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Minerali

di Giuseppe Zucco

Mamma non c’è più. Passo una mano sulla sua fronte. È bianca. È liscia. È ghiacciata. Dentro di lei c’è il marmo, la pietra, il regno dei minerali. Anche Mario avvicina una mano. Stende il palmo della mano sul taglio delle labbra. Mamma non respira, dice Mario.

Mamma è questa cosa ghiacciata che non ci guarda, gli occhi chiusi dentro la bara, i fiori intorno, precipitata in un posto di cui io e Mario non ne sappiamo nulla, anche se mamma è il corpo disteso davanti a noi, definitivamente conquistato dal ghiaccio e dai cristalli.

Papà ci mette una mano sulla testa. Papà è questa mano che scivola lentamente sulla mia testa e su quella di Mario, avanti e indietro, e trasmette calore, e non c’entra niente con il regno dei minerali, non ne ha le proprietà né la struttura, anche se Mario preferisce controllare, e tira papà dalla camicia, lo porta alla sua altezza, e stende la mano davanti al taglio delle sue labbra.

A scuola, la maestra Maria ha tirato le linee sulla lavagna, ha diviso la lavagna in riquadri con il segno bianco e continuo del gesso, ha riempito i riquadri con il nome di tutti i minerali, suddividendoli per durezza, lucentezza, colore e altre cose che non ricordo. Ma non c’era il nome della mamma tra i riquadri. Non era neanche previsto che lì comparisse il suo nome. E allora riconosco che la scienza non è esatta. Studiare la scienza serve poco se nessuno durante la lezione ti dice dove andrà la mamma, dove finisce la mamma anche se è lì davanti a te, distesa, incartata in un vestito tutto colorato, con le mani bianche raccolte sullo sterno, muta e minerale in mezzo a gente sconosciuta che entra e abbraccia papà, tutti vestiti con abiti colorati, rossi come il maglione di Mario, o verdi come la mia gonna e le mie calze, perché alla mamma piacevano tutte le forme del creato, il quarzo, i coralli, le api, i tulipani, ma non le piaceva il nero, non le era mai piaciuto.

Nonna dice a Mario di lasciare stare papà. Nonna è l’unica persona vestita di nero in questa stanza. Ripensandoci, veste di nero da sempre, da quando nonno scese nel regno dei minerali. Stacca Mario da papà, e papà ha gli occhi consumati, e si vede che è stato sempre vicino alla mamma, che le ha staccato i tubicini dalle braccia, e l’ha lavata, e l’ha incartata nel vestito colorato, perché anche gli occhi di papà hanno la luce delle pietre dure.

Prendo Mario per mano. Camminiamo tra i grandi, tutti ci mettono una mano sulla testa. Gli chiedo se vuole vedere i cartoni, se gli va di sparare alle astronavi, ma Mario non mi ascolta, continua con severità e disciplina, stendendo la mano davanti alle labbra delle persone che incontra.

Mette una mano anche davanti alle labbra della zia. Se avesse qualche anno in più, potrebbe essere la mamma. Ha lo stesso sguardo, e il naso le si incurva nello stesso modo, e quando parla muove le mani tantissimo, una cosa che mamma faceva senza accorgersene, come per ricucire le parole di alito e aria al corpo solido e cristallino del mondo.

E allora piango, Mario smette di stendere la mano davanti alle labbra della zia. Mi guarda mentre si sciolgono sulle mie guance i minerali, le rocce, le montagne e i crateri che sono venuti a trovarmi in questi giorni. Hanno preso spazio qui dentro, crescendo e allargandosi, ed ho pensato che non erano male, era la mamma che non voleva lasciarmi sola, la mamma riflessa sulle facce dei cristalli e delle pietre.

E Mario continua a guardarmi come se non fossi io, anche papà mi guarda, e qualcosa deve essergli scoppiato dentro, perché si scusa, e saluta tutti, passa una mano sulla fronte ghiacciata della mamma, e poi esce, sgommando la macchina sull’asfalto, con gli amici di mamma e papa che dalla finestra seguono la macchina accelerare e sparire, senza dire niente, lo sguardo mineralizzato e vitreo, uno sguardo che deve essere anche il mio.

La zia mi asciuga le lacrime con i pollici. La nonna ci porta un vassoio di dolci. Ne prendiamo uno io e uno Mario. Nonna dice di mangiare, di non pensare a niente, che la mamma non mi lascerà mai sola. Mario rompe con i denti la glassa dura e sotto scopre il cioccolato sciolto e freddo. Devi essere forte, dice la nonna. Devi essere forte senza tristezza. Papà ha bisogno delle tue cure, dice.

