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idilli di Damasco

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di Clio Pizzingrilli

C’è un giardino. Il giardino. Tutt’intorno deserto. Appressandosi la notte, il giardino andava lentamente indeterminandosi, fino a quando, sopraffatto da una moltitudine di sabbia granelli, in buio scomparve. Fu allora che mi alzai per cominciare a raccontare. Mai avrei mancato di rispetto a una tale perla, la cui fama risuonò nelle mie orecchie già nei primi giorni dell’infanzia, per nessuna ragione al mondo avrei immaginato di poterlo oltraggiare con parole inopportune o, peggio, laide, come spesso sono le degli uomini, perciò il mio tono di voce fu subito quieto e deferente, benché quel che mi apprestavo a dirgli fosse spaventoso e, lo riconosco, ancora sempre inadatto alla contemplazione delle sue bellezze. Da parte sua, il giardino aveva tutta l’aria di non essersi neppure accorto di me, né d’aver nemmeno mai udito l’inizio del racconto.

Solo quando mi gli avvicinai e, seppure impedito dal nero della notte, potei constatare l’armonia e la sapienza delle sue forme, dovetti ammettere di custodire in cuore parole ancora sempre sconvenienti alla sua presenza, che d’altra parte egli mai avrebbe minimamente considerate. Mentre, scoraggiato, cercavo di rintracciare in me un’altra lingua, altre retoriche, una diversa posizione logica, dalla quale far ricominciare il racconto, un improvviso stormir di foglie, successivo al passaggio di un’arietta soave, doveva rapidamente rovesciare a mio favore la situazione, mutando lo sconforto in un incomprensibile, quanto certo sollievo, infatti fui istantaneamente sicuro d’aver ottenuto la sua approvazione riguardo a quanto ormai avrei iniziato a dirgli. Perché questo? E che cosa avrei iniziato a dirgli? Ma mi repressi per timore di apparirgli insolente. Egli non si affida mai al caso, egli è il cuore dell’universo, pertanto, sia che fosse stato mosso a compassione verso la mia imperizia, sia che abbia deciso di sospendere il giudizio e rinviarlo a altre occasioni, potei imprendere a raccontare. Infatti mia madre era solita guardarmi dalla finestra, quando uscivo, e ammirare il suo capolavoro nel mondo. Comme sive bellille, mi ha detto un giorno. Ciardine mie, mi vedi? Siente che te diche? Ti sono vicine le mie parole? Egli non rispose nemmeno mai. Tentavo di rendermi conto della fitta intramatura delle radici, di come, al suo di sotto, tutto fosse intrecciato. Per me è una delizia trovarmi qui, erano anni che sognavo questo momento, ma avrei voluto entrarci con l’animo, se non puro, almeno non così consumato da tutte le mie indecisioni. Fu allora che il giardino, voltosi di spalle, mi parlò. Più tardi, quando credetti di destarmi da un sonno profondo, non ricordavo più nulla di quanto mi aveva detto. Dubitavo perfino che mi avesse parlato davvero.

A un tratto squilla il telefono, a un tratto. Per i primi cinque squilli, fui incerto se rispondere oppure no, al sesto decisi per il sì. Senti chi è, era Ferretti. Che accidenti può volere da me Ferretti, che non vedo da almeno trent’anni? Sono qui, mi disse, sono venuto a salutare gli amici, quando potiamo incontrarci? Ero a dir poco sorpreso, vuoi perché quella telefonata aveva vuto su di me lo stesso effetto di una ruspa su un campo messo a maggese, dato che da giorni ormai non vedevo né parlavo con anima viva, vuoi perché quel Ferretti lì non mi è mai stato simpatico, l’avevo frequentato, non lo nego, ma in un periodo in cui non sapevo ancora molto bene che cosa avrei fatto di me. Come gli era saltato in mente di rifarsi vivo, dopo che, oltretutto, me l’aveva fatta anche parecchio sporca. Non poteva certo pensare che avessi passato un colpo di spugna su un episodio tanto scabroso! Non credo di poterti incontrare, risposi, sono molto occupato in questo periodo. Replicò d’aver incontrato tutti i vecchi amici di un tempo, che gli restavo io soltanto. Mi spiace, ribadii, non posso proprio. Lo avevo gelato. Alla prossima, soggiunsi con tono scanzonato. Ti lascio il mio numero di telefono, casomai cambiassi idea, fa lui. Scrissi il numero telefonico su un foglio, che gettai via non appena chiusa la comunicazione.

