Pop is dead (but London isn’t)

di Helena Janeczek

Il pop è morto e l’ho scoperto a Londra. C’ero stata quando le creste punk svettavano in metropolitana e John Lennon stava bene (benché dall’altra parte dell’oceano), mentre adesso i Beatles si contendono la scena con cloni di Elvis, Michael Jackson, Queen e Abba, nei musical più pubblicizzati lungo le scale mobili. Nella “Camera degli Orrori” di Madame Tussauds, Charles Manson si era aggiunto a Jack the Ripper e mi aveva spaventata, ma l’allestimento sapeva di tappezzeria gotico-vittoriana e un cordone separava le persone dai simulacri. Oggi mi ritrovo in un flusso di turisti giunti da ogni angolo del globo che si immortalano con star di Bollywood, fotomodelle, campioni sportivi – a ciascuno quello più in auge dalle sue parti. Nessuno degna di uno scatto la regina Elisabetta o Enrico VIII. La scienza e la cultura sono ridotte a Newton, Einstein, Stephen Hawking, Dickens, Van Gogh e Picasso, altrettanto tristi e solitari. Entrare nei musei statali per vedere I Girasoli, le bellezze cubiste o i fregi del Partenone resta gratis, mentre il tour fra gli idoli di cera comporta code e costi esagerati. Il contrasto con la politica di accesso libero ai luoghi della cultura alta, rivela spietatamente cosa sia diventata quella popolare. Sorridere abbracciati a Kate Winslet o David Beckham, glorie effimere all’altezza di chi si ascrive il potere di incoronarle e detronizzarle. “Effimero” indica appena quanto sia volubile il favore degli dei, là in basso. Ci sono i baronetti di Liverpool, certo, ma in compagnia di Britney Spears e del mezzo moccioso Justin Bieber che, spiega mio figlio, piace alle sue stupide coetanee. Mancano i Rolling Stones: gran delusione e scandalo per il bambino rockettaro. Così si fa ritrarre dimostrativamente con Jimi Hendrix, quasi a impedire che lo caccino dal tempio dove non c’è più religione, tranne quella dei mercanti.

pubblicato su L’Unità , 4 gennaio 2012.

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21 Commenti

        • Capisci perché mi veniva “pop is dead”?
          C’erano Kylie Minogue, Britney, Rihanna e la buon anima di Amy Winehouse, più altre squinzie che non ho cercato di identificare meglio. E dall’altra parte solo i Beatles, Freddie Mercury e Jimi Hendrix.

          • decisamente malinconico. ma è anche vero che il pop mangià se stesso. per altro c’è anche un gruppo (già autore di “touched by the hand of cicciolina”) che si chiama pop will eat itself.

  1. girano i personaggi e le storie….ogni epoca un tempo aveva le sue icone e i suoi miti; oggi sembra tutto confuso e artatamente mescolato.

  2. In realtà, la “sacra rappresentazione” delle cere è anche più complicata e interessante di così.
    Da un lato, testimonia qualcosa di assai nuovo (oggetto di un libro ponderoso come “Mainstream” di Frederic Martel) ossia la perdita di un’unico centro di egemonia culturale, vale a dire l’Occidente e soprattutto – ovviamente – gli Usa.
    Non ci sono solo le star di Bollywood, ma anche il più grande campione di cricket che è pakistano o per il rugby il neozelandese Jonah Lomu ( di origini tongane e non maori, mi duole precisare :-).
    Dall’altro fa capire come questa maggiore democraticità della cultura pop, finisca per coincidere con “il cliente ha sempre ragione”.
    Il cliente è il consumatore di quei beni immateriali, emozionali, d’immaginario che fanno l’osso del capitalismo postmoderno.
    Come è avvenuto anche per la moda non c’è più un diktat, ma il cortocircuito tra le tendenze monitorate (dai cool hunters, dalle ricerche di mercato e altro) e il loro sfruttamento sistematico da parte di chi ri-produce questo genere di merci.
    Questo funziona solo se implicitamente si è disposti a rinunciare a ogni parametro di giudizio (estetico, di innovazione – in breve: di valore).
    Mi ha colpito che questo l’abbia colto anche un ragazzino undicenne che si sta da poco appassionando al campo della musica. Quando ha visto che mancavano i “suoi” Rolling Stones (per giunta londinesi, mentre era pieno di squinzie e Justin Bieber e Michael Jackson, ha commentato su quest’ultimo: “lui almeno era bravo”.
    Oggi c’è un pezzo su Repubblica che annuncia per quest’anno la politica di soli remake e sequel made in Hollywood.
    E’ da quando sono uscita da quel museo, dopo aver visto una mostra divertente sui Supereroi, che ci penso. Mi sa che gli ultimi personaggi capaci di imporrsi nell’immaginario collettivo sono stati Harry Potter (1997) e Jack Sparrow (2003). Il primo nasce da un libro, ossia del prodotto più low-cost dell’industria culturale, cosa che rende assai più facile i botti imprevvisti.
    Il secondo doveva essere il deuteragonista comico dell’eroe bello e buono, e il personaggio tirato fuori da Johnny Depp aveva sconcertato i capi della Disney:

    “Disney executives were initially confused by Depp’s performance, asking him whether the character was drunk or gay. Michael Eisner even proclaimed while watching rushes, “He’s ruining the film!”[24] Depp responded, “Look, these are the choices I made. You know my work. So either trust me or give me the boot.”[23] Many industry insiders also questioned Depp’s casting, as he was an unconventional actor not known for working within the traditional studio system.[25]”

    Poi, dopo aver scoperto che il film andava forte proprio grazie al tizio dall’aria frocia e strafatta, hanno cambiato idea.