Mario ne prende ancora. La nonna serve gli amici di mamma e papà. Ed è un miracolo come lo zucchero, la glassa, il cioccolato sciolgano il cristallo ed i minerali. La gente riprende a parlare, le persone ricordano mamma, e mamma sparisce dalla bara e riappare in un fatto curioso accaduto qualche tempo fa.

E non pensavo che la mamma diventasse questo. Parole di alito e aria. Una piccola nube di storie, parole e immagini che si addensa tra di noi.

Nonna è in cucina. Sta tutto il tempo in cucina e poi ci chiama, e noi ci sediamo a tavola e mangiamo le focacce. Le mani piccole e veloci della nonna sono la passione di Mario. Si avvicina in silenzio, e senza farsi vedere considera l’olio, la farina, le uova ed il sale cambiare forma e colore sotto le mani della nonna.

Una volta gli è finita una goccia di olio bollente su una guancia. Ha pianto un po’, poi è rimasto tutto il tempo con il dito premuto sull’ustione. Il giorno dopo andava e veniva dal bagno. Guardava allo specchio la macchia di pelle scura sulla guancia. La toccava con il dito e sentiva le sporgenze. Ha la forma della Francia, ho detto io. E Mario ha fatto di no con la testa. Allora siamo andati nella mia stanza, ho preso il libro di geografia e gli ho fatto vedere. Mario ha preso il libro, e senza dire niente è andato in bagno a controllare. Poi è filato da mamma, è saettato da mamma e papà gridando che aveva la Francia sotto l’occhio, che dentro la macchia di pelle scura ci abitavano i francesi, tutti i francesi della Francia, anche se era impossibile distinguerli, piccoli com’erano. Allora la mamma ha preso la lente d’ingrandimento, ha inquadrato con la lente i piccolissimi abitanti della macchia scura, ed ha cominciato a salutarli, monsieur e madame, con piccoli cenni della testa. Poi ha passato la lente a papà. E quando papà ha salutato tutti i piccolissimi abitanti della Francia, la lente è passata a me. Cosa vedi, mi ha chiesto Mario. Gli ho rivelato che dentro la macchia scura della Francia c’è Parigi, e dentro Parigi c’è la Torre Eiffel, e in cima alla Torre Eiffel ci siamo noi quattro a testa in su che guardiamo il cielo, le nuvole e gli uccelli.

Immagino sia giusto riprovarci. La nonna ci chiama, e noi andiamo in bagno, ci laviamo le mani, Mario schizza acqua dappertutto. Arriviamo in cucina bagnati, ma nonna non dice niente. C’è il minestrone nei piatti. I ceci, i fagioli, le carote e le patate. Mario fa una smorfia ed io sarei della stessa opinione. Ma ci sono le focacce, dopo. E allora conviene.

Mentre pranziamo, guardiamo il telegiornale. Una signora è rimasta trentacinque anni dentro il suo appartamento perché era terrorizzata dai microbi. Aveva usato il cotone per chiudere ogni fessura, e le finestre non le apriva mai, nemmeno se l’estate era caldissima. Nessuno l’aveva più vista. Nessuno tranne suo fratello. Ci pensava lui alla spesa, alle bollette, alla pensione. Ci pensava lui entrando e uscendo di corsa dalla casa della vecchia signora per evitare che folle di microbi pericolosissimi entrassero e si annidassero ovunque, nei posti più impensabili, nel frigorifero, nelle scatole delle scarpe, sotto i bicchieri rovesciati, nei polmoni. Pensò a tutto lui per anni interi. Fino a quando la sorella gli chiese di immaginare i microbi, di chiudere gli occhi e visualizzare le legioni di microbi che fluttuano nell’aria, milioni se non miliardi di particelle microscopiche che invadono la terra, l’atmosfera e tutta l’estensione dell’universo conosciuto. Fu allora che non riuscì più a superare la porta di casa della sorella. Per qualche giorno condivisero la fame e l’oscurità dell’appartamento. Quando sua sorella non riuscì più ad alzarsi dal letto, con la pelle tirata e il respiro debolissimo, lui decise di correre il rischio di telefonare, di prendere il telefono e avvicinare le orecchie e le labbra ai piccolissimi fori sulla cornetta dentro cui, molto probabilmente, i microbi ne aveva fatto un regno.

Nonna dice che sarebbe bastato l’odore delle sue focacce per tirarli fuori. Mario ne addenta una e me ne passa un’altra. Dice nonna che a volte l’olio, la farina, le uova ed il sale fanno più di quel che si crede. Nonno, prima di scendere nel regno dei minerali, ne portava sempre un paio in campagna, avvolte in un panno bianco. Lavorava la terra dura e poi mangiava le focacce. Erano il suo pranzo, insieme alle olive ed ai fichi che sbucavano dalla terra e pendevano dagli alberi.

