LA PAGINA E LO SCHERMO. Frame da un discorso abbandonato. (II)

di Stefano Gallerani

«Questo progressivo sbiadire delle relazione umane non manca di porre qualche problema al romanzo. Come si potrà, infatti, perseguire la narrazione di passioni focose sviluppate lungo svariati anni e talvolta in grado di far sentire i propri effetti su diverse generazioni?»

(Michel Houllebecq, Estensione del dominio della lotta)

Con una detonazione si apre anche Il sopravvissuto, secondo romanzo di Antonio Scurati pubblicato nel marzo del 2005, a pochi mesi dal libro di Covacich. Il giorno della sua maturità, Vitaliano Caccia, già votato, lo scopriamo presto, alla bocciatura, uccide a colpi di pistola tutti i membri della commissione d’esame. Tutti salvo uno. Da questo momento, Andrea Marescalchi, l’insegnante di storia e filosofia “graziato” da Caccia, diventa «una figura della desolazione esistenziale»: il sopravvissuto, appunto. Ma il fatto delittuoso, l’episodio criminale non serve a Scurati per inscrivere nella cornice di genere – il giallo metaforico che muove dall’episodio di cronaca – una vicenda ed offrirla, così, in pasto all’interpretazione e al commento. L’interrogativo che risuona in ogni capitolo, soprattutto quelli corrispondenti alla rilettura da parte di Marescalchi del proprio diario non riguarda il motivo – o il movente – del gesto di Vitaliano, e neppure che fine abbia fatto, una volta compiuta la strage, l’omicida, no, di questo cose se ne occuperanno, ai rispettivi livelli di responsabilità, le istituzioni (la Scuola, lo Stato, la Famiglia, la Scienza, la Società colte nella loro dimensione foucaultiana, espulsiva, e parodiate nell’epifania più assurda, quella linguistica). Procedendo nella rievocazione di alcuni episodi recenti della vita di Vitaliano alla ricerca di una giustificazione, una premonizione, nonché di un’identificazione per speculum in aenigmate, secondo il modello dominante del Sebastian Knight di Nabokov -, la riflessione di Marescalchi s’avvolge tutta intorno alla sua condizione di superstite: l’altra faccia di un disagio di cui il gesto di Vitaliano – ma, si potrebbe ben dire, l’intera sua costituzione – è l’espressione più violenta, efferata e nostalgica. Una nostalgia che si traduce inevitabilmente in un vissuto affettivo gravido di retoriche concettuali: come Andrea è l’uomo che Vitaliano non si rassegna a diventare così Vitaliano è il ragazzo che Andrea non è più (o non è mai stato). Ma anche un epicedio ed una sintesi da laboratorio della giovinezza come la immaginano gli adulti (sono significative, in questo senso, quasi romanzo nel romanzo, la dedica e le epigrafi al prologo, all’epilogo e alle due parti che compongono il libro illustrandolo: «Avere addosso vent’anni è come avere la peste bubbonica » [Faulkner], «al ragazzo che fui», «anche l’albero in fiore mente nell’istante in cui è contemplato senza l’ombra del terrore […] e non c’è più bellezza o conforto se non nello sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa» [Adorno], «avevo vent’anni, non consentirò a nessuno di dire che è la più bella età della vita» [Nizan], «e ciascuno dovette accettare di vivere giorno per giorno, e solo di fronte al cielo» [Camus]). Alla massa indistinta del corpo sociale, «educata da milioni di ore trascorse davanti alla televisione» e abituata a reagire «di fronte ad ogni evento dell’esistenza, fosse anche gravemente luttuoso, con l’unico comportamento richiesto al pubblico televisivo: l’applauso», ossia l’assenso incondizionato, Scurati oppone il ritratto di una coppia di individualità precarie e lacerate, ancorché irridotte, oltre all’intenzione di ripristinare l’autorità dell’esperienza in luogo di ciò che è solo possibile. «Dirò no a ogni spiegazione che dipenda da