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Autismi 4 – La mia città (1a parte)

giovanni_segantini_002 di Giacomo Sartori

La mia città è una città grigia infossata in una valle grigia costeggiata da minacciose montagne grigie. Il cielo è grigio, il fiume che si trascina stancamente è grigio, e anche gli stentati alberi sono grigi, con appena qualche moribondo riflesso verde marcio. Il dilagante cemento è paradigmaticamente grigio, così come i ridondanti asfaltamenti e le fumosità imprigionate dalla nefasta conformazione orografica. Persino i laghi sono stagnanti e grigi. Nulla da stupirsi che anche gli abitanti siano grigi. Il sole poveretto è costretto a tramontare altissimo nel cielo, come un disgraziato che venga impiccato in cima ad un funambolico patibolo. Ogni sera è lo stesso affliggente spettacolo. Per fortuna molto spesso piove, e quindi l’esecuzione avviene dietro una cortina grigia di nuvole.

La mia città è il posto tipico dove è impossibile essere felici. Metà dei cittadini ne sono coscienti, e cercano in tutti i modi di fuggire, o per lo meno sono affranti al pensiero di non poter partire per questo o quel motivo. Riflettono per lo più al suicidio. L’altra metà stanno benissimo dove stanno, e per capirli ci vorrebbero degli studi neuropsichiatrici e psicopatologici più approfonditi: a tutt’oggi resta un enigma non chiarito dalla scienza. Certo il consumo smodato di distillati alcolici locali non può essere considerato l’unica causa.

Il problema naturalmente sono le montagne, che impediscono allo sguardo di spaziare e di muoversi a piacimento, di ritemprarsi, di riposarsi. Per non parlare delle idee, che appena nate sbattono contro le pareti di roccia, e muoiono tra atroci dolori. Ma naturalmente anche la respirazione ne risente. E le ossa si riempiono di fungosa umidità. In effetti tutto il fisico sopravvive a stento. I danni più grossi sono però all’anima. Che gli abitanti se ne rendano conto o meno i loro corpi cadono a pezzi, e le loro anime agonizzano.

I pieghevoli turistici mostrano però boschi ebbri di clorofilla, prati fioriti, laghi e cieli color topazio, rutilanti autunni, distese innevate accecanti di sole, smaglianti sorrisi, invitanti quarti di formaggio. Se uno guarda i pieghevoli turistici si fa un’idea molto distorta della mia città e delle montagne circostanti, si immagina un vero e proprio paradiso. I turisti ci cascano, e accorrono a frotte sia dal sud che da nord. Arrivano con automobili cariche di sci, tavole da surf, biciclette, pattini, racchette, mazze da golf, creme solari, macchine fotografiche, paracaduti, corde, ramponi, pinne, aquiloni, canne da pesca, salvagenti, attrezzature di ogni genere. Si potrebbe immaginare che una volta scesi dai loro veicoli la delusione li lasci esterrefatti, il buon senso vorrebbe che facciano seduta stante dietro-front. Sono invece talmente irretiti dalla propaganda turistica che pensano di essere effettivamente in un posto meraviglioso. Permangono una settimana, o due, o un mese, e per tutto il tempo si immaginano di aggirarsi nell’eden inventato dai pieghevoli turistici. Tutto attorno a loro è grigio e spento, ogni dettaglio è brutto e triste, intrinsecamente avvilente, gli autoctoni sono tetri, il mangiare è pessimo, ma loro non tentennano. Tornano a casa fanaticamente appagati, e decantano ad amici e conoscenti, beninteso esagerando i lati positivi, come fa sempre chi torna dalle vacanze, le incredibili amenità che hanno visto e toccato con mano. È un vero e proprio circolo vizioso, del quale si possono immaginare i danni: ogni anno affluisce un numero maggiore di invasati, sempre più follemente suggestionati, sempre più difficilmente disilludibili.

