Dimenticare la realtà: spiritismo occidentale e sciamanesimo decoloniale
di Federico Luisetti
“… una parte importante del nostro patrimonio culturale proviene – attraverso tramiti che in gran parte ci sfuggono – dai cacciatori siberiani, dagli sciamani dell’Asia settentrionale e centrale, dai nomadi delle steppe”
Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba (Einaudi, 2008, p. 266)
Passeggiavo per le sale del Palazzo Enciclopedico, la wunderkammer allestita da Massimiliano Gioni all’interno della Biennale di Venezia, tra le pietre magiche di Roger Caillois e i dipinti tantrici del Rajasthan, le geometrie misteriose di Rudolf Steiner e il bestiario di Shinichi Sawada, i mari notturni di Thierry De Cordier e i disegni sciamanici delle Isole Salomone, i girasoli di Stefan Bertalan e i readymade africani di Papa Ibra Tall, e mi pareva che un passaggio d’epoca stesse materializzandosi. Nonostante la presenza di molti protagonisti delle avanguardie e neoavaguardie storiche, la sensazione non era di una coazione a ripetere una mistica dell’arte, esoterismi e pratiche iniziatiche del secolo passato, ma di una coagulazione ambientale di naturalismi e orientalismi, di saperi indigeni e atteggiamenti premoderni: uno sciamanesimo decoloniale, una decreazione dell’estetica e dell’antropologia politica occidentale; un oblio volontario della modernità …
Nel mentre, lontano dalla confusione biocosmica di queste immagini, proprio quando gli ultimi brandelli di jus publicum europaeum stanno per essere inghiottiti dal loro parto mostruoso e l’Occidente atlantico si rassegna ad abdicare a quattro secoli di colonialismo geopolitico e universalismo geofilosofico abbandonando l’America al Pacifico e al suo destino orientale, ecco che su scarni libri e tristi giornali, dalla periferia di un impero in disfacimento, in un cantuccio abitato da due papi e bagnato da un piccolo mare cementificato, un manipolo di letterati e scolastici, ritti sulle macerie di cattolicesimi monchi e umanesimi cortigiani, di marxismi pavidi e storicismi ecumenici, capta tra le rovine di epoche passate il cigolio delle catene di un antico fantasma: è lo spettro del reale!
Per quale ragione questo lugubre fantoccio non trova pace? Perché le sedute spiritiche di realisti nuovi, epici, critici, speculativi, rivoluzionari e traumatici continuano a destarlo e stuzzicarlo? Come mai i vivi non seppelliscono i morti, perché interrogare senza posa il codice infame del reale e auscultare i suoi rantoli epocali? Vi fu un’epoca in cui l’Europa e la civilità, l’uomo e la modernità, il progresso e il capitale facevano problema. Non è il nostro tempo. Il nostro è tempo di altri – di altri mari e di altre parole, di altre nature e altre economie, di altri popoli e altre immagini – e i nuovi realisti temono l’afasia, il collasso silenzioso dell’Occidente, l’esaurimento della teologia politica e del mercato, del sociale e del politico, dell’individuo e dei diritti, del sapere e della ragione. Temono l’evanescenza dell’essere e della critica, della rivoluzione e della libertà. Non sanno che tutto ciò è già accaduto, che le immagini hanno sepolto le parole, che la loro è una lingua morta per tormentare i morti. Lingua di spiritisti, non di sciamani.
Mentre i nuovi realismi si esercitano in questa filosofia della prassi necromantica, in un tentativo disperato di prolungare l’erranza funesta dell’ectoplasma occidentale, lo sciamanesimo decoloniale inventa una politica di deoccidentalizzazione, si getta in un’impresa enorme e affascinante sostenuto da una nuova alleanza tra saperi indigeni e critica della civiltà, tra pensiero postcoloniale e nichilismo. Gli stregoni e i selvaggi, le pietre e gli ornamenti, gli emblemi e i bestiari, i guaritori e i viaggiatori notturni del Palazzo Enciclopedico suggeriscono delle pratiche di naturalizzazione e decristianizzazione, un orientalismo e un minimalismo politico, un multinaturalismo e delle metafisiche cannibali, dei rituali di fertilità, una vitalità, una biopolitica affermativa estranea allo stato di natura occidentale [1].