Quando finiamo, io e Mario sparecchiamo. Consegniamo i piatti e le posate alla nonna, e lei li mette sotto l’acqua e il sapone. Nonna dice di andare a riposare. Finisco io, dice la nonna. E Mario ed io andiamo di là, ognuno nella propria stanza.

Mi sdraio sul letto. Resisto con gli occhi aperti senza dormire. Penso all’olio, alla farina, alle uova e al sale. Immagino sia giusto riprovarci. Quando non sento più rumore, e l’acqua non scorre più, e le posate sono lucide dentro il cassetto, e la porta della nonna si chiude dietro le sue spalle, e i singhiozzi della nonna rompono il silenzio, mi alzo. Vado in cucina a piedi nudi. Prendo una padella e la metto su un fornello. Verso un dito d’olio dentro la padella. Accendo il fuoco, e piccole lingue azzurre salgono e spingono sotto la padella. Aspetto qualche minuto. Vedo la superficie dell’olio increspare. Apro il frigorifero. Do una ditata nella pasta fresca delle focacce. Mi rimane un pezzo di pasta gialla sull’indice. Schiaccio la pasta tra le mani. Ne faccio un’ostia della comunione tonda e sottile. Lascio scivolare la mia prima focaccia nell’olio bollente. L’olio sfrigola e fuma. Salgono a galla piccole cupole intorno alla pasta, una corona di cupole trasparenti che crepitano e scoppiettano. Stendo il palmo della mano sulla superficie dell’olio. Stendo la mano finché una goccia incandescente non salta per aria e mi buca la pelle. Tiro via la mano. Serro la mano in un pugno. Stringo i denti. Spengo la corona di fiamme azzurre e porto il pugno nella mia stanza. Chiudo la porta e apro il pugno. C’è una macchia scura tra le righe del palmo. La macchia è la miniatura perfetta del Regno Unito. Prendo il libro di geografia per controllare. Nel libro, in un riquadro rosa sotto la cartina, c’è scritto che il Regno Unito ha un’antichissima tradizione nell’estrazione del carbone. Allora prendo la lente d’ingrandimento. Inquadro la piccola macchia scura sulla mano salutando i suoi piccolissimi abitanti, how are you?. Dentro la macchia scura del Regno Unito c’è il Galles, dentro il Galles c’è la più antica miniera di carbone, soli e dispersi nel regno minerale della miniera di carbone ci siamo io, Mario, il nonno e la mamma. Ma non riusciamo a toccarli, qualcosa impedisce a me e Mario di toccare ancora la mamma ed il nonno. Se mi avvicino le loro ombre si dissolvono. Allora stringo il pugno, un dito alla volta. Seppellisco il Regno Unito tra le sue pieghe. Abbandono la profondità dei miei pensieri e ritorno in superficie. Non c’è più nessuno. Né la miniera, né il Galles, né i piccolissimi abitanti che formicolano sulla macchia scura del Regno Unito. Vorrei papà con me, vorrei che almeno lui fosse qui, ma non so dove sia oggi, né quando tornerà a casa.

Poi papà ritorna a casa. Il colletto della camicia è sporco, un filo di barba gli segna il volto, ma non ha più la luce delle pietre dure negli occhi, sembra papà proprio come lo ricordo. Ha una palla di vetro in mano. Dentro la palla c’è l’acqua, nell’acqua ci sono due pesci rossi, dentro i pesci rossi c’è la lisca bianca, come ci ha fatto vedere la maestra Cristina vivisezionando le interiora di alcune creature marine.

Scusate, dice papà. Scusatemi, ma non ce l’ho fatta. Allora Mario ed io guardiamo papà, e gli dico di non preoccuparsi, abbiamo seguito noi la mamma, abbiamo accompagnato noi la mamma nella fossa scura, e quando è stato il momento Mario ha lanciato sulla mamma un pugno di terra anche per lui, la terra più lieve che abbiamo trovato, senza neanche un sassolino dentro, la terra più liscia che c’era.

Da fuori, i pesci sembrano lunghi come delfini. Papà poggia la palla di vetro sul tavolo, ed io e Mario guardiamo i pesci dall’alto. In un attimo ritornano normali, piccoli come mignoli, rossi sopra e quasi arancioni sotto. Nuotano in lungo e in largo, aprono e chiudono le branchie, e ruotano dentro la palla di vetro compiendo il giro, migliaia e migliaia di giri, navigando dentro questo mediterraneo d’acqua dolce senza fermarsi mai.