una qualsiasi verità che non riposi nella mia esperienza, nel mio ricordo, nel mio rimorso. Rifiuterò la scienza, ogni scienza e il suo vizio di negare l’essenza, la sua insolente insistenza nello spiegarci che ogni cosa vive solo nella relazione e nella mediazione con qualcos’altro», ecco cosa si ripromette Andrea all’inizio della sua ricerca, e nell’inattualità del suo gesto non riposa solo l’anacronismo che si riflette nell’affanno espressionistico della pagina, ma tutta una poetica: in un mondo senza orizzonte il sopravvissuto, cioè l’espulso, è l’unico testimone non integrato, e per questo attendibile, della crisi. Non a caso esperienza (e il suo contrario, o la sua declinazione odierna, inesperienza) e anacronismo o inattualità (storicità, insomma) sono gli assi tematici de La letteratura dell’inesperienza, il saggio nato come postfazione all’edizione rivista – e notevolmente incisa – del primo romanzo di Scurati, Il rumore sordo della battaglia. In questo breve scritto, partendo dalla «relazione perduta tra esperienza e letteratura» – oggi non differenti o, al limite, indifferenti l’una all’altra, bensì indifferenziate -, Scurati ripercorre il processo di spodestamento dell’esperienza dal mondo portato a compimento dai media elettronici e si interroga su cosa comporti scrivere romanzi al tempo della televisione (così la didascalia del titolo). Come nel caso di Cordelli, le domande sono esplicite: qual è il compito delle letteratura in un mondo «che viene dopo la fine del mondo e che non conosce il senso della fine, che ignora dunque la peculiare capacità di produrre significato da parte del romanzo»? Come possono gli scrittori «trasformare in opera letteraria l’assenza di un mondo eclissatosi assieme all’autorità del vivere e della testimonianza»? Scartata recisamente tanto l’opzione per l’opera-mondo a statuto paranoide («questo tipo di neo-esoterismo a buon mercato [è una definizione pregnante, non un insulto] non è l’antiveleno a quel dominio della comunicazione che cancella il mondo, ne è un prodotto») che quella per la decostruzione auto-parodica («una tattica vecchia come la strategia modernista, cioè fedele al principio del negativismo estetico»), Scurati scioglie le sue riserve in favore del romanzo storico riportato in auge in Italia da Umberto Eco al principio degli anni Ottanta. Da questa deliberazione nasce, però, nell’economia del discorso, un’increspatura che ne modifica merito e gittata. Pur nella sua inappuntabile eleganza narrativa, il Nome della rosa non è, dopotutto e nello stesso scenario letterario ricostruito da Scurati, che un compendio di ironie varie e straniamenti divertiti che mettono in scacco la cultura; una metafora postdatata sui misfatti della censura del potere ma anche un complicato rompicapo che fa agio proprio sull’equivalere ogni cosa al suo contrario e sul non essere niente ciò sembra: un romanzo «meta-pop» allora (nel 1980) ed un cliché narrativo oggi. Ebbene, siamo sicuri che sia proprio questo il sentiero che consentirà allo scrittore di essere «il veleno del proprio ambiente sociale»? Che il romanzo storico di cui si tratta sia nient’altro che un “genere” e non, piuttosto, una dimensione del romanzesco? «Ciò di cui in futuro si dovrà tener conto è che oggi, in piena esplosione dell’inesperienza, qualsiasi romanzo si scriva, anche il più ferocemente autobiografico, il più ingenuamente attuale, lo si scrive come romanzo storico». Rileggendo queste ultime righe, che ci sembrano il corollario ideale più del Sopravvissuto che del Rumore sordo, i dubbi si confermano, ma fortunatamente l’ambiguità (deliberata?) con cui Scurati chiude il saggio apre alla linearità (e, talvolta, alla capziosità) del suo discorso nuove e più interessanti possibilità di senso.