Sta scritto: Il Signore è al posto d’osservazione. È possibile amare, possa la mia lingua seccarsi!, qualcuno che ti osserva in ogni istante dell’esistenza? Il giardino tacque. Con ciò è forse da intendersi che l’etica, cui sono chiamati a attenersi gli individui umani, debba estendersi anche al Signore? In altre parole, la norma di porre la propria esistenza sotto gli occhi di tutti equivale alla coscienza di essere sotto il costante sguardo di Dio? Detto altrimenti, se uno viene glorificato dall’intera comunità, questo accade nella misura in cui lo è stato in precedenza da Dio e, al contrario, se viene diffamato, accadrà perché fu già disprezzato da Dio? Se ciascuno di noi fosse aggradito dall’Uno e dall’altra, non postulerebbe ciò che il giudizio dell’altra coincida col giudizio dell’Uno? Allora la mia gloria o il mio disonore verrebbero a essere inchiodati quaggiù e su ugualmente, le mie cattive azioni, in definitiva, non potrebbero mai più essere emendate e risarcite. Non credi, chiesi al giardino, che, qualora abbia dovuto nascondermi alla comunità, sottraendomi al suo giudizio, debba invece aspettarmi d’esser stato osservato nei momenti migliori, anziché in ogni singolo momento, dal Signore? Non è il Signore colui che guarda con due occhi distinti il male e il bene, piccolo e socchiuso il primo, grande e spalancato il secondo? Non così infatti guardano gli umani, i quali conformano gl’occhi al loro proprio utile, piuttosto che all’intelligenza del bene. Il giardino continuò a tacere, di modo che mi convinsi che sarebbe stato meglio interrompere la sequela di domande per non apparirgli petulante. Mi sdraiai a terra abbracciandomi a un tronco e chiusi gl’occhi. Di colpo s’era levato un gran vento. Uuuu, faceva, ti mangio senza neanche masticarti! E la sabbia vorticava. D’altronde mi era impossibile parlare. Se solo avessi aperto la bocca, la polvere mi avrebbe soffocato. Mi tolsi la giacca e l’avvolsi intorno al capo. Era un drago che soffiava e sibilava e uccideva chiunque tentasse di resistergli. A un certo punto cominciai a temere che non ce l’avrei fatta a reggermi alla palma, che la presa sarebbe stata sciolta e io sbattuto chissà dove, forse addirittura fuori del giardino, nel deserto. Riflettei. Se fossi vissuto sempre devotamente, se avessi sempre agito con sincerità, se mi fossi vestito del suf, l’abito mistico anche indossato da Giesù, sarei potuto morire anche nel deserto, perché mi sarebbe stata assegnata la dimora degli uomini santi e lì gli angeli avrebbero custodito le mie spoglie. In quell’attimo, l’avrei giurato, il giardino si mise a parlare. Infatti non era più il rumore del vento, quello che udivo, ma le sue parole che correvano tutte da una parte, sollevando polvere e scuotendo le foglie. Avrei dovuto togliermi la giacca, avvolta intorno al capo, ma non lo feci. Con il capo fasciato, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a distinguere parola, sempre che fossero parole quelle che udivo, e non ancora vento sempre. Alla fine decisi che non ci sarebbe stato nulla di male a togliermi la giacca. Quando mi tolsi la giacca, il vento, o quel che era, aveva smesso di farsi sentire, le foglie erano di nuovo immobili sui rami, i rami immobili sui tronchi degli alberi, solo i fili d’erba ondeggiano ancora, ma di quel moto minimo che sempre hanno. Lentamente ritrassi le braccia dal tronco e mi sollevo scrollandomi di dosso la terra. Non eri forse tu dietro a questa preparazione qua? chiesi al giardino, avrei creduto che fossi tu a ispirarla. Constatato il suo silenzio, prendo e abbandono tutto, che altro! Mi si dirà, avresti dovuto farlo prima, poiché sapevi benissimo a che cosa saresti andato incontro. Sicuro, avrei dovuto farlo prima. Dunque siamo d’accordo, non c’è discussione, un albero non è legna per il camino, se prima non viene tagliato. Evidentemente la morte si porta via molte buone persone, che si vorrebbe restassero assai più a lungo vive, integre nel corpo e nella mente, per conservare e proteggere il mondo di quaggiù dai suoi devastatori; in compenso se ne porta via numerose altre, dalle quali si viene torturati, per cui vedere vuoti i loro posti abituali non può che procurare un certo qual benessere. Personalmente non ho voluto eludere la domanda che si pone ogni vivente, se i morti stiano tutti quanti insieme nello stesso luogo. La domanda è: li rivedrò, quegli stessi che mi hanno ossessionato, staranno ancora con me anche nel mondo a venire? O, per meglio dire, la mia polvere si mischierà alla loro polvere? A che sarà valso, allora, darsi tanta fatica a tenersi separati? La bontà dei giusti non può dissolversi nel cosmo. Secondo le mie conoscenze, propendo a credere che essa sia riposta in dei speciali magazzini; è da questi magazzini qua, del resto, che attinge di continuo il libro per scrivere la propria potenza, e tutti quanti non hanno aperto il libro nemmeno mai, si morderanno i gomiti dal rimpianto.