Come si chiamano, chiede Mario. Papà dice che i pesci rossi avranno il nostro nome. Quello piccolo si chiama Mario. Quello appena più grande, Martina.

Allora guardo Martina negli occhi. Quando si muove, mi muovo anch’io. Quando boccheggia, boccheggio anch’io. Quando mangia, mangio anch’io. Quando si nasconde dietro la pinna di Mario, mi nascondo anch’io. E ruoto e giro e scendo in picchiata nell’acqua trasparente.

Nonna arriva e abbraccia papà. Passa la mano sul suo viso scavato. Non dice niente, si trattiene dal dire qualsiasi cosa, e anche papà si trattiene, tutte le parole dietro la linea di partenza dei denti, continuando a guardarsi, a scambiarsi informazioni con gli occhi, lasciando scorrere i minerali dentro la riga di acqua trasparente scivolata sulle guance, tutte le pietre dure ed i cristalli. Parlano come lo farebbero Mario e Martina, muovendo le mani come pinne, girando costantemente intorno alle parole non dette, alle parole che nessuno avrebbe mai immaginato.

Tra le parole che nessuno avrebbe mai immaginato, ci sono anche queste. E le focacce, chiede Mario. La nonna dice di andare a lavarci le mani, lo dice anche a papà, gli fa proprio segno di andare in  camera sua, sistemarsi e venire a cena, che chissà da quant’è che non mangia, trattando papà come se fosse Mario, ma Mario tra tanti e tanti anni, le tempie scoperte, i peli neri sulle braccia, le tonsille e l’appendice abbandonate all’ospedale, la pillola per regolare la pressione da mandare giù prima di dormire, e l’anello all’anulare, l’unica cosa d’oro che abbia mai visto addosso papà, l’anello con cui gioca in continuazione, muovendolo in senso orario, come se il cerchietto di metallo seguisse la rotazione terrestre, il moto del pianeta terra intorno al proprio asse.

Ma papà dice di no, stasera no. Ho solo bisogno di dormire, dice. Poi papà prende Mario in braccio. Gli chiede da quanti giorni non si presenta a scuola. Mario apre due dita della mano, poi ci pensa bene e ne mostra tre. Papà dice che qualsiasi cosa succeda, noi domani torneremo a scuola. Una volta era la mamma a guidare fino alla Antonio Meucci, e farmi scendere lì davanti, aspettando che entrassi, ma domani se ne occuperà papà. Chissà quante cose avranno spiegato la maestra Maria e la maestra Cristina. Chissà quante lezioni avrò perso e quante minuscole tessere del mondo rimarranno un’incognita per sempre.

Nonna ci chiama in cucina, papà lascia atterrare Mario dopo averlo fatto volare con le braccia aperte. Ci dà un bacio, uno a me e uno a Mario. Ci ricorda che domani alle sette c’è da mettere i piedi a terra senza fare nessuna storia. Va in camera sua, anche se così stanco, così scavato, così rassegnato ai disastri naturali non lo avevo mai visto.

Mentre ceniamo, invece del televisore, guardiamo i pesci. Mario e Martina al contrario sono immobili nell’acqua e guardano lo schermo. Ai loro occhi, il televisore è un acquario più grande e colorato. Ma la loro aria perplessa nasce da quel pesce con i capelli bianchi, gli occhiali e l’abbronzatura leggera. A complicare le cose, il pesce in giacca e cravatta non boccheggia, parla. Al punto che Mario e Martina, indispettiti dall’inverosimiglianza e dall’uso esasperato degli effetti speciali, tornano a ruotare, pensando che noi esseri umani dobbiamo avere non pochi problemi se crediamo che i pesci rossi possano cascarci così.

Oggi andrò a scuola. Saluterò papà, attraverserò il cancello, e un attimo prima di entrare dal portone mi girerò di nuovo, guardando ancora papà che mi saluta. Entrerò in classe, appenderò lo zaino alla sedia, sistemerò il cerchietto tra i capelli, e farò finta che nessuno mi guardi in quel modo. Saluterò Silvia e mi siederò vicino a lei. Tirerò fuori i libri dallo zaino, i quaderni e le penne colorate, ma dirò a Silvia di non preoccuparsi. Se mai vedesse la luce delle pietre dure nei miei occhi, se mai mi irrigidissi in una posizione minerale, lei potrà stare tranquilla, sarà una cosa momentanea, una cosa che passerà. Poi seguirò la maestra Maria mentre traccia le linee di gesso sulla lavagna, la seguirò anche se mi guarderà in quel modo quando si gira da questa parte. E se continuasse a guardarmi così, alzerei la mano, direi che non avrei capito, mi farei spiegare ancora la storia dei Sumeri, il popolo che inventò la scrittura cuneiforme, la prima popolazione che svanì come i dinosauri dopo aver avuto la possibilità di incidere sulle tavolette di argilla fresca la parola estinzione.

