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Confezione regalo

di Tiziano Scarpa

dono.gif“Questa era l’ultima”, commentò Bugatti tirando uno striscio sul nome in fondo alla lista.
“Finalmente,” sbuffai. Era una sera di ottobre. Il vento piegava le cime dei faggi addosso alle finestre. Erano foglie iperautunnali, rosso vivo, colorate dall’insegna rossa del grande magazzino dove lavoravamo. L’insegna luminosa era montata sul cornicione dell’edificio, proprio sopra il nostro ufficio.

Avevamo esaminato per tutto il pomeriggio i progetti degli allievi dell’Accademia dello Stile (quasi tutte allieve, per la verità). Praticamente gli facevamo gli esami per procura, un paio di pomeriggi all’anno. Dovevamo dare i voti alle loro trovate. Il compito di questo semestre era: progettare una confezione regalo innovativa per le feste natalizie, adatta alla nostra catena di grandi magazzini. L’Accademia dello Stile stimolava i suoi studenti ad affrontare un progetto reale, il mondo della produzione vera. Noi del grande magazzino per gli studenti rappresentavamo la realtà. Li illudevamo che, se avessero escogitato qualcosa di veramente bello, lo avremmo adottato per il prossimo Natale.

“Io non mi sento per niente stanco. Sarei andato avanti anche dopo cena,” disse il mio collega.
“Puoi sempre chiamare le più… Le più brave. Hai i numeri di telefono, nella lista.”
Dicotto ragazze (più tre ragazzi) fra i venti e i venticinque anni erano passate una dopo l’altra dentro il nostro ufficio nei loro vestiti attillati. Sembrava che si fossero avvolte loro, nella carta da regalo. Tanti bei regalini vivi, nastri di stoffa da slacciare, fettuccie di reggiseni, elastici di mutandine, corpi da scartare come doni. Bugatti aveva gli occhi fuori dalla testa.

Guardai l’orologio. Le sette e mezza. “I giudizi da trasmettere all’Accademia li scriviamo domani, direi.”
“Comunque, numero uno senz’altro la fatina tettona,” disse Bugatti.
“Ti è piaciuta?”
“Mi ha fatto morire dal ridere il suo progetto.”
“Qual era?” Non me li ricordavo tutti.
“La polverina magica!” sogghignò Bugatti.

Nel pomeriggio era arrivata questa ragazza pettoruta con gli occhi celesti. Molto seriamente ci aveva spiegato che la cosa che conta è lo splendore del prodotto. “Farli brillare. L’aureola. La gloria delle merci!”, si era infervorata.
“Sì, ma come,” le avevamo chiesto.
“Al giorno d’oggi, sugli scaffali, l’effetto-aureola si affida alla plastica trasparente che avvolge il prodotto. Un velo di brillantezza. Il luccicore che riflette l’illuminazione del grande magazzino…”
“E lei con cosa vorrebbe sostituirla?”
“Con una polvere brillante! Quella delle fate. I prodotti non vanno mortificati dentro una confezione. Devono emanare luce propria. Come se fossero stati toccati da una bacchetta magica. Quel torrente di luce e stelline che esce dalla bacchetta magica delle fate…”
“E come si fa?”
“Al reparto confezioni-regalo, questo Natale, ragazze vestite da fatina non faranno pacchi dono. Cospargeranno i regali di polvere brillante.”
“Sì, ma come la realizzeremmo, in pratica?”
“In… pratica?” aveva balbettato la ragazza.
“Appiccichiamo uno per uno lustrini autoadesivi su dolci e giocattoli?”, avevo ghignato.
“Ci grattugiamo sopra un lingotto d’argento? Lo sfariniamo su uno strato di colla a presa rapida spalmato sugli acquisti dei clienti?” aveva rincarato Bugatti.
La ragazza aveva sbattuto le palpebre sulle sue iridi chiare. “Oh, non lo so. Il compito di noi creativi è dare indicazioni. Il concept. L’idea. La realizzazione è manovalanza…”
Ci eravamo divertiti a prenderla in giro. Lei non coglieva neanche il sarcasmo più evidente. Dopo che la fatina tettona era uscita, Bugatti aveva messo accanto al suo nome sulla lista cinque stelline e tre punti esclamativi. Nella casella ufficiale delle valutazioni, uno zero meno meno.