«Lo spettacolo come organizzazione sociale presente della paralisi della storia e della memoria, dell’abbandono della storia che si erige sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo.

(Guy Debord, La società dello spettacolo)

Tipicamente surrettizia è, invece, la marca dell’auspicio che, annunciandone l’uscita sulle pagine del “verri” e rendendo le armi alla potenza archivistica del tempo, in grado di ridurre ogni pagina a mero documento, di catalogarla come cifra di qualcos’altro, anche se non si sa bene cosa, Walter Siti affida alle sorti del suo ultimo romanzo, Troppi paradisi: «il percorso è stato quello di un maniaco ossessivo, avvolto nella placenta della propria erotomania, che da non-nato quasi si compiaceva dell’avanzante de-realizzazione del mondo intorno a sé. Ora la nascita lo sta espellendo dall’autobiografia; la neo-realtà ricomincia a sorprenderlo, esige verve e invenzioni ariostesche. Quel che mi auguro, sinceramente, è che tra dieci anni l’intera trilogia possa apparire irrimediabilmente invecchiata». Quello, cioè, che Siti spera di riprodurre è lo spirito del proprio tempo, la sua aria, confidando per questo che di qui a una manciata di anni essa sarà inevitabilmente viziata, irrespirabile, segno tanto più evidente, nelle sue intenzioni, della rappresentatività del libro con cui l’estate scorsa si è chiuso il trittico inaugurato nel 1994 da Scuola di nudo e proseguito cinque anni dopo con Un dolore normale. Rispetto a questi due titoli, all’origine del livellamento verso il basso di Troppi paradisi – livellamento stilistico e tematico – c’è il tentativo di rappresentare la società occidentale e il progressivo avanzare della sua «gayzzazione» (una sorta di sterilizzazione dell’immaginario collettivo), movendo da una prospettiva dapprima esterna alla sedes materiae di questo processo di decadimento, la televisione appunto, quindi interna allo specchio deformante del medium. Ma poiché il mondo si “conosce” mediante le immagini “taroccate” emesse dai media e dalla tv come un flusso anestetico, appropriarsi delle cose mediante le immagini delle cose stesse e la cancellazione dello spazio che intercorre tra l’autore stesso e la propria storia costituisce il nodo ingannevole di ogni singolo e diverso atto conoscitivo: la realtà non è che una continua e sterminata proliferazione di menzogne, ipotesi, confusioni verbali, omologie. «E allora, che cosa c’è di più simile a una ‘galleria di specchi’ che l’universo televisivo, inteso come sistema autoreferenziale?» E cosa c’è, in letteratura, di più simile all’autoreferenzialità che l’amministrazione di una penitenza fittizia scritta da un personaggio reale allo scopo di convalidare la sua affermazione di essere un altro ed ogni uomo: un prototipo? «Mi chiamo Walter Siti, come tutti», esordisce l’io-narrante parafrasando onomasticamente un celebre attacco di Satie, ma il modello non è quello dell’autofiction coniata da Serge Doubrovsky (e cioè «finzione di fatti e avvenimenti strettamente reali»), bensì quello dell’ego-letteratura decodificata da Philippe Forest: «“ortopedia” dell’Io, arrogante e vittoriosa su tutti i fronti della cultura, impresa insidiosa di addestramento sociale in cui l’individuo si trova invitato a fabbricare liberamente il suo essere in base al miraggio di un modello conforme ai valori comuni, esperienza in cui si verifica il paradosso dell’alienazione consumistica che sottomette il dettato individualista (diventare se stessi) alla norma collettiva (essere simile a tutti)». In realtà, il soggetto di Siti non si esprime a favore di tutti, né come portavoce di un gruppo, bensì in nome di un personaggio idealistico, un soggetto messo in questione per meglio affermarsi: l’io è imbracciato non come soglia da guadagnare per attraversarla nel viaggio verso l’impersonale, ma come forma estrema di egocentrismo. Tutt’a un