Gli orfani (appunti per un fantasy no-gender)

di Davide Nota

 con illustrazioni di Diana Roman 

“Tutto ciò che sogniamo e che forse si realizza in un’altra dimensione è la sola strada frequentabile per tornare a noi stessi spolpati dell’irreale realtà. Ma quanto più sincera è una lettera menzognera rispetto a tutto ciò che un uomo è condizionato ad essere? Così ho deciso di erigere anch’io una galera da cui tentare l’evasione. Scaverò la mia minuscola finestra per indagare un cielo che all’aria aperta mi è impossibile vedere.”

 

Standard del fantasy re-innervati di ebbrezza creaturale e di resistenza alle definizioni di genere (sessuale o narrativo) fondano il canovaccio di 5 racconti inediti, post-apocalittici e anti-cattolici, misto di narrativa pop e tensione a una nuova spiritualità. Potete leggerli cliccando qui.

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Gli autori

[Le note bio-bibliografiche complete sono in calce al libro]

Davide Nota è poeta, saggista, animatore culturale, piccolo editore, autore per l’infanzia, tra i fondatori, nel 2005, della rivista La Gru, ideatore del movimento dei poeti in rivolta “Calpestare l’oblio” (2008), curatore del blog di poesia de L’Unità http://fonticoperte.com.unita.it. Tra i suoi libri: Battesimo (Lietocolle, 2005), Il non potere (Zona, 2007), La rimozione (Sigismundus, 2011) e, con l’illustratrice Valeria Colonnella, Giovanna oltre lo schermo (Ladolfi, 2011). http://dadonota.wordpress.com

Diana Roman (Michał Jędryka) è nata nel 1984 a Rzeszòw in Polonia. Dal 1994 vive in Italia, dove studia arti visive. Nel 2012 decide di fare ritorno nella sua città natale in Polonia e lì all’età di ventotto anni inizia il percorso di cambio di sesso tuttora in atto. Da quel momento si avvicina al movimento di Les-Art, di cui fanno parte tutte le illustrazioni presentate in questo ebook […]. L’approccio verso l’arte cambia radicalmente, il suo stile e i soggetti mutano assieme al suo corpo narrando la storia di una donna rimasta nascosta per tre decenni dietro la maschera di un uomo mai realmente esistito. http://dianaroman.elance.com

 

 

 

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6 Commenti

  1. I racconti sono notevoli, l’autore è bravo e ha una sua lingua forte e chiara.
    Non chiara invece e’ l’ideologia di riferimento… molto ambigua tra pornografia estetizzante, cristologie varie e nostalgia sublime-decadente di un mondo perduto. Si arriva addirittura a riparlare di irreale realtà e di mondo interiore! La cosa stupisce considerati i precedenti letterari del Nota che erano tutti volti a una poesia di ispirazione civile e realistica.