I menzogneri pieghevoli turistici non sono improvvisati in quattro e quattr’otto, sono il frutto di un’arte che nella mia città è stata coltivata e perfezionata nel corso dei secoli, sino a erigersi a supremo e virtuosistico protocollo di vita: l’ipocrisia. Ogni infimo pieghevole turistico ha dietro in realtà cinquecento anni di approfondita ricerca teorica nel campo dell’ipocrisia, con rimbalzi speculativi che hanno influito sulle vicende storiche del mondo intero. Ma naturalmente nulla potrebbe la dottrina senza una adeguata educazione impartita fin dalla più tenera infanzia dalle famiglie, senza le autonome competenze derivate dalla pratica quotidiana, da un costante allenamento. Le menzogne dei pieghevoli turistici sono un esempio tra i tanti della professionale e arrogante raffinatezza alla quale è giunta l’ipocrisia dalle mie parti. Gli abitanti della mia città maneggiano l’ipocrisia con la dimestichezza con la quale a Murano i vetrai soffiano il vetro, con la quale i giocolieri fanno girare i birilli sopra di loro. Ogni mio concittadino è in realtà in primo luogo un virtuoso dell’enigmatica disciplina dell’ipocrisia.

Già il chiamarla città è un’impostura che andrebbe perseguita legalmente. Bisognerebbe chiamarla cittadina, paesone, sperduta e inospitale borgata, o meglio ancora recinto carcerario, zona pericolosa, qualcosa del genere. Già questa scandalosa falsità la dice lunga. Quello che però è più grave è che ogni misfatto locale – a patto beninteso che venga perpetrato da criminali autoctoni – viene travestito con un eufemismo appropriato. L’adesione incondizionata al fascismo, con la più alta percentuale di iscritti al partito fascista a livello nazionale, viene definita fredda accoglienza, la zelante collaborazione con i nazisti viene chiamata Resistenza, il giogo della religione viene chiamato tradizione cattolica, gli affaristi e i governanti colpevoli di ogni sorta di corruzioni e furti vengono chiamati Egregio Direttore e Egregio Presidente, i luna-park sciistici vengono definiti parchi naturali, i preti pedofili colti in flagrante Padre Tale o Padre Tal Altro, il genocidio delle specie animali e vegetali sviluppo della viabilità e delle infrastrutture, i vigneti e i frutteti avvelenati per l’eternità dai pesticidi zone rurali di pregio, e via dicendo.

Prima ancora di aver messo piede nella mia città mi ritrovo prostrato e avvilito. Per arrivarci la ferrovia è costretta a percorrere per decine e decine di chilometri l’angusta e grigia valle fiancheggiata dalle grigie pareti verticali delle grigie montagne. Il cielo è ridotto a una esigua fessura che trasmette una luce senza più vita, come l’avaro lucernario della corte di una casa di detenzione. E naturalmente parallelo ai binari è sempre presente il plumbeo fiume. Ogni tanto si intravede un grigio villaggio, tiranneggiato da incombenti pareti grigie, assediato dalle minacciose serpentine translucide del fiume. Mano a mano che il treno avanza è impossibile non notare che le facce dei viaggiatori diventano sempre più tirate e sempre più livide. Le parole si fanno più rade, e la voglia di scherzare svapora. Chi può scendere si affretta a scendere, e si allontana senza voltarsi indietro. Io stesso mi sento più grigio. Più afflitto e più grigio.

Quando esco dalla stazione mi accorgo che respiro male, che mi manca l’aria. Evito di fissare le montagne tutt’attorno, ma sento il loro peso sul diaframma, sull’anima. Anche se guardo per terra avverto la loro ingombrante presenza, sento che non sono più libero. Non è solo una questione di insufficiente ricambio d’aria, c’entra anche l’imputridimento incestuoso delle idee, la mancanza di prospettive filosofiche. Avrei solo voglia di ripartire. Più di una volta sono effettivamente ripartito.