Un giorno che rimettevo ordine, ecco saltar fuori un foglio tutto gualcito. Lo spiego e leggo un numero telefonico. Di Ferretti. Telefono senza meno a Ferretti. Ferretti, gli faccio, devi farmi un favore. Ferretti risponde, com’è che hai deciso di chiamarmi? Dobbiamo vederci, parlare a quattr’occhi. Silenzio dall’altra parte del filo. Mi bisogna, soggiungo, sei libero nel pomeriggio? Silenzio dall’altra parte del filo. Sei libero nel pomeriggio? insisto. Dove? fa lui. Da me. Ferretti, gli dico appena me lo vedo davanti, devi farmi un favore. E lui, che favore? E viene verso di me con l’aria di chi sta per abbracciarmi. Infatti prende e mi abbraccia. Fatti abbracciare, disse, prima di tutto l’amicizia, poi il resto. D’accordo, mi lascio abbracciare. In condizioni normali non mi sarei lasciato abbracciare, ma lì avevo bisogno del suo aiuto, agli effetti Ferretti era il solo cui potessi chiedere quello che avrei chiesto. Comunico senza meno quel che avevo in animo di chiedergli. Lui, guardandomi con occhi quasi uscenti dalle orbite, mi fa, come ti salta in mente di chiedermi una cosa del genere? Hai ragione, faccio io, hai pienamente ragione, non so come abbia potuto solamente pensare di chiederti una cosa tanto assurda. Dalla tasca della giacca prende un pacchetto di sigarette e se ne mette una dritto in bocca. Dà fastidio se fumo? dice. Non risposi. Posso fumare? chiede di nuovo. Vieni, gli dico, beviamoci su. Trascorrono istanti di silenzio. Non avrei mai dovuto cacciarmi in un storia tanto sballata.