  2. Caro Massimo,
    grazie per questo commento che interrompe il silenzio di indifferenza (o forse di disorientamento) che circonda questa uscita e va a toccare due punti fondamentali a cui rispondo con grande piacere.
    Alla prima questione che poni rispondo chiarendo che la mia non è mai stata una poesia di ispirazione civile o realistica. Dal primo numero de “La Gru” (maggio 2005) al “Calpestare l’oblio” del 2009/2010 ho animato una lotta, assieme ad altri amici poeti, volta ad infrangere ogni tabù “contenutistico” che il trentennio della “Parola innamorata” (1978) aveva imposto alla scrittura poetica in Italia come ideologia estetica dominante per cui era praticamente bandito, umiliato e offeso ogni inserto politico nell’opera poetica. A questa lotta ho dato i primi anni della mia militanza poetica.
    Ma essere contro un tabù è ben diverso dall’essere promotore di un canone e io, soprattutto oggi in cui il tabù può dirsi infranto (e sulle pagine di Repubblica si invita alla Nuova Realtà), non rispondo assolutamente alla definizione di “poeta di ispirazione civile e realistica”, tanto più che i miei primi versi nascono fecondati dalla polemica di Pasolini contro il realismo.
    In un mio articolo giovanile, dal titolo “L’Eredità” (su “La Gru n.2”, gennaio 2006), appuntavo queste parole: “Riniziare quindi dalla vita, oltre lo spettacolo di massa: parlare ed ascoltare l’esistente, la realtà (interiore e condivisa), negare ogni tabù politico o estetico: continuamente vivi, aperti, spalancati. Prendere a modello il fiore di Rilke, dai sonetti a Orfeo: spalancare i petali percettivi dal giorno alla sera, sotto il sole lieve della primavera come allo sgomento orrore delle notti. Non chiudersi a niente. Questa forma di disobbedienza naturale si estenda a tutti i campi delle nostre esperienze: sputare invettive politiche di fronte ai poeti laureati, o parlare di fiori, qualora fosse invece richiesta una poesia civile. E soprattutto unire i due momenti: forzare il posticcio dualismo accademico, tentare la totalità. Anteporre la vita agli standard funzionali della nuova polis e delle sue scuole ufficiali. Nell’opera poetica, una possibilità espressiva potrà essere la forma poematica aberrante, contenente quanta più esistenza possibile: da Orfeo a Marx, da una pratolina al cadavere di Carlo Giuliani, dal crocefisso alle sorelle Lecciso. Dal tono comico-grottesco al sublime, dal tragico allo scanzonato. Dalla riflessione filosofica alla visione; dall’analisi antropologia all’impegno passionale. Ma non chiudersi mai a nessuna scelta formale: dal poemetto scivolare al sonetto, se necessario, o al frammento, e viceversa. Leggere tutto, dire tutto. Essere sempre più che onesti: parlare la vita, francamente, forzare gli scrigni della vergogna e della convenienza editoriale.”. Questi appunti acerbi credo che siano adolescenziali ma fondativi della mia ispirazione e scrittura e invito a rileggere i miei libri, se se ne hanno – altrimenti mi si faccia richiesta in email e fornirò i pdf – per interpretare meglio un’operazione poetica, la trilogia del Non potere, che in una postilla ho definito “poema tecno-barocco e visionario, classico e aberrante, popolare nel senso che ne dà Nietzsche e impopolare nel senso di Umberto Saba e Baudelaire. Popolata e musicale.”.
    Per cui non vedo sostanziali cambi di linea o di sensibilità ma solo l’espansione dell’universo originario.

