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Il dio dei denari

di Marco Rovelli

In coda al libro Lavorare uccide ho inserito una canzone che ho scritto nel mio viaggio in Italia attraverso le morti sul lavoro. Un’Italia, quella, che non perde il suo passo letale. Dopo gli incontri con le donne che mi dicevano l’assenza che ha riconfigurato le loro vite – matres dolorosae – ho scritto il testo de Il dio dei denari. Lo si può ascoltare, in una versione provvisoria, qui: il-dio-dei-denari

L’angelo schiavo, accecato, impotente
sigilla di sangue innocente le porte
poi viene il signore onnipotente
e alle soglie imbiancate scombina la sorte

Siede per terra, la donna E soffia via la cenere
Guarda il cielo di sbieco E non può più attendere
Intorno tutto è infecondo Negli occhi il deserto
In fine è un grido che s’alza Dal suo seno aperto

Eccolo il dio dei denari
Che brucia vite e ne fa scorta
Macchina viva, carne morta
Non tutti gli umani sono uguali
Eccolo il dio dei denari

Questo tempo labile ha un segno indelebile
che chiama a raccolta la forza dei mari
per aprire bocche dischiudere mani
ed un’altra vita sia in salvo domani.

Il passato è davanti allo sguardo disperso ed impuro
La donna si strappa di bocca il tempo futuro
Si alza e conosce da un segno che è tempo di andare
Impone un ritmo al suo passo E’ pronta a parlare

Eccolo il dio dei denari
Che brucia vite e ne fa scorta
Macchina viva, carne morta
Non tutti gli umani sono uguali
Eccolo il dio dei denari

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28 Commenti

  1. Mi rattrista e mi fa rabbia, ascoltare questa bella canzone di Marco Rovelli.

    Riesumare il nome “Dio dei Denari”, però, mitologizzare i termini anodini e ingannevoli: “capitale”, “profitto” – che come termini ‘tecnici’ guadagnano perennemente al “Dio” la propria “necessaria” legittimità – rende possibile, oltre tutto, per chi lo voglia, rendersi conto di quanto ognuno di noi sia compromesso in questo culto.
    Di quanto, ognuno di noi, in percentuale “misurabile”, sia responsabile di queste morti.

    Soltanto per particolari coincidenze di termini con la canzone di Marco, riporto qui una mia poesia per le “Matres Dolorosae”, dall’unico libro pubblicato in vita mia, e pagato da me: “I tabù dell’incerto”, Cesati editore, 1985.

    Dialogo banale con paesaggio.

    Squallido affare
    , disse il Corvo al Lupo
    le strade sono piene di coriandoli
    e l’aria asciutta
    i vermi sono fermi sulla soglia
    e non lasciano vedere
    un canto grigio si leva sopra i lutti
    le madri si coprono d’inedia
    e l’aria punge
    un’alba fresca è cosa del passato

    Ma vedi
    , disse il Lupo al Corvo
    le madri non aspettano a vedere
    il sole che sorge dietro la collina
    la loro vita è fatta di rinunce
    pagano il prezzo
    con la bocca chiusa
    gettando sguardi mai troppo lontando
    così la vista non le turba mai
    le storie che raccontano tra loro
    non sembrano importanti
    si tratta per lo più di parti…

    Il dialogo interrotto
    lascia le bestie mute

    il cielo si tinge di un colore, rosso
    un fumo denso avvolge quel paesaggio

    il Corvo fugge e resta il Lupo
    : forse è una madre, con tutto quel coraggio

  2. Emozionante proprio e perchè è “canzone”.
    Arriva per corde a core (cor-cordis) non per vie di carta.
    Per aria e orecchio.
    Il Dio dei Denari lo vedo appollaiato dovunque: aria, acqua, terra, anche sul barattolino della sottomarca di tonno in scatola, sulla mozzarella di bufala di dubbia origine, sui biscotti scadenti per far quadrare i mesi, che con quel che c’è dentro erodono villi intestinali e cellule e sangue e vite.
    Grazie.

    ,\\’

  3. grazie Marco, è la tua vena migliore che non si perde. Lascia stare chi ritiene “capitale”, “profitto” “termini anodini e ingannevoli”; mi pare che per nessuno di noi lo siano. Ciao.

  4. Scusa Marco, se imbratto ancora una lavagna su cui, probabilmente, per qualcuno, non dovrei, povero, nemmeno comparire.
    Ma una domanda s’impone, sperando che Sparz risponda chiaramente :
    chi è “noi”?