Agli albori della modernità, quando l’Europa si transustanziò nell’Occidente e nella civilità, imponendo il proprio nomos della terra [2], ripartendo terre e mari, spazio del diritto e dell’eccezione, della produzione e della rapina, tra Hobbes, Locke e Rousseau fu uno stato di natura a sigillare questa violenza geostorica, disegnando selvaggi e civilizzati, una bestialità e una umanità, un’antropologia e una storia. Furono in pochi nei secoli successivi, prima delle rivolte decoloniali, a scorgere e sfidare questo apparato concettuale e politico. Chi lo fece accusò lo stato di natura della modernità, il cristianesimo politico e la civiltà, e perciò fu messo al bando o fagocitato e neutralizzato. E’ ciò che accadde a Leopardi, che dedicò la vita a denunciare lo stato di natura occidentale, “la scuola degli Europei”, a immaginare la “vita degli animali e delle cose indipendente, dall’uomo e da quelli che noi chiamiamo avvenimenti”, a inventare una lingua e una etnografia selvaggia fatta di luna e foreste, di greggi, uccelli e Californi … [3].
Il potere destituente di Leopardi fu uno sciamanesimo poetico, il suo obiettivo una “civiltà media” rinaturalizzata e desocializzata; come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ispirato ai resoconti sui canti dei pastori nomadi kirghizi, con il suo orizzonte animalistico, la cadenza incantatoria e il viaggio cosmico finale: “Forse s’avess’io l’ale/Da volar su le nubi,/E noverar le stelle ad una ad una,/O come il tuono errar di giogo in giogo,/Più felice sarei, dolce mia greggia,/Più felice sarei, candida luna”.
Il nostro stato di natura? Un terzo nomos atlantico, la barbarie dell’homo economicus, lo spiritismo dell’algido reale occidentale? Oppure uno sciamanesimo decoloniale, il ritorno di una natura sconosciuta e perturbante, la decreazione dell’Occidente cristiano …
[1] “Le organizzazioni di potere dello sciamano, del guerriero, del cacciatore, fragili e precarie, sono tanto più spirituali quanto più passano per la corporeità, l’animalità, la vegetalità”, Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi editore, 2006, p. 272. Sul minimalismo politico cfr. R. Barthes, Le Neutre: Cours au collège de France (1977-1978), Seuil, 2002; sul multinaturalismo e le metafisiche cannibali cfr. Eduardo Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales, Presses Universitaires de France, 2009.
[2] Cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, Adelphi, 1991.
[3] “… anche oggidì nelle Californie selve, e nelle rupi, e fra’ torrenti ec. vive una gente ignara del nome di viltà, e restìa (come osservano i viaggiatori) sopra qualunque altra a quella misera corruzione che noi chiamiamo coltura. Gente felice a cui le radici e l’erbe e gli animali raggiunti col corso, e domi non da altro che dal proprio braccio, son cibo e l’acqua de’ torrenti bevanda, e tetto gli alberi e le spelonche contro le piogge e gli uragani e le tempeste … La nazione de’ Californii, per ciò che ne riferiscono i viaggiatori, vive con maggior naturalezza di quello ch’a noi paia, non dirò credibile, ma possibile nella specie umana …”, G. Leopardi, Abbozzo dell’Inno ai Patriarchi e Nota del 1824 all’Inno ai Patriarchi.
vanno, vengono, ritornano
ci vuol grazia, e compassione, per abdicare
ci vuole sempre una giusta misura nelle cose…e un ritorno alla terra quando è possibile, per non perdere il contatto con la natura che da sempre fa parte di noi.
consiglio, a tal proposito, la lettura del bel libro: La lucina di Antonio Moresco
siamo una società sospesa tra i feticci e gli spauracchi
http://www.youtube.com/watch?v=NvjrKySG2xI