    Per quanto riguarda il secondo punto (sulla regressione estetizzante e sulla nostalgia) credo che vi sia un equivoco sottile ma insidioso per cui vado a riprendere (e riformulo) alcuni appunti che mi ero scambiato in email con Renata Morresi ai tempi della nostra prima conversazione a proposito di questi racconti.
    L’autore implicito, cioè il personaggio del primo capitolo, è ovviamente un impasto di realtà e fiction. La trama è semplice: un ragazzo degli anni Duemila, laureato in lettere e con la passione della scrittura (non si sa a che livelli; tanto che ama il fantasy), trova finalmente un lavoro stagionale sfiancante ed evade, dall’ambiente letterario e dalla socialità mondana a cui si è sempre sentito disadatto ma a cui si è obbligato negli anni dell’apprendistato. Evade anche dalla realtà perché gli orari di lavoro e le condizioni a cui si consegna (quattordici ore al sole delle campagne laziali) lo immettono in uno stato di narcosi e di automatismo (e questo è il pornografico: la metamorfosi del soggetto che si scioglie nel meccanismo) che coincide con uno smottamento dell’energia vitale verso l’interno. Tutto ciò che esiste di questo “autore implicito” sono dunque i suoi “sogni” (ad occhi aperti o chiusi; il “mondo interiore” di cui parli e che ti stupisce tanto) che poi trascrive su un taccuino durante le pause pranzo e i ritorni a casa. Questa evasione è dunque non solamente contaminata ma originata dalla realtà sociale. Per cui direi, con una provocazione che contiene però elementi seri di ragionamento, che non vi è maggiore “realtà civile” di quella qui descritta.
    Il sublime è il calco di una narrativa di genere, che è l’estetica dell’adolescenza dell’autore implicito, in cui mi sono inserito (anche con un certo studio: ho comprato e letto i libri di Martin, della Troisi etc.).
    Come è stato giustamente notato nell’abstract ci sono degli standard, da cui si parte. Sono gli standard del fantasy: la visione post-apocalittica di una metropoli, la chiesa abbandonata, il classico lago con nebbia, la bambina e il gigante, il mondo segreto dietro la cascata, l’alleanza fraterna degli uomini in fuga, la grotta dell’oracolo, le varie metamorfosi. Questi standard hanno un loro linguaggio altrettanto stereotipato in alcune espressioni per cui non parlerei proprio di romanticismo o di decadentismo ma di puro pop e di puro kitsch crepuscolare e tragicomico.
    Come in un evento jazz quel che conta è sempre e solo il momento improvvisativo, l’assolo inatteso che si insinua in qualche intercapedine imprevista del giro armonico e interrompe lo standard, che in sé non ha nulla di particolarmente interessante.
    Una definizione di tale metodo è esposta nel finale del quinto capitolo, quando dico: “Inventarsi un limite, come un campo di narrazione, potrà servire forse a evidenziare tutto ciò che da tale esilio esuli o evada. Solo nei momenti di debolezza o di grave disattenzione, come nel gioco o nel più crudele dei dolori, siamo in grado di definire compiutamente noi stessi. Così ogni maschera, finzione e trucco si alleano con la blasfemia della rivelazione.”.
    Per quanto riguarda la definizione di “irreale realtà” potrei parlarti di quantistica e di nuova fisica, o delle più aggiornate analisi cosmologiche che ipotizzano che l’universo “materiale” (vale a dire tutto ciò che chiamiamo realtà fisica; la dimensione che abitiamo e che siamo in grado di vedere) non superi il 5% della realtà. Il 25% è materia oscura e il 70% è energia oscura. Questa è scienza, non è romanticismo. Noi viviamo nel pulviscolo dell’universo esploso e con questa vertigine periferica, con questo “Grande freddo”, dobbiamo prendere confidenza. Anche “Nostalgia del mondo perduto” potrebbe essere una definizione scientifica relativa alla memoria dell’origine cosmica, che era una origine di simmetria assoluta. Non è colpa mia se le teorie scientifiche più aggiornate ridanno benzina a teorie estetiche e teologie che erano state rimosse nei due secoli precedenti.
    Ma il discorso si espanderebbe in maniera imprevedibile e rischierebbe di far sembrare difficile una questione invece molto limpida.
    Il tema fondamentale è quello dell’orfanità ma anche quello, altrettanto evidente, del rifiuto della generialità. Maschile e femminile non esistono più. Nel quinto racconto addirittura parlo prima in plurale maschile e poi in plurale femminile per un gruppo di tre ragazzi (due donne e un uomo).
    La biografia di Diana Roman, che ha illustrato le favole e definisce la sua arte transgender (come il suo corpo) “la storia di una donna rimasta nascosta per tre decenni dietro la maschera di un uomo mai realmente esistito”, è molto indicativo. Cosa è più reale e cosa più irreale tra una lettera menzognera scritta tra i singhiozzi e la maschera dell’esistenza pratica?
    Il No-gender del sottotitolo è una filosofia urbana nata in contesti trans per esprimere questo concetto di rifiuto della generialità, di onni-generialità.
    L’utilizzo che ne faccio è semanticamente doppio perché parlo anche di scrittura e quindi il rifiuto è anche della divisione tra narrativa professionistica e di genere, procedendo obliquamente.
    Un altro tema è teologico ed è lo smottamento a cui andremo (stiamo già andando, anche se ci vorranno forse dei secoli), dal Dio padre del giudizio alla Dea madre della creazione. Dall’occhio al sesso. Resta fondamentalmente un’avanguardia teologica sudamericana e precisamente brasiliana radicalmente osteggiata dall’istituzione cattolica per cui non parlerei di “cristologia” come nostalgia del passato ma di una implacabile sete di futuro a venire: di “avventura”.
    Io porrei l’attenzione sul fatto che tanto i miei racconti quanto le illustrazioni di Diana Roman sono da una parte “anti-cattolici”, nel senso delle istituzioni del dogma, d’altra parte restano annodati come l’edera alla percezione di una fine storia, che è anche la fine di una vetusta ecclesia (la Chiesa abbandonata) e al sogno di un nuovo cristianesimo materno e creaturale, baudelairiano.
    Gli orfani e la Dea si alleano contro l’occhio del padre metafisico. Questo è uno dei temi… senz’altro è uno dei temi più importanti per me.
    Questo è il motivo per cui respingo radicalmente ogni accusa di ambiguità ideologica e di reazione.
    Anzi, sinceramente mi pare di stare scrivendo dal futuro.
    Mi sono dilungato molto (troppo). Non rileggo per cui mi scuso per eventuali refusi o inciampi. Un caro saluto,
    Davide