Così vado in bagno, mi lavo la faccia, passo il filo interdentale tra i denti, e davanti allo specchio sistemo il cerchietto tra i capelli, passando alcune ciocche dietro le orecchie. Scendo le scale, e vado in cucina. La nonna potrebbe essere a letto, ma è già in piedi, nera nel vestito che ricorda la discesa del nonno e della mamma nel regno dei minerali, ma allegra e talmente piena di forza che muove le posate in cucina senza rendersene conto, una formichina nera che versa il latte nelle tazze, e il caffè nel mio latte, anche se la mamma non avrebbe approvato.

In pochi minuti siamo tutti a tavola. Nonna davanti, Mario a sinistra, papà a destra. Non so se abbia dormito davvero, ma papà ha l’aria riposata, anche se alcune rughe sulla fronte dicono che lui non è qui, e ho voglia di credere che nella sua testa sia già al lavoro, dentro il suo ufficio, mentre accende il computer e immagina le cose da portare avanti.

Chiedo lo zucchero a Mario. Ne verso due cucchiai nel latte. Giro il cucchiaino nella tazza. Scendo con lo sguardo nel vortice del latte, nel mulinello del latte che turbina velocissimo senza uscire fuori, proprio come Mario e Martina che ruotano sempre intorno allo stesso punto.

Mario domanda se anche i pesci rossi fanno colazione. Sicuramente gli piacciono i biscotti, dice. La nonna ride e papà ammette che i pesci piuttosto vomiterebbero. Anche se Mario non è proprio convinto, e avvicina un biscotto alla palla di vetro. I pesci rossi si agitano, saettano nell’acqua, puntano il biscotto e rimangono fermi dentro la sua ombra. Ve lo dicevo, dice Mario. Gli piacciono, gli sono sempre piaciuti.

Papà dice di tornare a sedere e di finire il latte. Ci sarà traffico in strada, e bisogna partire in tempo, evitando di mettersi in coda. Mario lascia il biscotto davanti alla palla di vetro, e si siede. Ne prende un altro e fa per affondarlo nel latte. Poi guarda papà, apre la bocca per dire qualcosa, ma non la dice. Rimane lì senza dire niente, in una posizione rigida e minerale, il biscotto per aria, gli occhi fissi sul latte. Non ti va più, chiede papà.

Mario guarda di nuovo papà e lascia le labbra aperte, così che le parole, quando sarà il momento, trovino l’uscita giusta. Dov’è la mamma, chiede Mario.

È solo una domanda. È l’unica domanda che Mario sta tentando di mettere insieme da giorni. Mario lavora le parole come la plastilina. Alla fine, se ci lavori su, e premi con le dita nel posto giusto, poi ne viene fuori una figura comprensibile.

Papà è ammutolito. Le sue gambe sono di cristallo, le braccia di quarzo, il corpo di roccia nera. Non dice niente. Molto probabilmente io, Mario, la nonna e i pesci non siamo più seduti al tavolo in cucina. Un vento ghiacciato ci allontana e ci nasconde alla sua vista.

Gli chiedo a che ora usciremo da casa, ma non mi risponde. Gli chiedo se deve ancora fare benzina, ma non mi guarda. Si alza, esce dalla cucina, prende le scale e torna in camera sua. L’ultimo rumore che sentiamo è la sua porta che si chiude.

Nonna è sulla porta di casa. Ci dà un bacio, uno a me e uno a Mario. Ci stringe a sé, ci accarezza. Ci ho provato, dice la nonna. Ci ho provato, ma non ci sono riuscita. Non vi lascerò soli, dice la nonna. Ma oggi devo andare.

Le rotelle della valigia girano sul pavimento. Dietro la porta c’è la nonna, sugli scalini c’è la nonna, per strada c’è la nonna, sul taxi c’è la nonna, la nonna non c’è più.