D’un tratto mi parve di udire delle parole, drizzai le orecchie e spalanco gli occhi per aiutare le orecchie stesse a udire. Era il giardino a aver parlato? Era il giardino a aver parlato, ne ero più che sicuro, ma non potevo affermare di aver udito distintamente la sua espressione, o forse sì, suppongo mi abbia detto all’incirca che avrebbe potuto impetrare la mia ascesa in paradiso recintato al suo interno. È questo che hai detto? dissi al giardino, che avresti potuto, e certo anche voluto, ascendere in paradiso con me al tuo interno? Dunque, non lo chiederai più! E non lo chiederai più in conseguenza dei peccati tristi che ho commessi? Scoppiai in lacrime. Un pianto ancora gonfio d’orgoglio, questo sì, però anche sincero. Egli, che è il paradiso nel basso mondo, sarebbe stato in paradiso con me, perciò in paradiso sarei stato dentro a due paradisi. Per figurare la condizione che mi ero irrimediabilmente preclusa, potevo solo immaginare una perla attaccata alle valve della conchiglia, depositata in fondo all’oceano. Ma forse il giardino non aveva detto quel che credei d’aver udito, come potevo allora avergli attribuito esattamente quelle parole, se non uditele? Chi me le aveva messe in bocca? Poteva essere stata solo un’altra bocca. Magari una bocca maggiore della mia, molto maggiore della mia. Ciò dovette anche un po’ confortarmi. Frattanto i miei occhi, bagnati ormai sempre di lacrime, rugavano le guance giù fino alle labbra e mesti guardando il giardino.

A quel punto, sfumata l’ipotesi Ferretti, risolsi di mettermi in viaggio. Lungo la via verso deir marmuse, l’antico monastero scavato nella roccia, s’incontrano sovente carovane di devoti. E in una carovana m’imbattei. Erano sole donne, assonnate e stanche. Fui senza meno sorpreso del fatto che non ci fossero uomini, però anche subito accomunato a esse loro. Mi si avvicina una, chiede se per caso non sia Eleuteri. Non le dissi subito di no, volevo passare del tempo con lei, mi piaceva, aveva occhi parlantissimi. Naturalmente avrei potuto limitarmi a smentire la sua supposizione, ma le mie labbra si mossero come da sole, anche le sorrido. Mi piaceva. Essa non aveva nessuna voglia di intrattenersi con me oltre lo stretto necessario, perciò mi accontentavo di rimanere un po’ a guardarla. Ma anche questo pareva riuscirle inapprezzabile. Mi tolsi di torno. Che altro potevo fare? Al momento di riprendere il cammino, la moltitudine di donne si accalcò dappresso ai cammelli. Le sorrisi di nuovo. Lì viene da lei uno sguardo analgesico. Chiedo se potiamo rivederci. Scuote il capo, non è possibile. Malgrado fossi consapevole del passo falso che stavo compiendo, non riuscivo a trattenermi e insistei per strappare un consenso. Alla fine lo ottenni. Ci saremmo rivisti la notte, sotto quello stesso cielo, nero e così tutto quanto stellato, ma nella direzione opposta. Come ti chiami? Goodluck, rispose e andandosene. Più che un nome, era un augurio. Non sapevo che cosa inventarmi per arrivare a sera. Camminai tutto il giorno fra le pietre del deserto, salvo brevi pause per salmodiare al Signore. Non era affatto bene ciò che stavo facendo. Al tramonto, la riconobbi subito fra moltissime compagne. Eravamo d’accordo che non l’avrei salutata, che avremmo finto di sederci accanto casualmente. Udii anche la sua voce. Ero già più che convinto di star sbagliando tutto, allora prendo e attacco a correre fino a scomparire all’orizzonte. A notte, tornato sui miei passi, mi coricai nel punto esatto in cui ci eravamo incontrati la prima volta – a segnalarlo c’era una piuma di gufo che vi avevo messo io stesso. L’indomani, nell’aprire gl’occhi, vidi il suo volto. Subito lei si gira dall’altra parte. Le compagne ridevano già da prima, dopo anche di più. Lei no, non rideva affatto. Per far meglio intendere le mie intenzioni e la mia stessa qualità umana, le dissi d’aver sempre considerato l’amore in senso tutt’affatto localistico. Sono dovuto fuggire, ripresi a dirle, scusami, ero inseguito. Goodluck socchiuse gl’occhi. Non si trattava di giustificarmi, volevo semplicemente spiegarle che mi era molto spiaciuto non averla potuta avvisare. Trascorsero istanti di silenzio. Lei teneva ancora sempre gl’occhi socchiusi. Goodluck, le faccio, perdonami. Dopo un po’ soggiungo, posso venire con te? Lei non risponde nemmeno mai, poi prende e se ne va. Mi lascia solo nel deserto. Non cercai di fermarla, di dirle altro, sarebbe stato inutile, anzi, se avevo ancora qualche minima chance di farle cambiare idea, dovevo evitare di apparirle insistente. A ogni modo rimasi solo. Poi ero anche molto contrariato, avrei dovuto proseguire per la mia strada. Quando mi volto, ecco davanti Goodluck. Fui portato a baciarla. Lei, sanza riposanza, pone le sue labbra sotto le mie e prendemmo a baciarci. Che cosa poteva piacerle di me? Continuammo a baciarci a lungo e sorridendoci. Mi pareva di non poterle parlare in nessuna lingua. Ero felicissimo, essa mi sollevava tutto il mio vento interiore. Le pigghio ’a manuzza e camminemo ’n silenziu. La lingua di Goodluck è molto grande e rosa, avrei voluto chiederle di passarmela sul viso come una pennellessa, per ritinteggiarmelo tutto quanto di un altro colore, poi anche il resto del corpo. Allora nessuno davvero mi avrebbe più riconosciuto. La baciai sulla bocca spalancata, più che altro vi cacciai dentro la mia. Le presi le mani, mani di cioccolato che avrei sempre mangiato, l’abbraccio tanto forte da sentiri tutto il suo corpo su di me, ’ngullèt’ a’ ’u mïe, e lei baciami con sue le labbra, sua la lingua, di Palmira lingua, e sua tutta sé. Un mio bacio, paragonato al suo, è un taglio, una strisciata, una puntura di moscerino, mentre il suo era volo di calabrone, ferita sanguinolenta, coppa di vino roscio. Stravedevo per la sua bocca, dove immaginavo di venire attirato tutto intero, testa e piedi. La chiamavo vocca nera.