  3. leggendo l’intestazione avevo sperato in una apertura verso il fantasy da questo spazio web, ma devo ammettere la delusione profonda: di fantasy non vi è traccia se non nel terzo racconto (ma anche lì a spizzichi e bocconi).
    Anche di no-gender vi è solo l’ultimo racconto, d’altronde, direi che l’intestazione è piuttosto fuorviante.

    effettivamente questi sono più pezzi di prosa poetica che racconti; le trame effimere, pressochè inesistenti, fungono da impalcature all’esercizio poetico descrittivo di luoghi ameni e pensieri intrisi di romantico panismo (che nell’ultimo racconto sfocia nella pansessualità) su la vita, l’universo e tutto quanto.

    affianco all’evidente impostazione romantica del rapporto io-mondo, vi sono diversi inserti surreali, nell’onirismo e nell’inspiegabilità di numerosi passaggi, più una certa forma di arcadismo mediato dal romanticismo che forse si considera “elemento standard” del fantasy, ma in cui il riferimento al fantasy è scorretto, a meno di non voler considerare fantasy anche poesie come Le Lac di Lamartine…

    quel che qui manca, del fantasy, è l’elemento fondamentale: la storia.
    l’uso delle funzioni proppiane della fiaba, il viaggio e la scoperta di luoghi magici e inusitati, il ruolo della magia come forza attiva nel mondo, la costruzione di un mondo alternativo a quello reale, con una sua geografia, una sua storia, una sua cosmologia peculiare, quanto meno accennata per sommi capi.

    nel fantasy, come più in generale nel fantastico, vi è una sola ideologia: la gioia di narrare storie inusuali e meravigliose, liberarsi dai legacci della realtà per immaginare qualche cosa di diverso: per questo cercare un’ideologia nel fantasy fa ridere.
    ma va detto che qui non si racconta delle storie, si cerca invece di narrare delle idee.

    mi pare che la non corrispondenza tra intestazione e testi di questo post denunci un forte fraintendimento nei confronti di ciò che è il fantasy (ed il fantastico).
    fraintendimento che infatti continua nel confondere il fantasy con una versione pop e kitsch di stilemi radicati nella tradizione fantastica del mito e dell’epos filtrati attraverso l’epoca romantica.

    io consiglierei all’autore di leggersi i racconti brevi di Michael Ende, che forse sono più vicini alla sua sensibilità, rispetto alla machiavellica macchina delle catastrofi inevitabili in forma di feuilleton costruita (peraltro molto bene) da Martin, del quale in questi racconti non vi è traccia alcuna.
    quanto alla Troisi, vabbè, sarebbe come mettersi a studiare il punk partendo dai My Chemical Romance, pietà, dai.

