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Minima ruralia – Contadini, dunque villani

di Massimo Angelini

Nel deposito delle parole che formano la nostra lingua, per dire di qualcuno che è rozzo, grossolano, o maleducato, o comunque per denigrarlo, si usa un termine che, se vai a vedere bene, vuole dire “contadino”: per esempio, “villano”, “burino”, “bifolco”, “terrone”, “cafone”, “buzzurro” e così andando.

Risalendo all’origine delle parole: villano è l’abitante della villa, dell’insediamento rurale; burino, chi usa gli attrezzi agricoli; bifolco, il guardiano dei buoi; terrone, il lavoratore della terra; cafone è il cavallo castrato da lavoro e, per estensione, chi fatica in campagna; buzzurro, il venditore ambulante di castagne e polenta.

Chi lavora la terra dà da mangiare a tutti e solo per questo il suo lavoro dovrebbe essere considerato tra i più importanti, se non il più importante, invece nel tempo è stato collocato sui gradini più bassi della scala sociale, oggetto di dileggio e disprezzo. Il lavoro che sporca le mani è considerato un lavoro sporco e allora sporco e, dunque, rozzo è chi lo fa.

Questo modo di costruire le gerarchie è lo specchio di un modo urbano di pensare il mondo che al centro dello spazio pone la città e chi ci vive e il contado ai suoi margini; e nella filigrana di questo modo si potrebbe leggere anche la contrapposizione tra le civiltà che nascono dalla scrittura e quelle generate nell’oralità o, forse, tra la propensione all’astrazione e l’ancoramento alla conoscenza materiale, tra un mondo asettico, immacolato e deodorato e un mondo che odora di terra, letame e sudore.

Comunque sia successo, il disprezzo per i contadini viene da lontano, vive in caricatura nella commedia classica e procede lungo tutta la storia della nostra letteratura.

L’istoria de soa natevità

voyo che vu indenda.

La zoxo, in un hostero, si era un somero;

de dré si fé un sono, sì grande come un tono:

de quel malvaxio vento

nascé el vilan puzolento.

     Così nel XIII secolo, arguto, ma sprezzante, Matazone da Caligano, racconta la generazione dei contadini attraverso il meteorismo degli asini!

E ancora sull’origine infima e ignobile dei “villani”, nell’Orlandino (1526), Teofilo Folengo sbeffeggiava:

Transibat Jesus per un gran villaggio

Con Piero, Andrea, Giovanni e con Taddeo;

Trovan ch’un asinello in sul rivaggio

Molte pallotte del suo sterco feo.

Disse allor Piero al suo maestro saggio:

“En Domine, fac homines ex eo”.

“Surge, Villane”, disse Cristo allora;

E’l Villan di que’ stronzi saltò fora.

     Di altri esempi, se ne potrebbe fare un libro.

Ancora qualche anno fa, sentirti contadino poteva recarti disagio o vergogna. Nel secondo dopoguerra da questa condizioni potevi solo fuggire o nasconderti. La modernità chiamava in città: se non ascoltavi, ti condannavi all’arretratezza. E se volevi sposarti facevi bene a non dirlo il tuo mestiere, ché dalle tue parti una moglie probabilmente non l’avresti trovata, salvo chiedere aiuto a un mezzano che ne avrebbe fatta salire una dal meridione. Lo racconta bene Nuto Revelli ne L’anello forte (1985).

Nell’Italia industriale e progressiva, i contadini non erano considerati solo arretrati, potevano anche odorare di Battaglia del grano o di sacrestia. Kulaki. Qui da denigrare, altrove da sterminare sotto la luce metallica del sole dell’avvenire.

Poi, nel corso degli anni 1990, c’è stata una svolta. Dietro la frana di tante ideologie, il mondo contadino poco a poco è stato riletto come fronte di resistenza al consumismo, all’accumulazione capitalista, alla globalizzazione, spazio di possibile libertà e autonomia. E c’è del vero, ma è vero anche che tanti, così, si sono rifatti la purezza ideologica perduta, lasciando le bandiere, alzando l’immagine della zappa, senza però comunque rinunciare al gusto degli slogan e ai toni da comizio.

Oggi, 2013, mi pare che siamo nel pieno di questo processo di ridefinizione. Prima ci si vergognava di dirsi contadini, oggi c’è addirittura chi lo ostenta, a volte con buon diritto, a volte anche se coltiva un orto o poco più e le sue mani e il suo viso sono chiari e senza segni. E, tra questi, c’è chi volentieri si fa rappresentante dei contadini, loro alfiere ideologico e portavoce, ma purché siano contadini “consapevoli”, ambientalisti, biologici, progressisti, alternativi, forse rivoluzionari, proprio come lui. Il moralismo è lo stesso di chi qualche decennio fa aveva “preso coscienza” e voleva farla “prendere” agli altri, stessa l’astrazione e il disprezzo per la gente che non è “consapevole”, che non “partecipa”, che non si adegua ai nuovi dettami della modernità, e per i contadini che non esercitano la nuova agricoltura e non vanno a ostentarla in piazza: villani, questi, condannati dalla storia. Come sempre.

(questo testo è tratto da “Minima ruralia”, sottotitolo: “Semi, agricoltura e ritorno alla terra”, del filosofo e ruralista Massimo Angelini, pubblicato da “Pentagora”, Savona, 2013)

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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