Si era fatto tardi. Fuori dalla finestra, diedi un’altra occhiata ai faggi ultrarossi e alle strade illuminate. Una fata del reparto confezioni-regalo disseminava lustrini elettrici sulla città.
Mi stavo alzando dalla poltrona girevole quando qualcuno bussò.
Dalla porta socchiusa si affacciò una testa avvolta in un fazzoletto annodato sotto il mento, con una verruca scura sul naso. Era spaventosamente vecchia.
“Posso?”
Io e Bugatti ci guardammo. Non era una bel modo di chiudere la giornata, dopo quella sfilata di belle ragazze.
“Prego. Noi sgomberiamo subito.”
“Oh, fate con comodo.” La donna delle pulizie entrò. Appoggiò alla parete una ramazza ispida, con un fascio rotondo di setole grezze, adatte a spazzare un marciapiede, più che il pavimento di un ufficio. Sotto l’orlo del grembiule le spuntava il collant smagliato, le scarpe basse; una aveva la suola scollata. Mi chiesi quanto le davano all’ora per grattare via i nostri escrementi dai cessi, mentre a noi, in un pomeriggio, l’Accademia dello Stile ci passava l’equivalente del suo stipendio mensile, per dare i voti agli occhioni delle studentesse.
“Ho visto tutta quella bella gioventù, oggi,” disse la vecchia cominciando a spolverare la nostra scrivania. “Bello il tema d’esame di questo semestre.”
Io e il mio collega ci guardammo. Era un’allieva dell’Accademia anche lei? Una studentessa fuori corso? Bugatti mi fece l’occhiolino. Forse gli erano venuti in mente quegli spogliarelli spiritosi, da cabaret: entra la Cenerentola stracciona, ma poi sotto il grembiule tutto lercio ti sfodera un fisico freschissimo.
“Sa, quand’ero giovane io, ai bambini, dalle mie parti gli facevano trovare la calza vecchia, appesa sul caminetto.”
“Vero,” disse Bugatti. “La festa dell’Epifania. Sei gennaio. Epifania, cioè Apparizione, in greco. Voce corrotta popolarmente in Befana. Il giorno dell’apparire. O dell’apparenza.”
“Dentro le calze vecchie si trovavano anche pezzi di carbone, in mezzo a qualche dolcetto, un’arancia… Sa, eravamo poveri. Un’arancia e tre caramelle erano veramente una festa.”
“Mi ricordo, sì,” dissi. “Voglio dire, me l’ha raccontato mia nonna. Quand’ero piccolo io, invece, hanno messo in commercio i pezzi di zucchero nero che assomigliava al carbone. Un’imitazione industriale…” Mi stavo abbottonando l’impermeabile. Non vedevo l’ora di andarmene. Quella donna puzzava.
“Non era una brutta idea, sa?,” riprese la vecchia. “I bambini imparavano che le cose belle, quelle più desiderate, possono stare dentro un involucro schifoso… Il meglio dell’esistenza, il tesoro, bisogna andarlo a scovare dappertutto.” La donna delle pulizie aveva attaccato a strofinare i vetri. “Soprattutto nei contenitori meno promettenti: in fondo a una calza rammendata, infeltrita, che sembrava messa lì ad asciugare, sul caminetto di casa, d’inverno. E che magari è piena anche di robaccia sporca, delusioni. Carbone…”
La donna aprì la finestra. Nell’ufficio entrarono due foglie rosse spinte dal vento freddo.
“In effetti, non era male come trovata,” disse Bugatti, tagliando corto. Aveva già la mano sulla maniglia della porta.
La vecchia donna delle pulizie afferrò la sua ramazza. Con un movimento sorprendente agile, sollevò il grembiule e alzò una gamba, per inforcare il manico fra le cosce. Poi spiccò il volo e uscì fuori dalla finestra. Restammo a guardarla a bocca aperta, mentre planava sopra la città illuminata.

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Pubblicato su Impakt, autunno 2004.

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