Il giardino mi circonda, esso è un’economia, ci sto dentro, ma non so ancora il modo di stargli di fronte, è lui soltanto a starmi di fronte ovvero ignoro da quale parte abbia il volto, infatti se percepisco il suo sguardo alle mie spalle, e mi volto per sorprenderlo di fronte, devo sempre constatare che mi è di nuovo alle spalle, se no, dove altro? Certo non posso che conoscerlo solo di spalle, se potessi conoscere anche il suo volto, allora mi risponderebbe, mi avrebbe già risposto, invece non mi ha mai risposto. Il giardino disapprova il mio operato, per questo mi nega il volto. Però mi lascia stare presso di sé, tutto sommato non è neanche poco. Però speravo, una volta dentro, di poter far breccia nel suo cuore e indurlo a comprendere le mie ragioni. Mi sono coperto il volto con una foglia di vite. Ho pensato con tutto me stesso al farsi di parole non già dotate di senso, straniate rispetto all’uso convenzionale. Mi sono provato numerosissime volte a fissare il vuoto, nell’attesa di vederne venir fuori una parola mai udita prima, una parola estranea al linguaggio, neanche presa da un linguaggio precedente, una parola preceduta da nessun linguaggio, intorno alla quale costruire l’esistenza. È stato vano. Sono salito sull’Elicona, donde si apre l’ampia vallata delle muse. Per giorni ho vagato fra le sue pietre, ho digiunato, guardavo il cielo sopra di me, pensavo alla scriptio plena del nome, se mai sarei riuscito a concepirla o, meglio, se essa si sarebbe infusa in me, immaginavo che potessero mancare ancora solo poche, pochissime lettere, forse appena una, per pervenire all’ideazione di una parola nuova, di cui credevo di possedere già il pezzo centrale, forse potevo sperare che mi si sarebbe almeno svelato questo cuore, che agli effetti neppure conoscevo, limitandomi a un percetto di esso medesimo. Ho vissuto senza mai volermi manifestare questo secondo cuore, contentandomi di saperlo riposto sotto il primo e che l’avrei appreso soltanto il giorno in cui la parola sarebbe stata completata e esso avrebbe cominciato a battere secondariamente. In qualche modo capivo che il pezzo di parola in mio possesso dovesse muoversi da solo dentro di me, non sarebbe mai stato agito dalla mia volontà, aveva bisogno di essere giustificato, probabilmente neppure da poche lettere o da una soltanto venienti d’altrove, magari da un accento, un’aspirazione, un diverso attrito fra due consonanti. Possibile che non potessi far nulla per spianarne la manifestazione? Ecco allora che passeggiavo di continuo nella speranza di imbattermi in un momento che avrebbe annunciato una nuova giustizia delle lettere in mio possesso. La mia voce cominciò a lamintarisi, e lamentavasi con tutta se stessa e dicevo, ¿A dónde te escondiste? Come potevo perseverare nell’esistenza, mancando di ciò, di cui soltanto è possibile vivere?

