto, consiste nella straordinaria capacità inclusiva che offre loro. Esse costituiscono un dispositivo onnivoro, che si nutre della straripante insignificanza e idiozia delle nostre vite. È opportuno, però, chiarire subito una cosa. Questa insignificanza e idiozia non è semplicemente l’effetto di un sistema storico per molti aspetti detestabile, come quello rappresentato dalle tarde società capitalistiche all’epoca dell’offensiva neoliberista e dello scontro tra tecnocrazia e populismo. La consapevolezza storica di Canella non offusca in lui una consapevolezza, diciamo, antropologica. Le nughette sono attraversate da cima a fonda da un’inesauribile sete di felicità, e di felicità esclusivamente terrena. E più questa sete è intensa, più colui che la patisce è confrontato al rischio dell’insensatezza. Canella fa affiorare, all’interno del nostro orizzonte storico, la fisionomia di un’umanità che ha preceduto il capitalismo e la modernità, e che è caratterizzata da una serie d’invarianti antropologiche: il cibo, l’eros, le narrazioni condivise, la morte. L’abbassamento di temi e registri linguistici è parte di una strategia più generale, che è quella di un denudamento o, se vogliamo, di una riduzione, alle attività più elementari dell’animale parlante. Ecco, allora, che i personaggi che compaiono nelle nughette sono costantemente alla prese con il cibo – dal barattolo di nutella al sugo al ragù – e se non stano mangiando, cucinano o pensano al cibo. È il corpo che lo vuole, non l’eterea coscienza. Allo stesso modo, il corpo è costantemente proteso al godimento sensoriale. Ma per soddisfarsi non ha bisogno di sofisticate esperienze no limits, turistiche, sportive o sessuali. Gli basta farsi scompigliare i capelli “dall’arietta di primavera”, “sentire il sole su in vena e la serotonina sparata a mille”, avere intorno “Polly tettinedorate” o sbirciare la Selly Dirimpettaia che se ne esce nuda dalla doccia. Vi è poi, ricorrente, il motivo del “cerchio” dei parlanti: “E ci siamo detti storie antiche”, “In cerchio tra i fiorellini colorati, sul prato”, “Intorno al fuoco. E raccontarci della vita, sul prato. Tutti in cerchio sulle bave, sotto la luna”… Uno dei momenti di felicità dell’animale parlante riguarda l’atto di parola non immediatamente strumentale, ossia il racconto condiviso e reciproco, che potrà avere tratti epici, di narrazione collettiva (“storie antiche”) o autobiografici, di narrazione individuale (“raccontarci della vita”). Poco importa che il “cerchio” si presenti come sogno, immagine irreale, esso ricorre puntualmente a mostrare l’insufficienza sia dell’apostrofe lirica, privata e confinata al tu, sia delle forme di narrazione elaborate dai media di massa (stampa, TV, internet). La morte, infine, interviene come leitmotiv “spettrale” ad affiancare, quasi a rafforzare, le certificazioni di presenza fornite dal corpo, che percepisce, si nutre, racconta. La morte circola innanzitutto nella forma del fatto di cronaca, ossia come morte violenta e/o insolita, che viene celebrata nei media per il suo carattere al contempo spaventoso e attraente. Varrà la pena di citare per intero la nughetta 22:

 

“tutti a dirmi che eri morto. Con una siringa nel braccio e un batuffolo di cotone rosso sull’erba. Tipo fiore sfiorito. E invece no. Adesso sei nero e fai il nigeriano ai giardinetti, mitico Ellis. E sorridi. Tutti a dirmi che eri morto. E Invece no. Sorridi tipo 1978. E tu sei lì, mitico Ellis, con la Dalmy sdentata e il Dirby stecchetto. Che adesso fanno i nigeriani neri pure loro, ai giardinetti. E sorridono tipo 1978 che il fiore sfiorito c’è pure per loro, sull’erba. La siringa e il batuffolo di cotone lo porto invece io.”