    propongo, in generale, una mozione d’ordine:
    lasciamo stare il fantasy, parliamo di fantastico (la chiesa abbandonata in scenario cittadino postatomico è standard horror + standard fantascientifico, per esempio, non standard fantasy).

    il fantasy va di moda, se ne parla ovunque, ma va di moda appunto in versioni kitsch per adolescenti, oppure sull’onda di eventi particolari (come una serie tv di successo); non fa giustizia al fantasy prendere quella parte per il tutto, nè fa giustizia al fantastico prendere il fantasy (quel fantasy, poi) per il tutto.

    siamo in un blog letterario: orsù, distinguiamo i generi. poi per superare le frontiere tra loro (i generi) ci sarà tempo. prima di superare una frontiera bisogna pur sapere dove essa stia.

  4. Detrito, concordo sul fatto che queste siano più storie di stati di percezione, fughe simboliste dai corpi indociliti, che racconti di storie. Il resto però mi sembra troppo prescrittivo: non vedo perché dover rispettare le frontiere tra i generi, qualsiasi essi siano. Si riffa su moduli ‘facili’, intuiti e ri-negoziati, perché no? Questa scrittura è troppo incendiaria e folle per stare a badare alla bibliografia.

    “Conobbi Roma nel momento in cui qualcosa in me iniziò a precipitare, a smottare verso l’interno, una slavina di materiale grezzo che era un altro me che se ne stava immobile a ricordare una favola. […] Tentare il ritorno è un’impresa incomprensibile.”

    Estetizza troppo? Direi di sì, ma io ci sento pulsare una scrittura ‘antica’, scomodamente inattuale, e una vena filosofico-famelica che meritano attenzione.

  5. Ringrazio il “Detrito di mondi abbozzati” perché ho trovato molto interessante il suo commento. È vero che non si tratta di genere fantasy ma di una mediazione pop filtrata anche da memorie d’adolescenza e dal fumettistico riusato in un contesto inevitabilmente lirico.
    Sono partito però da alcuni elementi reali del discorso specifico, anche se marginali, quelli che più mi interessavano e cioè da cui germinava qualcosa. Talvolta sfumature o fondali: ad esempio da Martin l’immagine di un bosco di alberi bianchi o l’odore di elementi che si decompongono. Giri armonici in cui ho inserito la voce, che è una voce di provenienza letteraria. Ed è vero che ho reminiscenze del gotico e del fantastico di Edgar Allan Poe e Iginio Ugo Tarchetti, ma anche di molto cinema e questa operazione nasce nel pop, nel fumetto, e non ha paradigmi tardo-romantici; semmai mi sento nel tragicomico. L’operazione in sé è tragicamente insensata e questo mi dispera e rallegra allo stesso tempo. Ma è tutto ciò che oggi sono e di cui voglio parlare: di uno che guarda il cielo e pensa alle galassie che si allontanano a una velocità vertiginosa mentre torna da un lavoro stagionale a sera in autobus. Ecco, esattamente questa immagine: il vetro dell’autobus, traballante, esterno notte di campagna brulla con stelle, sovrapposizione di autoritratto (io che guardo fuori) e sullo sfondo due lavoratori di colore seduti in silenzio, forse una ragazza verso il margine, graffi di tag incise e sporco incrostato, voce interiore in indomabile moto che ha voglia di raccontarsi una favola: questo è quello che intendo per fantasy no-gender.
    Comunque ho ordinato i racconti di Ende, grazie del consiglio!

    Volevo inoltre dirti che questo è un estratto di un lavoro di racconti più vasto che è continuato e continuerà. Non so come né dove, vedremo…
    Grazie ancora e a presto,
    Davide

    P.s.
    Grazie anche a Renata e a n.a.

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renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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