Alle due del pomeriggio avevo appuntamento con Quadagno, e so che con lui bisogna evitare di far tardi. Per l’ansia di ritardare, finii per arrivare in anticipo. A ogni modo Quadagno può contrariarsi tanto se si arriva in ritardo, quanto se si arriva in anticipo ovvero non sopporta le imprecisioni, le considera il frutto di una sciatteria interiore. Non ti fai mai vivo, mi rimproverò subito. Faccio del mio meglio, dissi, con tutto quel che mi è venuto addosso mi par già tanto d’essere qui. Ero certo che non sarebbe stato indulgente nei miei confronti, conosco bene Quadagno, è un tipo rigido, incapace di mostrare la benché minima comprensione anche verso quanti dice di aver a cuore. Quadagno trasse senza meno dalla tasca del paletot un involto e cercando la mia mano per consegnarmelo. Visto che apparivo restio a tenderla, come gli sarebbe sembrato logico che facessi, non esitò minimamente a afferrarla con una certa energia e aprendola per porvi l’involto medesimo. Agli effetti non è che mi opponessi a ricevere nella mia mano quanto egli si apprestava a mettervi, tanto più che ne avevo un disperato bisogno, il fatto è che mi seccava ammettere di dover usufruire delle sue elargizioni, oltre a tutto sapevo benissimo che un domani me le avrebbe rinfacciate. Me ne rimasi con il palmo della mano aperto, l’involto sul punto di scivolare. Dovette intervenire di nuovo a stringermi il pugno per contenervi opportunamente l’involto, poi anche me lo caccia in tasca una volta per tutte. Bada di non perderlo strada facendo! ordinò. Lo guardai senza espressione. Frattanto la mano nella tasca stringeva l’involto nella stessa posizione in cui ve l’aveva messa Quadagno, quasi fosse un oggetto, non uno arto personale rispondente a logiche mie proprie. Non appena se ne fu andato, avrei voluto affrettarmi a gettare l’involto, invece lo strinsi possibilmente anche di più. Continuai a camminare con l’involto stretto nel pugno dentro la tasca, in certo qual modo era lui che stringeva la mia mano. Poi invece ecce Goodluck, che, senza sapere cosa di Quadagno né dei miei con lui commerci, lo prende e getta via.

