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Patto col fantasma

nucingen-haus-3

di Lorenzo Esposito

“Quanti siamo in questa casa?”, “A parte i fantasmi, quattro o cinque”. Questa stupefacente – e, conoscendo Raoul Ruiz, molto poco involontaria – definizione di cinema, è resa in un semplice dialogo di Nucingen Haus. Da Henry James a Edgar Allan Poe (fino a Balzac, da cui è curiosamente tratto il film), è sempre stato così: il battito del fantasma è una fonte elettrica tanto potente quanto invisibile, sotto-tracciata, contemporaneamente avulsa e convulsa. Essere esposti alle sue precipitazioni e al suo basso continuo, essere esposti alle sue presenze, significa accettare la doppia corsia della manipolazione e della rivelazione, di cui sempre sono costituite le immagini. Non sono questo i fantasmi, il tentativo estremo di interrompere l’illusione del tempo, corrugandolo fino a una piega esplosiva e segreta, che addirittura potremmo chiamare o desiderare che fosse (il) presente?

Non si tratta solo, per Ruiz, di ricavalcare l’onda anomala di quella sua teoria dell’immagine sempre doppia e raddoppiata, nucleo e ramificazione, incursione e diramazione, ma proprio di filmare il patto col fantasma, cioè il luogo in cui l’apparizione febbricitante (lo spazio) espone la propria natura profonda, il proprio essere naturalmente un falso movimento (il tempo). Filmare ciò che James ha definito ‘giro di vite’, ossia l’inesorabile e costante adattarsi dell’occhio al diversificarsi delle ottiche. Nel famoso e geniale racconto del narratore americano, la paura pulsa laddove si è costretti a decidere sotto quale ottica e da quale angolazione si vedrà il fantasma. Non cosa si vede, ma chi vede? “Se la presenza d’un bambino dà effettivamente un altro giro di vite, che ne direste di due bambini?”.

E certo i due protagonisti in viaggio di nozze di Nucingen Haus – lei è Anne-Marie, lui si chiama William Henry James… – potrebbero facilmente essere scambiati per i piccoli Miles e Flora jamesiani cresciuti e tornati nella vecchia spettrale casa dell’infanzia… Sennonché, nei campi lunghi che si formano oltre gli usci e i vani della Nucingen Haus, si addensano piccole folle autoctone, altri fantasmi cileni che sembrano provenire direttamente dall’ossario in forma di favola di Recta Provincia. Si capisce dunque che il resto letterario, è la sponda necessaria per filtrare il fantasma più grande: l’esilio, ancora una volta (pensando al ritorno paranoico intitolato Secretos, appassionante e poco visto à rebours compiuto quest’anno da Valeria Sarmiento, fra l’altro moglie di Ruiz, i due sposi ruiziani sono forse anche i lavori in corso di caustiche indagini coniugali). Dialogo d’esiliati fatto di sogni inquieti, di voci dall’aldilà, di una terra agognata che risponde al richiamo vampirizzando i sognatori. Ruiz non ha mai smesso di parlare questa lingua malinconica, e infine i suoi ‘eroi’ in Nucingen Haus sembrano ripetere: che faremo della nostra energia? Se procedere è anche il nostro cedimento, se la parola è il nostro accecamento, se i salti le afasie le risonanze compongono una tessitura che mentre si fa, si disfa… Questa è la rivoluzione dell’esilio: il gomitolo che si srotola, in realtà recupera il filo e lo riannoda sognando nuovi allineamenti. Chi è il riannodatore? Chi il sognatore? Gli ingressi sono linee di demarcazione. Sul bordo, che si apre e si chiude come una ferita che non si vuole rimarginare, c’è uno specchio che non riflette, ma trattiene le immagini, le fa prigioniere e ne osserva il dibattersi, cerca di carpirne una genesi di cui si crede autore. Galleggiamo in un incubo le cui distorsioni e rifrazioni prismatiche permettono la circolazione abnorme di tutte le sfumature in una sola. Rivoluzione e esilio sono le parole con cui si cerca di testimoniare la contrazione senza tempo di come le cose resistono agli sguardi (vengono in mente i fili di ragnatela che fuoriescono da tele stregate in un altro suo vecchio film, non a caso intitolato L’Œil qui ment).

La piega malinconica si riflette nella riscoperta paesaggistica (del Cile, ma non solo) – quel paesaggio unico, che già in passato Ruiz ha cercato di descrivere, raccontando l’assoluta follia di queste gigantesche catene di luce che al tempo stesso sembrano sottilissime miniature cinesi. I movimenti di macchina, quanto più si fanno geometrici e magicamente circolari, tanto più esibiscono i sintomi della dolorosa fragilità legata all’interpretazione del ritorno a casa come smarrimento ultimo del sé. E nel cuore di questa riflessione, ecco installarsi il gioco musicale, un nuovo nucleo, che, come sempre in Ruiz, è insieme deriva e contrappunto. In Nucingen Haus il viaggio verso casa riversa sui luoghi della memoria l’eco della scuola di Vienna, l’interpunzione impressionistica alla Debussy, derivando forse anche dalle colate frammentarie che avevano caratterizzato Klimt. Piccole note ripetute per salutare i nostri ospiti (gli spettatori: questi fantasmi). “In fin dei conti, diceva Debussy, il Desiderio è davvero tutto. A volte si prova un desiderio folle, quasi una necessità vera e propria, d’un oggetto d’arte (un Velázquez, un vaso di Satsuma, oppure un nuovo tipo di cravatta). E quando lo si possiede, che gioia! Qualcosa di simile all’amore”. Anche a questo, Ruiz aggiunge e risponde: “Il cinema, atto d’amore, si fa con qualsiasi cosa e di qualsiasi cosa: un filo di ferro, una goccia d’acqua, un tuono lontano, il miagolio di un gatto. Tutto può essere punto di partenza o punto di arrivo. Il cinema non è necessariamente un’arte totale, come l’opera, ma è l’arte di far vedere la parte invisibile di ogni cosa fatta dal Creato”.

[L’articolo appare in «Filmcritica» 591/592 (gennaio-febbraio 2009)]

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4 Commenti

  1. Non conosco, purtroppo, Ruiz. Cercherò i suoi film.

    Ma: questa scrittura di Giuseppe Esposito, però!

  2. @soldato blu

    Ciao, buona fortuna allora: Ruiz ha girato oltre 120 flm.. Ti posso però consigliare due suoi testi, facilmente reperibili in rete, che raccolgono una serie di lezioni universitarie tenute in Usa e in Europa. Sono usciti in Francia: “Poetique du cinéma 1” e “Poetique du cinéma 2”, e sono un buon esempio dell’eclettismo dei suoi interessi e del suo approccio onnivoro all’immagine. Molti estratti di questi testi sono stati tradotti in una monografia uscita per “minimum fax”, poco più di un anno fa, alla cui realizzazione ho contribuito anche io.

    @ NI e per DP
    grazie dell’ospitalità

    Lorenzo Esposito (@ soldato blu: mi chiamo Lorenzo!)

  3. Scusa per il nome. Non si sa mai il perché di certi lapsus.

    Ho individuato la monografia su Ruiz di “minimum fax”.
    Ma ho scelto, per adesso, di prenderne una su Carpenter Romero Cronenberg di Lorenzo Esposito.

    Grazie.

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domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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