Quando papà è andato via, la nonna ha aspettato. Ci ha fatto segno di finire la colazione, di stare buoni, lei avrebbe sistemato le cose. È salita al secondo piano, è rimasta davanti alla porta di papà, ha radunato tutta la calma e la forza, e con tutta la calma e la forza disponibile ha picchiato con le nocche sulla porta, una volta, due volte, pregando papà di uscire, di tornare giù, evitando a me, Mario e i pesci rossi quella scena, il ricordo di quella scena. Nonna ha continuato a picchiare sulla porta, tre volte, quattro volte, supplicando papà di tornare in sé e uscire, di farlo per il bene dei vivi e dei morti, soprattutto dei vivi, dei bambini in cucina che aspettano senza parlare, seduti vicini, davanti al latte freddo, ormai gelido e minerale nelle tazze. Da dietro la porta, papà ha urlato di andare via, ha iniziato a urlare cose irripetibili alla nonna, parole cattive di cui non conosco il significato, anche se bastava il suono, nel suono cattivissimo delle parole cattive era raccolto tutto il loro senso, tanto che ho chiesto a Mario di venire da me, di sedersi qui, Mario si è accomodato sulle mie ginocchia, e quando gli ho coperto le orecchie con le mani non si è meravigliato, è rimasto sotto la protezione delle mie mani con gli occhi chiusi. Si sente il mare qui, diceva Mario, nel cavo delle mani. Nel mare c’è il plancton, i delfini, gli squali tigre e le stelle marine. Nel mare ci sono Mario e Martina che ruotano sempre intorno allo stesso punto, anche se potrebbero spingersi più lontano adesso, perfino più lontano dei motoscafi.

Giro la porta dietro di noi. Anche oggi staremo a casa, dico a Mario. Torniamo in cucina. Mettiamo nei cassetti le posate mai usate. Chiudiamo nel sacchetto le fette biscottate mai toccate. Stringiamo il tappo della marmellata mai aperta. Restituiamo al frigorifero il burro mai sfiorato. Ricopriamo lo zucchero mai sciolto nelle tazze. Lasciamo scivolare nel lavello il latte mai bevuto, il caffè mai preso in considerazione.

E i pesci, chiede Mario. Almeno i pesci devono fare colazione. Mario mi supera e afferra il contenitore. Sale su una sedia, apre il contenitore, inquadra la palla di vetro e versa una piccola quantità di mangime. Dal contenitore precipitano coriandoli verdi, arancioni e gialli. Rimangono sulla superficie, s’inzuppano d’acqua, affondano giù. Coriandoli che vanno giù come stelle filanti. Nella festa delle stelle filanti, Mario e Martina nuotano e girano e mangiano senza più guardarci.

È come la manna, dico a Mario, ripetendo il catechismo. Le cose buone da mangiare precipitano dal cielo. I coriandoli, come piccoli stormi, atterrano tra Mario e Martina disorientati.

Immagina le focacce, dico a Mario. Le focacce, le patatine fritte e le frittelle. Immagina se piovessero dal cielo. Immagina noi due correre sotto il cielo per prenderle al volo. Montagne di focacce croccanti. Giacimenti di patatine dorate. Quantità inesauribili di frittelle con i fiori di zucca. Pagliuzze e lingotti salati da conservare in cassaforte per i tempi peggiori. Immagina cosa sarebbe di noi due se le cose buone da mangiare piovessero dal cielo. Potremmo andare dovunque, in qualsiasi parte del mondo. In Australia, tra i canguri ed i koala. In Svizzera, dove  il cioccolato è buonissimo. In Egitto, a fare le gare con i cammelli tra le piramidi. Oppure in Arizona, dove c’è il Gran Canyon. Hai presente il Gran Canyon, chiedo a Mario. È un’onda gigantesca, un’immensa onda di terra rossa minerale e pietrificata. Ma non è meglio Disney World, domanda Mario. Si, dico io. Ma lì le patatine non cadono dal cielo, te le danno nei sacchetti. È vero, dice Mario. Non sarebbe la stessa cosa, ah ah.

Io e Mario siamo sul divano. Mario ha il telecomando in mano. Ha deciso lui come passare il resto del tempo. Per un po’ ha girato casa con la bicicletta, sfrecciando in corridoio, sgommando in cucina, infilando la traiettoria tra le sedie, e frenando un attimo prima di incollarsi al frigorifero. Poi mi ha chiamato, ha messo un dvd nel lettore, e ha schiacciato play sul telecomando.

Quando sono arrivata in salotto e mi sono seduta sul divano, Il Re Leone era già iniziato. Abbiamo visto questo film milioni di volte. Lo abbiamo visto così tanto che il dvd in qualche punto salta. C’è stato un periodo in cui lo vedevamo sempre prima di cena, e anche mamma lo vedeva, e se qualcosa non andava per il verso giusto, qualsiasi cosa fosse, un brutto voto a scuola o una carie ai denti, cantavamo insieme Hakuna Matata, e anche mamma la cantava mentre cucinava, cioè la canticchiava senza dire le parole, allora Mario appariva all’istante e metteva le parole sulla musica della mamma, “senza pensieri la tua vita sarà”. Non ho mai capito perché mamma non cantasse “chi vorrà vivrà in libertà”, ma una volta papà ha confessato che mamma stonava, stonava tanto da diventare rossa, le guance del colore della vergogna, rossa come le ciliegie, i garofani, i peperoni, i pesci nella palla di vetro.

