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le château tremblant

di Giovanni Catelli

Non siamo più tornati al Château Tremblant, ed è un peccato.
Ci dev’essere un motivo, chissà, forse lo scopriremo, una mattina, svegliandoci, e sarà tutto chiaro, come averlo saputo da sempre.
Era un giorno di calura intensa, ricordo, e passavamo lenti, con i finestrini abbassati, sul lungo ponte metallico, non sapevamo davvero dove andare, quell’estate ci saziava con le sue giornate africane, le sue notti corte, in cui proseguire la veglia era una felice condanna, sino all’alba, senza mai desiderare il sonno, mai essere tentati dalla stanchezza.
L’avevi scorto con un’occhiata distratta, e ne ripetevi il nome, lentamente, come una filastrocca: Le-Châ-teau-Trem-blant-Le-Châ-teau-Trem-blant…
Era un invito troppo suadente, alla fine del ponte presi la strada a destra che scendeva verso il fiume, all’ombra dei platani.
Parcheggiai la macchina, e ci sedemmo sotto la pergola, non c’era nessun altro, eravamo soli davanti al fiume, e questo ci bastava.
Quel giorno, tutto si sfaldava nella luce, il colore dell’acqua, il ponte, i muri delle fabbriche sull’altra riva, il rumore vano di un macchinario in movimento, la tristezza interrotta di quella banlieue, come uno spettacolo sospeso che annunciava l’imminenza di una nuova rappresentazione.

Eravamo seduti a guardare l’estate, come nella grande sala vuota di un cinema, senza l’incomodo delle parole, la banalità della musica, e tutti e due avevamo qualcosa da cercare, in quella scena, qualcosa in cui ritrovarci, ognuno solo, con un vago, desolato motivo per essere altrove, una sottile, quieta ragione per restare, con il tempo sospeso del proprio passato ancora da concludere.
La ragazza del bistrot era uscita, con il suo vestito a fiori, con passi leggeri, pareva divertita, l’onda dei capelli scuri scivolava ribelle sulle pieghe del sorriso.
Ricordo, il mio pastis ben freddo, ma mi sfugge il profilo della tua mano, che s’avvicina al tavolo di marmo, e ghermisce, con mossa studiata, la leggerezza indifesa del bicchiere.
Chi poteva vederti, non passava nessuno, sul ponte, il suo profilo vuoto resisteva, sospeso, nella grande luce, come un esile traforo poggiato per gioco, dai bimbi, sopra un rigagnolo, era lì, fermo, inutile come tutto, in quell’ora senza direzione, abbandonata, come quel sospiro doloroso di macchinario, che ritornava sopra l’acqua, e ci ricordava la vita, il suo stantuffo implacabile, nel buio, il suo lamento senza riposo, la sua rassegnazione.
Dovevamo dire qualcosa, ricordo, tutti e due sentivamo il bisogno di una voce, in quella dimenticanza, la necessità di spiegare, finalmente, quei gesti che non capivamo, quelle parole che ci sfuggivano, senza ragione, temevamo di sbagliare, non riuscivamo a deciderci, sino a che un treno era comparso nella solitudine fragile di quella boscaglia, alle tue spalle, aveva lanciato un fischio di miniera, cupo, dalla distanza irraggiungibile della sua fatica, e tu avevi sospeso una parola nel respiro, sembravi spaventata dall’evidenza di tutto, non eri più in grado di opporti, non avresti mai svelato il pudore di quella sola parola.
Abbiamo lasciato passare l’urgenza imprevedibile di quell’apparizione, insieme all’imbarazzo lieve della sincerità, ci siamo avvolti, di nuovo, nelle spire nebbiose del silenzio, sicuri di dovercene andare, presto, ma di potere un poco restare, come se un intervallo ci trattenesse in quella pace, e l’insistenza trascorsa delle cose si fosse placata, sino a concederci quell’ora invisibile, quella sospensione di ogni attesa e rincorsa, quel radunarsi di parvenze, cosi limpide e sollecite nell’aria immobile, calda, tramata di vapori.
No, non ce ne siamo più andati dal Château Tremblant, ed è un peccato.
Me ne sono accorto, giorni or sono, con grande ritardo, ho visto ancora tutto calcinato nel sole, al di là del canale, ed era l’inizio del nostro viaggio solitario, della deserta ricerca senza più partenze, della sfiducia nelle parole, e nelle spiegazioni.

Siamo ancora smarriti nella sua stanza chiara sotto i platani, davanti a quel fondale troppo vero e vuoto per illudere la vita, rincorriamo, in ritardo, la delusione, per non aver capito, aver atteso soli quell’uscita che non c’era, come avrebbe potuto, quando tutto il vasto mondo si frantumava intorno a noi, e nulla più rimaneva in piedi, nulla restava uguale, come il boato scuro del ponte, sotto le ruote, che allora taceva, e non avrebbe più chiamato?
È un singolare ospite, Le Château Tremblant, non ci fa rimpiangere nulla di questo tempo mancato, di questa compagnia tenace e respinta, di questa salvezza che non vediamo, ci lascia tutti i suoi sortilegi per pensare di essere altrove, la suggestione di troppe vaghe lontananze, la banderuola delle direzioni intercambiabili, concede troppo alla nostra irrequietezza, non ci lascerà sfuggire alla liberta, è cosi sottile questa catena, che non riusciamo a vedere dove poterla spezzare.

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4 Commenti

  1. Dato il gioco intricato della memoria tra presente e passato e la parola-chiave del Chateau Tremblant, esiste una qualche liaison o risonanza neuronica con quella, altrettanto magica ed equivoca, del chateau saignant di Componibile 62 di Cortazar?

  2. sarebbe bello questo legame con il magnifico cortazar, ma non è…
    il luogo esisteva davvero, e purtroppo non esiste più…

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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