  5. Impaziente come sono di ottenere una risposta e temendo che Sparz abbia qualche difficoltà a rispondere alla mia domanda, [dal mio posto di lavoro] sono in grado di offrigli uno spunto:

    *

    Insomma, la mia idea era che lo sviluppo di *philia* è il presupposto per la ricerca della verità.
    Questa *philia* deve trovare un clima in cui germogliare, e non la si può ritenere il risultato di virtù civiche. Bisogna porre molta cura a che non sia esclusiva; sempre una candela accesa, con la certezza che qualcun altro busserà alla porta, e la candela rappresenta quella persona.
    Dio sa chi arriva alla porta

    Ma se la verità viene ricercata sul presupposto che essa nasca da un “noi” arbitrario, *sui generis*[…]se la ricerca della verità si basa sulla creazione del “noi”, allora dobbiamo lasciar cadere alcune forme di convenienza, di etichetta, tipiche dell’ambiente universitatario e accademico, e persino un certo numero di convenzioni disciplinari e metodologiche che sono molto vischiose.

    IVAN ILLICH, Pervertimento del cristianesimo, Quodlibet, 2008, pag. 99.

  6. Mi fa piacere che arrivi.
    Conte, l’arrangiamento è mio (per esempio l’idea di tessitura del violoncello – non è un violino, so che la registrazione non è ottima e può trarre in inganno), insieme ai ragazzi del giovane gruppo rock Kobayashi.

    Se volete ascoltare qualcosa di più, andate sul myspace: http://www.myspace.com/marcorovellisbandati. Lì c’è anche una sorta di manifesto/dichiarazione d’intenti: che si intitola, guarda il caso, “Noi”.

  7. Cossu, finché lei va avanti a citazioni e non entra nel merito, io, come già in altri contesti, non capisco quel che dice. Dicendo noi indicavo gli indiani. Pronto a smentirmi se c’è un indiano, o indiana che ritenga che profitto e capitale siano termini anodini e ingannevoli. E con ciò la prego caldamente di non tirarmi più in ballo.

  8. Grazie di cuore, Marco, davvero bella. posso aggiungermi al tuo coro di protesta? ti lascio una mia poesia (con tante altre voci). un abbraccio.

    MACCHINE

    L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro
    un gigantesco presepe, illuminato dai generatori
    con i corpi dei pastori- operai chiusi in scatole da
    imballaggio, da rispedire al mittente dentro un legno
    di noce su misura. con le macchine ancora attaccate in
    soffocante abbraccio ermafrodito: l’epitelio
    come guaina che fascia i sedili, le membra sono
    guarnizioni che attenuano la durezza dei materiali
    industriali. tutto ciò conferisce al paesaggio un
    aspetto spettrale o di calma apparente, un silenzio
    del bianco come di ovatta o d’ amnio, la sensazione
    del bianco. come di morti bianche.

    QUI DENTRO NON C’E’ NULLA PER CUI VALGA
    LA PENA DI MORIRE.

    i caduti come vittime collaterali delle sfide tra imprese
    corollario all’assioma massimo profitto a costo zero.
    una singola esistenza è troppo poco, è un anello della
    catena, è pretesto, un incidente di percorso. e nessuno
    che fermi la catena, il montaggio. ma cosa resta dei
    tasselli conficcati a cuneo tra le pareti domestiche o
    nelle teste dei bambini, delle madri? cosa resta?

    di quelle morti irragionevoli che ci sfilano davanti
    come a una parata?

    a suo agio tra cantieri e impalcature la morte gira
    senza imbracatura e cancella i lineamenti sotto
    le visiere, mentre le stesse macchine fatte per
    distendere allungano le nostre pappe liofilizzate,
    le nostre vite al dettaglio da portare a spasso nel
    carrello della spesa, con le menti addestrate da
    quelle scatolette che ci imbottiscono gli occhi
    di prati di spray anziché di deserto. e la conta
    dei morti non è inclusa nel prezzo.

    c’è poi chi non trovandosi troppo a suo agio tra
    pezzi di lamiera e gabbie contorte ogni notte
    precipita dall’ultimo piano degli incubi della
    sua carrozzina e chiede alla madre ogni notte
    di aiutarlo a morire. ma quelle macchine che
    gli hanno preso la vita, sono le stesse che non
    allentano la stretta stritolandolo nella morsa
    del limbo, sospeso ad libitum, a loro insindacabile
    giudizio. col senno di poi si ingegnano a montarci
    su strutture a graticcio per fare grosse grigliate,
    rosolare enormi salsicce che chiamano vite
    ….per accanimento…
    con tutte le viscere stracciate in arcipelago
    e il corpo cosparso da un bagliore di viti, che
    sembra un cristo in croce o del paesaggio
    chiamarla vita è un progetto ambizioso
    quando tutti quei tubicini idraulici spuntano
    dalle narici, i bracci, gli ani per spremere fuori
    la vita dai contorni, ed infieriscono con la flora
    batterica o intestinale, ma senza allontanarsi
    troppo dal tubo o dalla macchina, facendo
    sì che emetta braccia e gambe e dia inizio
    al balletto meccanico, ruotando fettucce e
    triturando i corpi come compensato che
    piovono segatura o sangue a seconda dei
    casi -chiamarla vita è così doloroso, quando
    la vita ti guarda e ti chiede cos’altro sai fare
    oltre a infilzarti la testa con una spilla da balia

    nutrimento e idratazione garantite fino ad esaurimento

    se tutte le vostre facoltà fossero sterminate, continuereste
    a danzare? quello che conta è la fermentazione
    degli enzimi. qui dentro non c’è nulla per cui
    valga la pena.