Hai fame, chiedo a Mario. Mario fa sì con la testa. Il film è a metà, ma mi alzo lo stesso. Non è più come una volta. Simba, Timon e Pumbaa non fanno ridere. Neanche Mario si diverte più di tanto, e immagino me e Mario come due dvd consumati, che girano e saltano, girano e saltano all’infinito, e tocca comunque ricominciare da capo.

Apro il frigorifero, e prendo il prosciutto e le sottilette. Tiro via dalla plastica otto fette di pancarrè. Le stendo sul tavolo. Fetta, sottiletta, prosciutto, fetta, così per quattro volte. Poi spingo la levetta in basso e rimango a guardare. I primi due toast saltano e infilo la prossima coppia nel tostapane. Sono appena bruciacchiati i toast, alla fine. Li metto su un piatto e torno di là.

Chiedo a Mario se vuole acqua o una coca. Mario non mi risponde. È tutto concentrato davanti allo schermo. Mario guarda l’ultima scena in cui appare Mufasa, il re leone. Guarda Mufasa sulla parete rocciosa mettere con enorme fatica una zampa davanti all’altra, cercando di tirarsi su sulla sponda di un crepaccio. Guarda Scar, il fratello del re leone, piantare gli artigli nelle zampe di Mufasa. Guarda Scar dire “lunga vita al re”, e poi mollare la presa. Guarda Mufasa sgranare gli occhi e la bocca, precipitare di schiena nell’abisso del crepaccio, sparire dentro la polvere immensa. Guarda Simba, il figlio del re leone, guardare tutto dall’alto, e più che uno sguardo Simba è un urlo, un “nooooooooooo” cosmico e disperato. Quando la scena finisce, Mario rimette da capo le immagini, schiaccia play e il leone ritorna ancora sulla sponda del crepaccio, per poi cadere e svanire di nuovo, per l’ennesima volta, in fondo alla polvere.

Spengo il televisore. Mario ha la luce delle pietre dure negli occhi, lo sguardo vitreo e mineralizzato, le guance di marmo bianchissimo. Acqua o coca, gli chiedo. Coca, risponde Mario, come se non fosse successo niente e la luce negli occhi non fosse sua, come se non fosse stato sul punto di pronunciare per la prima volta, dopo aver osservato chissà quanto la stessa scena, la più definitiva delle parole.

Con il televisore spento però funziona poco. Lascio il toast nel piatto. Vado in cucina, prendo la palla di vetro e la porto in salotto. Mentre finiamo i toast, guardiamo Mario e Martina. Rigano l’acqua, in tondo, sempre intorno allo stesso punto immaginario.

Mario fa per lanciare una mollica nell’acqua, ma lo fermo in tempo. I pesci mangiano roba da pesci, dico. Anche se si chiamano come noi, chiede Mario. Proprio così, rispondo io, masticando il toast.

Squilla il telefono, ed io rispondo. È la zia. Ha sentito la nonna, e dice di non preoccuparmi, di stare tranquilla, verrà lei da noi appena uscirà da lavoro. Mi chiede se sto bene, cosa abbiamo mangiato, come sta papà, se per caso papà è uscito dalla stanza, e se Mario è il bambino solare di cui ricorda, o se il regno dei minerali, e la luce delle pietre dure, hanno offuscato il bagliore della sua allegria.

Faccio finta di niente, e non dico cosa è successo poco fa, non le dico niente di Mario e Il re leone, mi limito solo ad immaginare la zia che muove le mani mentre parla, una mano vicino all’altra, la stessa evoluzione delle mani della mamma, e le rispondo di stare tranquilla anche lei, non ci sposteremo di un millimetro Mario ed io, la aspetteremo qui, non c’è bisogno che corra, o parcheggi in doppia fila per fare prima, quando sarà il momento troverà me e Mario davanti alla porta, a braccia aperte.

Chiudo il telefono, do un bacio a Mario, come promesso alla zia. Mario si pulisce la guancia con la mano, e torna in salotto davanti al televisore. E se preparassimo un toast per papà, chiedo a Mario. Allora Mario mi segue in cucina. Apre il frigorifero, prende il prosciutto e le sottilette. Aspetta me che stendo le fette di pancarrè sul tavolo. Poi gli insegno come si fa, fetta, sottiletta, prosciutto, fetta. Sistema tutto con molta cura, dispone simmetricamente il formaggio ed il prosciutto cotto, neanche un angolino giallo o rosa fuoriesce dai bordi delle due fette. Gli dico che forse è meglio prepararne due, magari papà avrà tanta fame, e ne faccio un altro. Aspettiamo che saltino dal tostapane, e quando vengono fuori Mario ne prende subito uno, ma tira via la mano, e forse con questo imparerà per sempre come evitare di scottarsi.

