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A ritroso, viola assoluto

di Esther Grotti

Piccole donne crescono. Dentro una Panda. Senza conoscersi simili. Quando il dolore arriva camminiamo. Partiamo da Genova come colombe. Verso nuove terre in cui arare il destino. Qui le prostitute si offrono alle finestre. Hanno le carni chiare e aperte come le pagine mistiche del mattino. In fronte a Palazzo San Giorgio vorrei qualcuno cui dettare la mia vita. Prima che mi scivoli via sconosciuta. Partiamo gettando dal finestrino il passato. Gridando. Ridendo. Senza alcuna musica. Non esiste una colonna sonora per tutti i nostri giorni. Banali e unici. Dispersi. L’autostrada è ridicola di mezzi affannati verso le vacanze. Il gruppo in diaspora si riunirà tra i dirupi francesi. E il viola assoluto della lavanda. Hai fatto bene a non innamorarti di me.
Sarei entrata dentro i tuoi pori. Liquida. Confondendomi tra le tue cellule come un tumore. Luce è minuta e immensa. Le sue palpebre tremano di addio. Domani è un altro giorno. Sì. Ma quando arriva domani? La piccola Panda attraversa la frontiera sul confine fine dei ricordi. La campagna quieta ci inghiotte dopo Nizza e i suoi miraggi di ostriche. Vittoria esplode di vita e di uomini che vanno vengono ritornano. E ancora vanno. E ancora ritornano. Vittoria piccola onda di mare. Vittoria lunga di amori. Finalmente camminiamo. In ordinata solitudine di gruppo. Il canyon del Verdon segue un serpente imprevedibile d’acqua. Hai fatto bene a non innamorarti di me. Avremmo confuso di tenerezza le zolle del giardino. Appesi al volo circolare delle rondini. Rischiando d’essere felici. Il sentiero Martel ci costringe all’ostinazione e ai funambolismi. Sospesa tra roccia e niente dimentico il nome delle cose. Dolores veleggia sulla sua ironia. Affusolata come le sue gambe. E come la sua paura del vuoto. Chiediamo aiuto a dei pellegrini francesi. La nostra richiesta viene scambiata per una insolita questua ai lati di un sentiero esposto. Italiani brava gente. Tirano a campare anche sui dirupi più scoscesi. La Brèche Imbert si apre come un tuffo all’infinito. Cromatico e esatto. Marc il nostro capitano tra le rocce ha la testa ubriaca di nuvole. Si perde come Enrique. E sostiene che è Enrique a perdersi. E’ malato di timidezza che nasconde dietro boccoli di putto tardorinascimentale. Inutili le interminabili lezioni femminili su come predare una femmina. Le tre Torri di Trescaires mi dicono che non ha mai fatto l’amore. Dolores e il conte ingegnere si perdono in eloqui degni della più compunta nobiltà. Le loro parole si alternano ritmate. Incastonate tra un silenzio e l’altro. Inspirazione. Espirazione. Mentre Notre Dame du Roc biancheggia candida oltre le notti di Castellane. Marc notturnamente fa miracoli. Con sguardo coupé e cervello inamidato mi svela gli arcani maggiori. Un matto. Un bagatto. Fors’anche un gatto.
Ho fatto bene a non innamorarmi di te.

(Immagine: Gene Davis – Lilac)

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8 Commenti

  1. Complimenti davvero alla prosa di Esther, sbalestrata sull’umido poetico. Un buon esempio da seguire orma dopo orma, anche per la sua cadenza femminea, per il suo disegno che tutto stringe nello sguardo sospeso sull’avvenente e sul deludente. Un avvitarsi sul quotidiano senza ragioni se non l’affastellamento in un adorato e desiderato ordine sparso.

    mdp

  2. Sì, Esther è poetessa del verso infinitesimale ma qui prova con una prosa “di vita” che mi è parsa veramente splendida. Vorrei che scrivesse di più, la nostra Estherazy.

    Soldato, speriamo che tu non scherzi…

  3. Scherzo?

    Ho passato decenni, una vita, sommerso da titoli, migliaia, migliaia, migliaia, senza avere un dritta genuina – marketing e prostituzione giornalistica – e ora che trovo sinceri amici che mi porgono giornalmente magnifici canestri di frutta e sublimi composizioni floreali, non dovrei esclamare: “Ancora!”?

    Sono troppo vizioso?

  4. Naturalmente la prosa di Esther mi entusiasma sinceramente.
    Coinvolgendomi, oltre tutto, con quell’inizio, quella partenza
    da Genova: la mia prima “città”. Vista, immersa in una leggera foschia,
    un mattino di fine anni 50 da una nave, bianca, poggiata alla corona
    dei monti, mentre le grida dei gabbiani facevano da corona sonora.
    E con cui ho sempre conservato un particolare rapporto.

    Se mi è perdonato farò omaggio a Esther e a Franz – che forse le
    ha già lette – di queste poche, umili, righe, che certamente non hanno
    alcuna possibilità di distogliere l’attenzione da cose ben più importanti:

    per Nietzsche
    Valéry

    Dino Campana
    Paolo Conte

    Che sarà la manìa?

    ( teoreticamente è un’asta di segni
    dimenticati sui Monti di Pegli ).

    E’ Genova per noi.

    La mattina ti svegli molto presto
    e cerchi un pubblico per trasformare
    la vergogna che ti rode ogni piccolo pelo
    in applausi.

    (Un condono).

    Ma non ti basta.

    Vuoi qualcosa di più pregnante

    (meno imbarazzante per gli altri
    che devono assistere a questo assurdo divertimento
    come fosse un pentimento tardivo)

    di esaltante per l’anima,
    anche se vergognoso per la mente.

    Cerchi realtà più sceme:
    una scena, un teatro.

    “Ridetemi come il vento ride gli alberi,
    come la penna stride sul foglio imbrattato”

    questo vi raccomando,
    mi raccomando.

    Onestamente,
    la manìa allarga la visione delle cose:
    il caro babbo Platone lo ha ripetuto più volte
    (accennandolo ancora più spesso)

    ma lui era un politico,
    teneva il piede in due staffe:

    katèchon per gli adepti,
    catechismo da spargere ai piccoli.

    G.C.

  5. *Marco, prosa sbalestratta mi garba tanto, grazie

    *Soldato blu, fai bene ad essere avido, e sì, sulla malìa di genova non si
    discute

    *Aitan, tu non fai bene ad essere avido, che mi mordi letterariamente da
    sempre, se esiste un sempre :-))

    *Franz , sai che sono perennemente in bilico tra la scrittura e la frittura:-)

    *smaniz, grazie, amo la solitudine quanto la compagnia

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