  9. Grazie, Maria. Martedì prossimo sono a presentare il libro a Napoli, all’Istituto di studi filosofici, vieni? (magari potresti leggere la tua poesia, non vale la pena, no – e il finale è terribilmente forte).

  10. Gentilissimo Sparz,
    non può averlo dimenticato, perché è successo da non molto: è lei che mi ha tirato in ballo:”Lascia stare chi ritiene…”
    Io mi ritengo un “indiano”: quindi, o Sparz mi nega il diritto di fregiarmi di questa definizione – come io sospetto – e quindi mi dà ragione, perchè l’avevo già dichiarato, o non me lo nega, e allora è lui che è costretto a smentirsi, come si è detto pronto a fare, e io ho nuovamente ragione.
    Poi, un giorno, con un po’ meno di malanimo, cercherò di spiegare perché quei termini, ormai solo “accademici” e non più nemmeno “propagandistici”, occultino, invece di svelare, il meccanismo profondo che agisce in questo nostro mondo globalizzato, rendendo noi occidentali, tutti, schiavisti e approfittatori del lavoro e delle sofferenze
    dei “nostri” schivizzati fratelli, dannati, non più della terra, ma dalla nostra spesa al supermercato, come dice Orsola, e dalle nostre case mastrolindo.

  11. indiani e indiane sono i redattori e le redattrici di Nazione Indiana, e lei Cossu, non lo è, indipendentemente da quello che lei ritiene. Fine commenti.

  12. I Kobayashi!!!! Li ho mandati in finale a Mantova, l’anno scorso. Se li vedi diglielo! (mo’ accendo la radio)

  13. Non sono quei Kobayashi, Gianni, trattasi di inquietante caso di ononimia: quelli mantovani sono un gruppo funk, i “miei” Koba (assai più giovani anagraficamente) sono potentemente rock… Ma io credo che il senso più profondo della vita si risolva nel suo essere sterminata matassa di coincidenze, dunque…

  14. ah, allora…coincidenze per coincidenze…arrivo giusto in tempo per la radio! marco…io leggere no, però sarebbe molto bello assistere e incontrarti, ascoltari dal vivo, non ho ancora avuto occasione, infatti…scrivimi mail!

  15. i Kobayashi che conosco io erano un gruppo di ragazzini, molto rockettari. Ma magari mo’ confondo. Ma ora basta che stai per iniziare a parlare in radio.

  16. La causa delle morti sul lavoro è la faciloneria italiana, una faciloneria creativa che ci permette di essere un popolo di poeti, santi e navigatori senza carte nautiche.

  17. sì, come no, Stella, la colpa è sempre tutta delle vittime, siamo noi che pur di non indossare il caschetto preferiamo andarci ad ammazzare, ma per favore, ma cosa dice?

  18. Ora solo posso ascoltare: complimenti!
    E’ forte, terribile, straziante.

    E il post è illuminato con l’accento della poesia dura, ardente di Maria: un vento di fuoco.

    Grazia a tutti i due.

  19. @ Marco Rovelli

    Complimenti.
    Avessi scommesso, avrei vinto alla grande (anche sul violoncello, riconosciuto al primo ascolto).

    Hai pensato a una versione acustica? Secondo me sarebbe ancora più bella. Prova con una strumentazione del genere: chitarra dodici corde, contrabbasso, violoncello, percussioni.

    Non so bene perché, ma pensando anche al timbro molto “elastico” della tua voce, mi sono venuti in mente il Joe Henry di “Shuffletown” e alcuni arrangiamenti creati da Lee Underwood e Carter Collins per Tim Buckley.

  20. “indiani e indiane sono i redattori e le redattrici di Nazione Indiana, e lei Cossu, non lo è, indipendentemente da quello che lei ritiene”

    beh, @sparz, magari Gandhi non sarebbe d’accordo.
    E forse neppure Toro Seduto.

  21. E questa era la motivazione originaria, se non sbaglio, per la scelta del nome:

    “«Perché ci piaceva l’idea di una nazione composta da molti popoli diversi, orgogliosamente diversi e orgogliosamente liberi di migrare attraverso le loro praterie intrecciando scambi e confronti, e a volte anche scontri».

    Ora è vero che molta acqua è passata sotto i ponti, ma dispiace vedere che ha lavato così bene.

  22. Conte, l’idea di un arrangiamento acustico del genere che proponi sarebbe ottimale, lo credo anch’io. Chissà che un giorno non arrivi l’occasione di esperirla, mi piacerebbe molto una simile formazione.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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