 

I morti popolano le nughette e sono spia non solo del destino comune, che nessuna orgia consumista e spettacolare potrà davvero esorcizzare, ma anche di una condizione “spettrale” che incombe su ogni tentativo di aderire vitalisticamente alla propria esperienza. La vitalità del verme, allora, o delle pulsioni elementari di cui il corpo è portatore, vengono costantemente controbilanciate da una fissità allucinatoria. Le nughette non registrano spaccati di vita, ma dei tableaux vivants, ossia delle ricostruzioni artificiali di situazioni. E in queste ricostruzioni intervengono, sulla stessa scena dei vivi, anche i morti. L’opzione figurativa di Canella è quindi decisamente antimimetica. Ad accentuare questo aspetto vi è poi quella che chiamerei la porosità delle identità individuali e delle coordinate spazio temporali. Il tossico di fine anni settanta, morto per overdose di eroina, si confonde con il nigeriano, forse spacciatore, e frequentatore in ogni caso dei giardinetti, e assieme ad essi altre figure marginali di consumatori di droga, Dalmy sdentata e Dirby stecchetto. Qui l’apostrofe lirica non è più indirizzata a un “tu” amoroso o intellettualmente e affettivamente affine (il lettore-ascoltatore), ma a un campione di marginali, che non si riesce però a espellere fuori dallo spettro dell’identità personale. Chi dice io nella nughetta 22, come in molte altre, è in realtà abitato da spettri, e poco importa se all’origine di questi spettri ci sia una scandalistica inchiesta sullo spaccio di droga vista in TV o un ricordo personale nato da un’esperienza diretta o trasmessa oralmente.

Questa spettralità anti-mimetica è all’opera in modo particolarmente evidente nella sezione intitolata Migranti. In questi anni, con tutte le buone intenzioni del mondo, ma non sempre con sufficiente consapevolezza letteraria e critica, i poeti e le poetesse hanno spesso preso la parola, nei loro testi, per esprimere e denunciare alcuni fenomeni legati alla cosiddetta crisi migratoria. L’idea diffusa dietro queste scelte poetiche è quella di “restituire voce a chi voce non ha”. Soprattutto si è sollecitati, attraverso strumenti letterari, a combattere contro gli stereotipi della stampa e della propaganda politica spesso intrecciate tra loro. Il problema, in tutta questa faccenda, è che si rischia di produrre inconsapevolmente un ulteriore stereotipo o di lavorare per variazioni su stereotipi esistenti. Affinché la poesia possa esprimere la voce dei senza voce (gli immigrati clandestini e fuggitivi), bisognerebbe innanzitutto che fosse fatto un lavoro di “raccolta voci”, e che, di conseguenza, e non in modo episodico, i migranti in questione abbiano già preso la parola. Ma questo implica un processo politico e conflittuale lungo e difficile da realizzarsi. In questo contesto, la poesia sembra proporre una scorciatoia che ha una finalità consolatoria. Canella opera qui ancora una volta un rovesciamento: allo stereotipo della narrazione massmediale non viene opposta una rappresentazione più complessa, umana e autentica (con il rischio di prolungare ulteriormente la portata della semplificazione e dell’occultamento). Lo stereotipo è preso e trattato come una figura “spettrale”, ossia accentuandone i tratti di meccanicità e di fissità disumanizzanti. Canella usa in modo parodico, in questo e altri casi, le formule di matrice omerica che accompagnano i nominativi. Abbiamo, allora, “Buby africano pesciolinoinbocca”, così come in altri testi “bavettalabiale Polly” o “la Daldy tettinesgonfievicinadicasa”.

Il prezzo che l’autore paga giocando in questo modo antimimetismo e spettralità si riscontra nel carattere programmatico, e per certi versi meccanico, della sua operazione. Nello stesso tempo la ripetizione delle formule, dei personaggi, di certe situazioni o scenari crea quella coerenza e forte identità macrotestuale, che collega non solo i vari componimenti tra di loro, ma anche le diverse raccolte di nughette. Si apre questo libro non per andare alla ricerca di qualche pensiero sublime o esperienza sfuggita alla spettacolarizzazione, ma per girovagare in una successione di “camere delle meraviglie”, dove sono allestite scorie ideologiche dell’epoca e pulsioni umane fondamentali. Non so dire se la passeggiata sia catartica, ma essa contribuisce in forma allegramente impietosa a riconoscere alcune componenti tossiche e dementi del nostro orizzonte individuale e collettivo. D’altra parte, ogni forma di felicità dovrà costruirsi attraverso di esse, traendone anche energia, non solo disgusto e scoramento.

 

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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