tratto il problema formale del romanzo è risolto con la trovata che rende elementare ciò che era difficile; da questo punto, entrato in una sfera dove tutti i colpi vanno a segno, l’autore non può che sbagliare per eccesso, come in tutti i romanzi basati su un’idea risolutrice. Chi parla nel romanzo è il «Walter Siti» personaggio, amorale docente universitario che per amore di Marcello, body builder borgataro e angelicato, si prostituisce alla televisione («svilendo e infangando l’unica cosa che mi dia una gioia non incrinata, la scrittura […] sono andato a guadagnarmi i soldi che mi servono proprio nella centrale operativa in cui si elabora l’irrealtà»), ma dietro le sue parole si scorge senza fatica il moralismo professorale dello scrittore Walter Siti, che nell’avvertenza in apertura di libro ci toglie anche il gusto di sbrogliare la matassa che inviluppa realtà e finzione: «tutto l’impianto realistico, insomma, è un gigantesco soufflé pronto ad afflosciarsi in una poltiglia di finzione». L’educazione sentimentale, poi, è del tipo che porta dalla dannazione alla redenzione, il fantasma che aleggia tra le pagine quello dell’ignavia di classe («datemi reality, fiction, dialoghi, domande per i quiz: con la parannanza al sole, posso essere un onesto operaio. Inquinatore. La mia trincea d’amore è un avamposto talmente avanzato che alla fine sarà disertata anche da me»), ma la prossimità al demi-monde televisivo in cui da subito si aggira quest’agiografo della realtà antieroica che si vorrebbe l’estetizzante, nevrotico «Siti» («campione di mediocrità. La mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa») risolve tutto lo scenario in una mera replica puntualmente corretta da inserti saggistici che compendiano, con l’armamentario al completo, il più corrivo dettato sociologico su mass media e popular culture. Ciò rende la volontà di ripristinare la presenza dell’individuo «al tempo della fine dell’esperienza e dell’individualità come spot» tanto più debole in quanto posta in rapporto non conflittuale con «la post-realtà del regno dell’immagine», ma in posizione di falsa connivenza, flirtin’ with the disaster. L’assunto del Duca di Mantova, e cioè l’usurpazione del romanzesco ad opera della televisione, è contestato ma non confutato: «anziché ‘sfruttare’ la letteratura, il talk ed il reality sembrano inventati dal nuovo Potere per neutralizzarla, per dichiararla antiquata noiosa e forse terroristica. E il nostro sublime presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non è colui che ha rubato il mestiere a tutti gli scrittori italiani, ma colui che ha dato il maggior contributo per sostituire alla letteratura un’insulsa parodia. Solo perché costava meno» (chiaramente, laddove Siti vede una contrapposizione tra letteratura e televisione, Cordelli intende invece una sovrapposizione tra televisivo e romanzesco). I piani prospettici di quest’impianto realistico, quello narrante (bovaristico) e quello autoriale (flaubertiano), rimangono estranei all’effetto distorsivo esercitato dall’immaginario fictional; su ogni deformazione prevale sempre la volontà di “fare progetto”, quel tanto di esplicito, esplicativo e puntiglioso che abortisce qualsiasi opinione inattesa o la benché minima inusualità: il punto dolente di questa esasperante cedevolezza allo strapotere della massa è proprio l’imminente attestazione su un punto inscalfibile di indimostrabile ed indimostrata certezza. Quasi a salvare la preda dall’assedio della pagina, torna di nuovo, pericolosamente volitivo, il virus ironico, l’autoindulgenza e, dunque, la supponenza: nella contraddizione che s’apre tra confessione e romanzo, tra la massa dei “tutti” e quella dei “Siti” (affatto distinte l’una dall’altra), la televisione si insinua con un colpo di coda e tanto gli basta perché da un paradiso all’altro si salti facendo il passo dell’oca.

