La muta

di Gianluca Cataldo

Ma le tue responsabilità?
Un quarto va ascritto all’ereditarietà,
un quarto alle circostanze, un quarto alla
casualità: solo un quarto di responsabilità è mio.
(Akutagawa Ryūnosuke, trad. L. Origlia)

Non parlo del dubbio, che di questa moneta bicefala è il volto attivo e dinamico, ma dell’incertezza, che ne è l’aspetto passivo, perché mi è esterno e mi rende impotente, incapace di dare una risposta. Ho sempre dubitato tanto, di tutto, e mi sono sempre mossa – avanti o indietro – lungo la linea della mie consapevolezze, o delle mie convinzioni monolitiche, ma dinanzi all’incertezza mi blocco, giro a vuoto in una laconica circolarità. Impotente. E mentre fuori dalla finestra sento grida e boati io mi sento innocua, con tutti i muscoli intorpiditi, tutti, da quello della vanità e quello della volontà, passando per i polpacci e i tricipiti. Mi sono rinchiusa in casa ormai da un paio settimane, e un fetore sottile sta poco a poco attraversando le stanze, scovandone ogni interstizio. A me non importa. Puro è colui che accetta la santità, lo scontro in piazza e il martirio, mentre io ho voluto rinunciare alle icone, e mi sembra l’unica scelta che abbia mai davvero preso.

È cominciata – dicono – il quindici settembre del 2008, con il fallimento della Lehman Brothers, ma già anni prima la si poteva prevedere. Io, almeno, la vedevo sul mio corpo, che ogni mattina si venava di azzurro seguendo le linee sottocutanee, un colore che al lavoro, in verniceria, per quanto mi impegnassi non riuscivo a riprodurre. Ho letto da qualche parte che è proprio il colore tipico delle interiora a essere praticamente irriproducibile, e dopo anni di lavoro sottopagato, alla ricerca di questa piccola soddisfazione personale, posso confermare. E adesso me ne sto dentro questa casa, racchiusa da elitre, circondata da pareti di chitina e celata. Un’isola nel Mediterraneo, un rigurgito di terra che sa di zolfo, senza un attracco che non sia una violazione delle sue coste.

Lui partecipava allo scherzo del mondo senza avvertire l’esigenza di un’osservazione. O almeno così mi sembrava. Era in tutto partecipe alle sue azioni, quasi non avesse entropia. Strabuzzava gli occhi quando più zucchero del dovuto cadeva nella tazzina e provava a toglierlo col cucchiaino, mentre la sua postura curva si specchiava sui vetri della finestra prima di uscire e sfiorare altri gomiti sull’autobus. Era come un insetto, si limitava ai sensi senza sentire l’esigenza di affrancarsi dalla biologia, e dei suoi comportamenti a me era dato solo presumerne premesse e conseguenze. Tutto ciò a volte mi irritava. Più spesso mi sorprendevo a osservarlo, a parlargli tra mille cautele, e chiedermi cosa mi avesse spinto ad andare a vivere con lui, scaricandogli addosso, da brava cattolica, quei peccati che detestavo fossero miei.

Oggi vivo una paura diffusa ed eterea che, indipendentemente dall’attualità della minaccia, orienta il mio comportamento. Probabilmente il miglior termine per descrivere questa declinazione dell’animo è una particolare forma di sensibilità, ossia l’incertezza. Ho accettato nella mia vita l’inclusione di tale variabile, l’ho inoculata come fosse un virus, e il mio organismo ha reagito generando meccanismi di difesa a questa paura ubiqua, derivata, che si auto-alimenta. Questo senso di incertezza è lo stesso che ho sempre immaginato attraversare l’antico testamento. La paura del popolo eletto, le persecuzioni, le richieste di Dio fatte a sua immagine e somiglianza, le ulcere le pestilenze i sacrifici le uccisioni i prepuzi. L’antico testamento è pervaso dall’insicurezza dell’operato di Dio, la paura di una sua reazione, benché nel suo imperscrutabile disegno si ponga una totale aderenza. Mi sono sempre chiesta perché, e credo sia perché Dio e la sua chiesa hanno posto la vita eterna, il fine della loro dottrina, oltre la vita stessa, irraggiungibile e dunque non opinabile, mentre il 3% nel rapporto deficit/PIL è tangibile come un’ustione da spray urticante.

Gli ultimi tempi parlavamo poco, ma passavamo più tempo insieme, condividendo lo spazio del nostro letto, dove lui, sdraiato, ritrovava uno sbuffo di vitalità. E pure io. Ci alzavamo solo per bere un bicchiere d’acqua o cucinarci qualcosa che consumavamo in camera, mentre accatastavamo una sopra l’altra tutte le nostre maschere senza trovare un filo d’erba su cui poggiare i piedi scalzi. Gli occhi si facevano sempre più vitrei, come ocelli, mentre da fuori urla e rumori scomposti rimbalzavano sulle pareti di casa, almeno finché lui non ha richiuso i vetri antiacustici ed è tornato a letto. Nei giorni successivi il suo respiro ha cominciato a farsi affannato, per poi acquietarsi a un ritmo blando e costante, quasi uno stato di letargo comatoso. Il suo addome si gonfiava lento per poi ritirarsi, mentre le dita stringevano le lenzuola quasi vi fossero aggrappate, ma senza veemenza. Io inumidivo una pezza e lo tamponavo lungo tutto il corpo, sempre più disidratato, mentre quella puzza di cui scrivo adesso cominciava a dilagare per la casa. In poco tempo ha cambiato colore, inscurendosi. Poi una mattina, mentre gli accarezzavo la fronte, ho visto in trasparenza delle grinze sottocutanee, come una specie di seconda epidermide, ancora accartocciata, pronta a squarciare la vecchia cuticola. E ho capito.

Il negativo dell’incertezza è la sicurezza. Il Devoto-Oli definisce sicurezza “condizione oggettiva esente da pericoli, o garantita contro eventuali pericoli”. Ma se i pericoli non esistono? Come si fa a sentirsi sicuri in assenza di pericoli?

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