Impiliamo i due toast in un piatto, e usciamo dalla cucina. Mario tiene il piatto con due mani, e sulla scala fa un gradino per volta, evitando che il pranzo di papà voli via al piano terra. Finiamo le scale e prendiamo il corridoio. Facciamo tutto il corridoio e arriviamo davanti alla porta di papà. Potrebbe essere la porta della vecchia signora che si è definitivamente chiusa in casa per sfuggire ai microbi, e in un istante immagino la porta di papà sigillata, le fessure della porta riempite di cotone bianco, in modo che niente possa uscire e niente possa entrare. Invece sento delle voci, come se ci fosse qualcun’altro nella stanza di papà. Una voce che dice dai, dai, dai. Mamma, dice Mario.

Trattengo il respiro, spingo fino in fondo la maniglia della porta. Non è chiusa a chiave, e la porta si apre davanti a noi. Nella stanza c’è solo papà, seduto sul lettone, in maglietta bianca e jeans. Ma nel televisore acceso ci sono mamma e papà. Anche se non li avevo mai visti così.

Sono nudi, mamma e papà, sullo schermo del televisore. Si baciano, si leccano, e quando si baciano forte con la lingua chiudono gli occhi. Papà bacia il collo della mamma, il seno della mamma, e lo bacia succhiando, come poteva fare Mario la prima volta che l’ho visto tra le braccia della mamma, con i capelli neri in testa e le braccia piccolissime e raggrinzite.

Mamma, dice Mario, e lascia cadere a terra il piatto con i toast. Papà si gira verso la porta, si accorge che siamo dentro. Allora viene qui, e ci bacia, ci accarezza, come se dall’ultima volta che ci siamo incontrati fossero passati secoli, millenni, intere glaciazioni.

Venite qui, dice papà. Ci sediamo tutti e tre sul lettone, continuiamo a vedere mamma e papà nudi che si baciano, si leccano, si respingono, guardano verso di noi, indicano lo schermo, si avvicinano ancora e respirano forte.

Guardate cos’era la mamma, dice papà. Guardate quanta bellezza, dice. Adesso è mamma che lecca papà, e papà ruota la testa all’indietro e inarca la schiena.

Immaginavi la mamma così dolce, forte e bella, chiede papà a Mario. Allora Mario fa di no con la testa, e poi mi guarda, resta fisso con lo sguardo nei miei occhi, come per chiedere se io invece fossi a conoscenza di tutta questa forza, dolcezza e bellezza.

La mamma sale su papà, e papà respira forte, poi la mamma si ferma. Aspetta, dice mamma dentro il televisore. Prende il telecomando tra lenzuola, lo direziona verso lo schermo, l’immagine si stringe, e mamma e papà diventano più grandi, la scatola del televisore fatica a contenerli, sembrano uscire fuori dallo schermo.

Allora mi alzo, raccolgo i toast da terra, li metto nel piatto. Chiamo Mario e Mario scende dal letto e mi segue. Dico a papà che più tardi passa la zia, papà fa si con la testa, e ci lascia andare. Usciamo dalla stanza, e chiudo la porta.

Ma la mamma gridava perché sentiva male, chiede Mario. Magari no, rispondo io. Anche se non ho il coraggio di immaginare ancora la luce che usciva dal televisore, la luce delle rocce, dei minerali, delle pietre dure. Sarà per quello che papà non la finisce di essere triste. Deve essere quello, mi dico per le scale, e poi non ci penso più.

Questo racconto è stato pubblicato su Nuovi Argomenti n. 50, Aprile-Giugno 2010

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3 Commenti

  1. Bellissimo racconto, perché crea un universo immaginativo. Il motivo dei minerali, cristalli illumina il dolore del ragazzo. Cristallo, un paese della scomparsa, freddo, di strana bellezza. La morte scintilla come gemma.
    Il ragazzo non visita mai il paesaggio della presenza, ma quella dell’assenza.
    Qualcuno (la madre) ha sparito nel bianco, è sola ora un illusione luccente.
    Molto bella, la creazione della Francia con una macchia, nella sua forma particolare, un invenzione della ferita abitata.

  2. Peppe, questo tuo racconto è una roccia magmatica! Della lava incandescente che cristallizza lenta.

    E alla fine, mi viene da pensare: (dove lei non è) feu la cendre.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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