    Per dire che oggi ci sono meccanismi che rendono molto difficile l’emergere di slanci creativi, e questo non solo per le megaproduzioni hollywoodiane.

    • le questioni che finisci per sollevare sono tante. quoto solo questo passaggio:

      “Questo funziona solo se implicitamente si è disposti a rinunciare a ogni parametro di giudizio”

      per conto mio questa assenza (impossibilità) di giudizio è di fatto uno degli elementi cardine della produzione culturale attuale. negli effetti è già una specie di “conquista” teorica dell’arte contemporanea. mi ricordo sempre di un invito del curatore pier luigi tazzi ad evitare la trappola del giudizio estetico. ma ad ora è una cosa generalizzata.
      il giudizio è cmq legato ad un canone ed il canone ad uno spazio pubblico. ora ci sono le comunità, costruite ad uno o più contenuti, che non sono pubbliche ma semmai comuni, stipulate etc. (con i loro commons, i gates etc.).

      ma ora devo scappare (ho ancora i piatti da lavare!)

  3. yeah, pop is dead:

    http://www.youtube.com/watch?v=-yiGC8MLcQc

    Oh no, pop is dead, long live pop
    It died an ugly death by back-catalogue
    And now you know it gets you nowhere
    And now you know, you realize

    Oh no, pop is dead, it just gave up
    We raised the dead but they won’t stand up
    And radio has salmonella
    And now you know you’re gonna die

    He left this message for us

    So what pop is dead, it’s no great loss
    So many facelifts, his face flew off
    The emperor really has no clothes on
    And his skin is peeling off

    Oh no, pop is dead, long live pop,
    One final line of coke to jack him off
    Jack him off

    He left this message for us
    He left this message for us

    He’s dead, He’s dead, Pop is dead
    He’s dead, He’s dead, Pop is dead
    He’s dead, He’s dead, Pop is dead

    (da wikipedia: Pop Is Dead è il terzo singolo della band inglese dei Radiohead, pubblicato nel 1993. Rappresentava il primo ed unico singolo dei Radiohead non disponibile in nessun album fino alla pubblicazione di Harry Patch (In Memory Of) nel 2009. Pubblicato a pochi mesi dal loro singolo di debutto, Creep, e dal loro primo album Pablo Honey, il singolo ha inizialmente riscosso un successo limitato, ma si è poi posizionato al 42º posto della classifica inglese nel maggio del 1993.)

  4. Allora a tuo figlio tocca andare a Las Vegas per farsi fotografare con la statuina di cera di Mick Jagger…

  5. Ti ho pensato, a Londra. E su facebook ho scritto queste quattro cazzatine allegre.

    “Un po’ di cose che ho imparato a Londra (in ordine sparso):
    – Che le metropoli favoriscono le relazioni urbane – in tutti i sensi – anche quando sono piovose e british.
    – Che le ragazze e i ragazzi italiani che lì si mantengono con i più svariati lavori e lavoretti, acquistano un aria più leggera e libera.
    – Che nella divulgazione scientifica gli inglesi restano imbattibili (Science Museum).
    – Che le Doc Martens riportate nel loro habitat naturale sono utilissime.
    – Che Jack Sparrow, visto in originale, fa capire la bravura strabiliante dell’attore Johnny Depp.
    – Che si può mangiare bene senza troppe ricerche e senza spendere di più che in Italia.”

    Grande città, per dire.

    ps. il ragazzo non potrà che accogliere che a braccia aperte la tua proposta correttiva.

  6. Come può morire un qualcosa che per definizione esprime la cultura popolare? Può solo cambiare, essere in linea coi tempi. Meglio prima? Meglio adesso? Solo questione di gusti e di mezzi espressivi. E domani? Se i Maya non avranno avuto ragione ne riparleremo.

  7. Il pop è sempre stato, e sempre sarà.

    Oddio, sempre stato non lo so, ma perlomeno da “Oh, Susanna!” (S. Foster – 1848).