Ma è soprattutto quando salgo sull’autobus e sento parlare i passeggeri che mi rendo conto del mio errore. Ma parlare non è il termine giusto: più propriamente bofonchiano, mugugnano, grugniscono. I versi che si addicono con gli impulsi appena umani dei loro cervelli e dei loro spiriti. Non è possibile che i miei concittadini siano così gretti, mi dico, sentendomi invadere dallo scoraggiamento. Non è possibile che i loro sentimenti siano così rudimentali, così centrati sulle pulsioni meno addomesticate. Non è possibile che non siano sfiorati dal minimo afflato metafisico. Non è possibile che la loro lingua sia così rozza e rispecchi così fedelmente la loro indigenza antropologica. Non è possibile che non sappiano articolare le parole più semplici, che abbiano un’inflessione così degradante. Non è possibile che con tutte queste tare si sentano pur sempre molto furbi, siano così presuntuosi e così perfidi. Non è possibile che la storia si sia accanita in questo modo su questo malaugurato posto condannato dalla tettonica. Non è possibile che io sia nato proprio qui. Non è possibile che io abbia fatto ancora una volta l’errore di tornare.

Stando alle classifiche la mia città è la migliore città della nazione, la più vivibile. O anche la seconda, o la terza, a seconda degli anni. Ma comunque sempre in testa. Questo naturalmente è un altro esempio delle vette che può raggiungere l’arte dell’ipocrisia. I miei concittadini sono ipocriti anche con loro stessi, si fanno credere che la loro città sia la migliore di tutto il paese. E subito se ne inorgogliscono. Poi è un gioco da ragazzi farlo credere anche agli altri, una volta essi stessi fanaticamente convinti. I poveri giudici che stilano le classifiche sono vittime ignare, come un qualsiasi norvegese che faccia delle compere nel porto di Napoli. Ci cascano.

Nella mia cittadina il tasso di suicidi è ovviamente cinque volte superiore alla media nazionale. Le cifre parlano – gridano – da sole. Ma più semplicemente ogni cittadino ha molti parenti e amici e compagni di scuola e vicini di casa che si sono suicidati. Fare una festa diventa quasi sempre un problema: si sono già tutti suicidati. Chiunque capisca qualcosa prova il desiderio di porre fine ai suoi giorni, e spesso lo fa davvero, ben contento che quel supplizio sia finalmente finito. Ma spesso anche chi non capisce niente si ritrova a darsi da fare per spararsi in una tempia o saltare giù da una parete di roccia. Un inventario anche parziale delle modalità sarebbe troppo lungo: la mia città è il posto al mondo in cui sono state recensite il maggior numero di forme diverse di suicidio o di tentativo di suicidio. C’è chi ci ha tentato inghiottendo cucchiate di lucido da scarpe blu notte, o collegando con un tubo di gomma la propria stanza da letto situata al terzo piano allo scappamento della motocicletta del vicino parcheggiata in garage. L’unica sfera dove gli abitanti mostrano della fantasia è il suicidio. È perfettamente comprensibile. Io stesso ho provato infinite volte il desiderio di suicidarmi, io stesso mi ritrovo molto spesso a confrontare mentalmente i pro e i contro dei vari metodi di suicidio.

La forma di suicidio più classica, quella di gran lungo considerata più normale, più socialmente neutra, tanto da diventare una metafora di tutte le altre, consiste nel buttarsi nel fiume. Se non si sa nuotare ci si tuffa semplicemente nelle acque grigie del fiume. Se invece si sa nuotare ci si riempie preventivamente le tasche di pietre grigie, o comunque si fissano in qualche modo al proprio corpo dei pesi grigi. In entrambi i casi il suicidato viene poi ripescato quaranta chilometri più a valle, in un apposito tetro specchio d’acqua delimitato da una grigia diga. Il pretesto della diga è la produzione di energia elettrica, ma tutti sanno che serve in realtà a quello. Se quelle schiere di grigi cadaveri arrivassero fino alla città seguente o addirittura al mare, tutti ne parlerebbero, e magari anche i turisti verrebbero a saperlo, quindi si preferisce intercettarli lì. In attesa di venire ripescati e asciugati i suicidati vengono chiamati persone disperse, ma in realtà tutti sanno cosa bisogna intendere.

Mi verrebbe voglia di buttarmi nel fiume, si sente dire molto spesso camminando per strada. Il che non vuol dire che il locutore stia necessariamente pensando alla forma particolare di suicidio costituita dall’annegamento nel fiume, con o senza pietre nelle tasche. È appunto un’intenzione generica. Io per esempio non mi suiciderei mai immergendomi in quelle acque livide. La considero una forma di suicidio troppo triste, deprimente solo a pensarci: senza rendersi conto gli aborigeni si immolano alla causa stessa della loro rovina, il grigiume. Io anche nel mio suicidio ci terrei a metterci un po’ di classe, ci terrei ad avere del colore. Mi annegherei in una botte di vernice scarlatta, per esempio, o mi impiccherei con una maglietta verde smeraldo e una corda arancione.