«In principio di ogni fase culturale si pone un’immagine informe e scontornata, suggestiva e perentoria, qualcosa come lo spettro di un’immagine, un suo ectoplasma trascendentale, che prescrive alla scienza e alle arti il loro cammino, inteso a ritrovare la collimazione tra il mondo dell’esperienza e quella intuitiva immagine del mondo, anteriore a qualsiasi esperienza.»

(Giacomo Debenedetti, Il personaggio-uomo)

In conclusione, l’atteggiamento adottato dagli scrittori esaminati nei confronti dello strumento televisivo segue, sostanzialmente, due direttrici di marcia, due orientamenti che non sono, poi, che due modi di intendere la funzione ed il senso della scrittura. Da un lato, marcando una netta differenza tra ciò che siamo e la nostra immagine come ce la restituisce lo schermo, si tenta di ricostruire, sebbene in opposizione, un’identità, il senso di un’appartenenza, la condivisione di un’esperienza sottraendola al vùlture mediatico. Il confronto a viso scoperto col monstrum, la ferma opposizione al tiranno diventano, cioè, l’occasione per recuperare un’esatta fisionomia individuale. Dall’altro, invece, quasi a riconoscere la bontà profetica dell’assunto che recita “the medium is the message”, la scrittura si pone, rispetto all’immaginario televisivo, al suo linguaggio, in una posizione mimetica: modellandovisi sopra, ne adotta forme, strutture e cadenze, in un pervertimento virtuale della narrazione che riduce la frase a mera didascalia, a commento. Ne esce, insomma, vicaria. Ma se si considera che il principale effetto del dispiegamento delle forze politiche del socing e dell’applicazione dei suoi protocolli ai comportamenti sociali è, come s’è detto, la messa al bando del personaggio-uomo dalla sfera pubblica come da quella privata, e che di questo spaccio i quattro romanzi in questione offrono, ciascuno a suo modo, la testimonianza della parola; ebbene, tutto ciò sommato al rapporto tra ostensione degli eventi e loro interpretazione (o, che è lo stesso, loro censura), nei due raggruppamenti individuati non possono non cogliersi divergenze interne più scriminanti ancora della macro-contrapposizione tra scrittura identitaria (o antagonista) e scrittura mimetica (o vicaria). Ne Il Duca di Mantova, il conflitto è evidente ed investe statuto e legittimazione dell’agire letterario. Nel cuore della battaglia l’individuo rinserra le fila di una comunità laterale e marginalizzata per ribadire la dichiarazione dei propri diritti dal momento che si consegna anima e corpo alle pagine di «un romanzo in forma di diario. O note di diario, una manciata di appunti, di schizzi, di ricordi, che infine potrebbero costituire un romanzo». All’annientamento del tessuto collettivo, che insegue la chimera di una perfetta ed universale corrispondenza tra modello e spettatore, Cordelli risponde con il richiamo a fare gruppo, a sostituire all’omologazione, al riflesso condizionato ed indotto, una dinamica comune – anche di confronto aspro e sincero – autentica ed irriducibile. Rispetto a questa prospettiva, quella di Scurati – l’altro campione della scrittura antagonista – si caratterizza per l’isolamento in cui inscrive la figura del personaggio, ritratto di spalle, nella sua condizione di superstite. La sopravvivenza si eleva a categoria spirituale, ma il mestiere di vivere (o sopravvivere) si traduce in una movimento regressivo verso la solitudine. Non c’è gruppo che tenga: nella clausura della coscienza contemporanea, l’uomo recupera una scuola di sentimenti intimi e naturali che ha per fine quello di ricomporre e licenziare i frammenti del passato – sia il proprio che quello Storico – per cucirsi addosso un carattere definito dai residui di ciò che è stato, di quanto ha trattenuto nello scempio dell’esistenza. Negli esempi di scrittura mimetica, invece, la deflagrazione del personaggio è completa e “sentita” solo nel caso del romanzo di Mauro Covacich. Nella parabola dell’uomo televisivo disegnata dallo scrittore triestino, ogni tratto di umana resistenza è annientato al punto che anche la più ferma opposizione, il gesto più eversivo (quello terroristico del dinamitardo) risponde alle precise regole di un codice spettacolare. Non c’è nulla, tra i gesti che compiamo, tra le farse che insceniamo, che, in radice, non sia già contenuto, fagocitato dall’immaginario contro cui ci scagliamo. Ogni reazione è stata prevista, ogni deviazione dalle traiettorie prestabilite considerata. In questa ferma duttilità si manifestano gli effetti più perniciosi di tutta l’autoironia di cui il medium televisivo è capace, ed in questa plastica sinuosità la coscienza implode e si smarrisce. In Troppi paradisi, al contrario, la resa è solo teorica, ma proprio in questo residuo di presenza a sé, negli spettri progressisti di un assoluto dispotismo illuminato, si nasconde il trionfo non più della letteratura ma di una realtà complessa che esige l’intervento ma sfugge alla pretesa di dominarla. Seguendo questa linea il romanzo commerciale indossa le vesti di quello d’arte, cede all’istituzione e, dunque, si impiega. La connivenza condiscendente è il motivo (draconiano?) per cui lo scrittore Siti assume di recitare questo o quel ruolo: si cala nel personaggio ma non del tutto, o non esattamente, perché con esso si identifica, non lo impersona. Nella sovrapposizione esce rassicurata non un’identità, com’è nella logica antagonista, né il referto di un decesso, come per la scrittura mimetica di Covacich, ma solo una mistificazione ulteriore: una semplice interpretazione che ha la pessima dote di fare, oggi e sempre, il gioco del più forte.

[Il saggio è apparso su «Caffè Illustrato», anno VII, n. 35, marzo/aprile 2007, pp. 58-68.]

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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