Sportomi su di uno specchio d’acqua, vidi riflessa la mia immagine e, come sempre mi accade in circostanze simili, provai tanto sgomento da distoglierne subito lo sguardo. Spesso infatti mi sono chiesto, a proposito dello sguardo che si volge in direzioni apparentemente separate dalla volontà di colui che lo esercita, se esista un modo per cercare, non dico di dominarlo, bensì di controllarne in qualche misura le linee di fuga. Probabilmente bisognerebbe anzitutto chiedersi se sia giusto nutrire un tale proposito. In realtà è impossibile attuare qualsiasi forma di controllo dello sguardo o, meglio, attuarlo sistematicamente. Per quanto mi riguarda, ho sempre insistito pervicacemente in questo tentativo, quantunque lo sapessi infruttuoso. Forse c’è solo da guardare il mondo al battito del cuore, ma senza affidare il cuore allo sguardo ovvero sabotare la fenomenologia dello sguardo connesso al mondo attraverso una impercettibile manovra di decreazione. E questo accanimento, diciamo pure questa ossessione, perché? Perché non ammetto che l’esserci sia sottomesso all’adescamento di quanto viene agl’occhi, perché rivendico il mio localismo. Ciò che esiste postula d’esser visto, anche se non tutto lo potrà da uno stesso individuo, nondimeno questa molteplice, sterminata offerta mi appare né più né meno come la menzogna del mondo che c’è e che io intendo invece criticare, donde la pretesa di controllare lo sguardo, di annullare la legalità dell’apparire. In altre parole, se voglio abrogare il mondo, devo far venir meno la legalità che governa la mia esperienza percettiva, ma se faccio venir meno questa legalità qua, non svanisco io stesso? Io sono Tcereeli. Per la verità il mio vero nome è Cereteli, a ogni modo ormai sono Tcereeli, tutti mi chiamano Tcereeli, e sinceramente sarebbe fatica sprecata tentare di far cambiare idea a tutti quelli che mi hanno conosciuto con questo nome. Il fatto è che non avrei mai immaginato di dovermene pentire.

Tcereeli si voltò di tre quarti assumendo una posa meditativa, che evidentemente sapeva gradita al giardino. Infatti il giardino è uno che può irritarsi con estrema facilità quando sente insistere troppo su questioni personali. Per questo Tcereeli disse, se è vero, come infatti si sente dire un po’ da tutti, che c’è un eccesso di capacità produttiva, allora non ha più tanto senso reclamare il lavoro, quanto piuttosto il reddito minimo, detto anche reddito di cittadinanza, cioè disconnettere il reddito dal meccanismo degli ammortizzatori. In altre parole, se i mercati finanziari possono far a meno della produzione di merci, i lavoratori faranno a meno del lavoro per avere un reddito; diversamente, il capitalismo finanziario crescerà producendo esternalità negative, povertà e disoccupazione. Il fatto è che, in questo riassestamento capitalistico senza lavoro, i mercati finanziari stanno ormai diventando il nuovo bene comune delle società.

Finalmente un giorno il giardino parlò davvero al povero Cereteli. Lui, il giardino, venne a dire che già prima della venuta di Giesù quelle tali idee illegali erano ampiamente diffuse, fomentate da gente negletta, che però non era affatto la plebe rozza, irreligiosa, ignara delle leggi, così rappresentata da tutta una letteratura capziosa, bensì la pia moltitudine opponentesi alla polizia dei farisei, infatti mantenutasi in disparte fino alla venuta del battistrada. Però il giardino fece anche presente a Tcereeli che, considerata la di lui relazione con la moderatrice Goodluck, non sarebbe stato più possibile sostare nel giardino. Punto e basta. Non poteva pretendere di ottenere i due cose ’nzieme. Tcereeli ci rimase di stucco. Poi invece mutò istantaneamente proposito e si protese minaccioso verso il giardino e disse, non mi avevi detto che non c’era più speranze pi mia? Che cosa pretendevi, che avessi rinunciato alla mia trasformazïone, che fossi divenuto parlatore di nessuna trasformanza? Lì Tcereeli prese a raccogliere noci da terra. Il giardino sorrise. Naturalmente non tutti i noci ne portano, ma quelli che ne avevano ne avevano di veramente grandi. Dapprima se le metteva nelle tasche, dopo, essendo esse noci così grandi, dovette procurarsi una saccuta. Infatti fece più in fretta che poté per non essere sorpreso da quarcuno che potesse magari rimproverargli di accedere a beni non sui. Lì, ormai fuori dalle tribolazioni, Tcereeli ricevette il consolamentum dalle mani di bona femina e mantinente le fu da servitore.

è per Odetta

[l’immagine in apice è un particolare di Crivelli’s Garden di Paula Rego]

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