Quando ero adolescente camminavo rigido e terrorizzato per quelle vie sinistre, fiaccato da un senso di oppressione che mi impediva di respirare. Ogni passo era una sofferenza: avevo l’impressione di essere osservato o seguito, avevo l’impressione che quelle vie non mi lasciassero né camminare né respirare. Guardavo le montagne, e mi veniva voglia di mettere la testa in un tombino e lasciarcela per sempre. Pensavo che dipendesse da me. Pensavo di non essermi ancora ben abituato all’esistenza, pensavo che quella fosse la vita. Poi un po’ alla volta ho capito che la mia infelicità era dovuta solo al fatto che ero nato e vissuto lì.

Anche tutte le altre attività che svolgevo nella mia città erano calamitose. Beninteso il supplizio più sistematico e meglio organizzato, il più atroce, era la scuola. La materia principale era l’ipocrisia, e io ho sempre avuto difficoltà a impararla. Mi sembrava di aver capito, e invece facevo male gli esercizi, e venivo redarguito. Nonostante l’impegno che ci mettevo i progressi erano lentissimi, largamente al di sotto della media della classe. La seconda materia per ordine di importanza, ma per molti versi legata alla prima, era la religione cattolica. E pure lì zoppicavo parecchio. Ma anche le cosiddette amicizie e le cosiddette attività ricreative erano un tormento. I cosiddetti amichetti si rivelavano quasi sempre dei temibili delatori, dei doppiogiochisti, dei traditori belli e buoni. E già il primo corso di tennis sono stato dileggiato pubblicamente da un infido maestro di tennis perché le mie calze erano viola invece che bianche o meglio ancora grigie: la mia attività tennistica è finita lì. E già alla terza lezione privata di francese l’insegnante mi accusò di avere infilato io nel cuscino della sua sedia lo spillo conficcatosele nel sedere: la mia complice, più addento di me all’arte dell’ipocrisia, aveva fatto credere che ero stato solo io. Finito anche il francese.

Essere nati in una cittadina del genere costituisce un trauma dal quale è difficile riprendersi, se non forse impossibile. Si ha un bel trasferirsi agli esatti antipodi della terra, familiarizzarsi con culture radicalmente diverse, rintanarsi in luoghi sprovvisti di collegamenti telefonici e postali, cambiare lingua e abitudini, fare psicoterapie, rifarsi la faccia, cambiare sesso: qualcosa di quello specifico grigiore montagnoso ti rimane pur sempre incollato addosso. Si hanno più probabilità di venircene fuori quando si è stati allevati da un padre serial killer e una madre schizofrenica: la resilienza ha un limite. Per quanto si faccia non si riesce a liberarsi completamente dell’infelicità.

Naturalmente appena ho potuto me ne sono andato. Il primo pretesto che mi è passato per la testa sono stati gli studi agronomici tropicali, e allora ho usato gli studi agronomici tropicali, ma avrebbe potuto essere una qualunque specialità circense, come ad esempio il lancio dei coltelli, o anche la navigazione solitaria, qualsiasi attività che implicasse una partenza immediata. Con l’alibi che dovevo studiare tutti gli aspetti dell’agronomia tropicale non sono più tornato per anni e anni. La mia famiglia e gli altri credevano che stessi studiando a fondo l’agronomia tropicale, e poi anche la fitosociologia tropicale, e naturalmente anche la paleopedologia tropicale, e poi ancora lavorando per farmi un’esperienza nel campo dell’agronomia e della fitosociologia e della paleopedologia tropicali, lavorando in paesi sempre più lontani e difficilmente raggiungibili, in realtà ero semplicemente in fuga. Il lavoro e tutto il resto erano solo dei pretesti per non tornare nella mia città. Lo stesso matrimonio con una straniera, una straniera di un altro continente, può essere considerato un pretesto per proseguire la fuga. Anche mio fratello si è sposato naturalmente con una straniera di un altro continente.