  8. Davide, io temo invece – come ho accennato nel commento sopra – che oggi sia diventato molto più difficile (non impossibile) far passare qualcosa di nuovo, dal basso. Qualcosa che abbia quei caratteri di creatività e diffusione spontanea che erano il tratto portante della cultura popolare, finché non c’era tutta una megaindustria a cercare di intercettarla sin dai primi vagiti.
    Poi siamo probabilmente in una fase di tale cambiamento, che alcune conseguenze si fanno sentire pesantemente – tipo la musica fruita sempre più gratis, cosa che crea uno squilibrio enorme tra quelli che ce la fanno a entrare nei grandi circuiti e quelli che devono vivacchiare ai margini – ma altro è ancora in divenire. Speriamo, in ogni caso, che i Maya li spernacchieremo a fine anno e ne riparleremo.

  9. pop-tourists.
    questo fenomeno – il turismo-pop – scoperto dal precocissimo cinno* è cominciato un po’ prima ad esempio con la catena Hard-Rock Café.
    *(anzi guarda sono molto più pop quelli che si fan le foto con Beckham di tuo figlio, che lo vedo un po’ pre-maturamente puzzone, se posso, e con una cultura per lui inattuale, né pop né alta).

    qui c’è un errore di inversione di lettura: dov’è che si capisce che il pop è reperibile – e quindi fotografabile, souvenirizzabile, cartolinizzabile – in luoghi deputati di culto? non lo è. il pop è una Chiesa sì, ma libera: si muove. tipo Moda, per dire. (guarda cosa si son rubati i ragazzetti dei recenti riots di, toh, Londra). e poi da quando sarebbe esattamente che i remake e i sequel e Bollywood non sono pop?

    questo per il pop simbolico, funzionale, che vale anche in assenza del cosiddetto “qualcosa di nuovo, dal basso, qualcosa che abbia quei caratteri di creatività e diffusione spontanea che erano il tratto portante della cultura popolare”. anche perché chi è che ha detto che il pop deve essere nuovo? (appunto)

    poi che “i grandi circuiti” non diano accesso alle “novità popolar-culturali” non significa che esse non esistono. sono solo fruite diversamente, in altri luoghi. (appunto)

    anyway, la cosa più pop di tutto sono i soldi. quindi la complessità è seria. è un classico problema infinito, tipo stanza magica degli specchi o numero periodico. (vedi sempre riots: l’i-phone è l’immateriale).

    (istruzioni per l’uso: commento impressionistico ad appunti, su calco stilistico delle cazzatine di facebook; non esaustivo né definitivo).

  10. * rivendico pop-olarmente & alta-mente una differenza se non stilistica perlomeno di impianto e/o peso teorico tra la responsabilità del post e la immediatezza del commento.

  11. Molto interessante, Temptative. Puzzona però lo dici a me, non solo perché il ragazzo si è fatto fotografare pure con Mourinho :-)
    Nel caso non si capisca, non penso affatto che i remake o Beckham e Bollywood ecc non siano pop.
    Hai ragione tu, però, a porre la domanda: chi ha detto che il pop debba essere “nuovo” o “originale”. Tradizionalmente, la cultura popolare non lo era. Eppure si rinnovava, magari molto lentamente, ma visto che nessuno tranne i suoi facitori e utenti se la filavano, piano piano mutava.
    Non so, per quanto mi renda conto che la rappresentazione di cui parlo sia rappresentativa solo di una parte, io però temo che un po’ di questa libertà, l’abbia persa da quando l’industria culturale è diventata sia così democratica che veloce nel avvicendare un prodotto simbolico all’altro.
    Sempre impressionisticamente anch’io. L’Iphone immateriale però costa una paccata. Altrimenti non andrebbe a ruba. E, così a naso, proprio il fatto che dei riots sia rimasta impressa l’immagine dell’Iphone (et similia) rubato, mi sembra indicativo se non di rapporto di forza cambiato.

    • Leggo con qualche giorno di ritardo, trovo ottimo lo spunto e le osservazioni. Credo che la cultura popolare si sia espressa in passato con quello che si chiamava folklore che oggi si trova nei musei di provincia e nelle feste di Liberazione (da quest’anno feste solo online). Quello che chiamiamo da cinquant’anni pop è una cultura industriale (un tempo anche un pò artigianale) ad uso del popolo ma non prodotta dal popolo. Oggi sembra peggio di quarant’anni fa perché, come giustamente hai notato, Helena, si è acuito il meccanismo di sfruttamento economico delle idee e delle rappresentazioni, quindi l’industria non distribuisce più creatività cercando di sfruttarne il meglio, ma crea direttamente dal meglio sfruttabile, e forse stiamo vivendo tutti immersi in una grande opera pop del capitale che i posteri, dopo la fine del mondo maya, si godranno con spassosi filmetti (?)
      L’odierna cultura popolare oggi come sempre vive su canali popolari; ieri le aie e le piazze, oggi internet, e le piazze solo per finta; anche se è enormemente contaminata dal pop industriale, quindi è sradicata, confusa, conosce derive da curva e da “strada”, entra ed esce dai centri sociali, dai laboratori teatrali, dalle sale prova frequentate da gruppetti musicali prima che tocchino i programmi tv talent-scout dove si squagliano e diventano plastica fusa nelle mani del mercato-demiurgo-artista (mi sa che sono un poco idealista)

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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