(continua)

[Immagine: Giovanni Segantini, Trittico della natura. La morte, 1898, Winterthur, Stiftung für Kunst, Kultur und Geschichte – Carboncino e matita dura su carta, cm 137 x 127.]

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10 Commenti

  1. Intrigante questo racconto. Anche se non offre eccessive sorprese.
    Queste, per me, vengono da fuori del testo.
    L’autore fa dipendere la cupa atmosfera della sua cittadina dal fatto che sia circondata da montagne. Il grigio, il tramonto alto ecc.
    Penso che sbagli.
    Conosco cittadine, paesoni e borgate di mare, con colori e tramonti al livello giusto, in cui succedono le stesse cose. E in cui l’umore degi abitanti è esattemente lo stesso.
    Questa illusione che l’impulso suicida dipenda dalle condizioni particolari in cui ci tocca vivere, è un modo per conservare la speranza che dalle altre parti le cose siano diverse. Che la fuga possa servire a qualcosa.
    Non è vero.

  2. Pagine bellissime.
    Come Carlo Cannelle “questo significa scrivere.”
    Uno sguardo su un mondo grigio di montagna, rinchiuso, dove la sorgente della scrittura è la sola cosa limpida. C’è un ritratto duro
    del pensiero che agonizza, si urta contro il sole irraggiungibile.
    Il morso della scittura à illuminato grazia a la metafora; quella del sole
    è magnifica, un teatro della “mise à mort du soleil.”
    E’ sempre trovo il sorriso di leggera ironia o di lotta per vivere nella fantasia del suicidio, non ho mai letto una manera cosi ironica di evocare l’impiccare.

    E’ un bellissimo dono per NI. Queste pagine fanno parte di un romanzo in cantiere ?

  3. @ véronique

    è che – molto semplicemente – diversi amici si lamentano da anni che li affliggo con vicende tristi e sconsolate, senza un bagliore di speranza (non è vero, ma gli amici, magari a fin di bene – pensano loro – esagerano sempre);
    e io stesso ne provavo forse il bisogno;

    e quindi ho appunto provato a cimentarmi con un registro più leggero; nelle intenzioni vorrebbe essere un ciclo, o raccolta che dir si voglia; vediamo; quel che è certo, con la scrittura, è che – anche se poi a posteriore è facile pontificare, e attribuirsi facoltà di preveggenza – non si sa mai bene cosa verrà fuori;

    grazie comunque dei complimenti;

  4. ciao giacomo.
    che piacere incontrarti. leggerti l’ho fatto e ho amato molto le tue parole.
    tritolo ha una potenza espressiva, un’autenticità e un rigore che non trovavo da tempo, almeno nella letteratura italiana. materico, impregnato di terra. la pulizia del pozzetto lascia addosso l’odore di fogna, la pastosità putrida e scivolosa dei liquami. mi hai raccontato una storia che non avevo voglia di sentire, e me l’hai fatta amare. c’è fetore di morte sin dalle prime pagine, la storia ruzzola sicura verso la sua ineluttabile fine, eppure quel botto finale arriva come una liberazione. e non sono più riuscito a scrostare i frammenti.
    grazie.

  5. Il testo è molto bello. Una prosa sobria ( fatta eccezione per certa aggettivazione, a volte aulicamente anteposta, e a volte in eccesso).Se ne intuisce la forza, lo spessore. complimenti a te.

  6. Molto bello il racconto, ricorda la scrittura e l’ironia di molte pagine di Thomas Bernhard. Spero però che Sartori non avesse in mente specificatamente il Primiero! Un saluto, Riccardo

  7. A Giacomo Sartori,

    Grazie per la risposta precisa svelando il progetto.
    Per me è prezioso, ammiro i romanzi: Tritolo, Anatonomia della battaglia, Sacrificio.
    La lingua è di una rara bellezza, limpidità; è frutto di un lavoro lungo,
    come una sorgente sotto terra. La scelta precisa del vocabolario
    è forse legata alla passione scientifica di dare un nome alla vita della natura.

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