Michele Mari: un lunghissimo viaggio da fermi

455454-michele-maridi: Francesca Fiorletta

 

Al festival della letteratura di viaggio, che c’è stato da poco a Roma, a Villa Celimontana, dal 25 al 28 settembre, un ospite, chiamato a intervenire, ha dichiarato apertamente di sentirsi fuori posto, suscitando un’inaspettata ilarità generale: il suo nome è Michele Mari.
Michele Mari, ammette pacifico, non è per nulla un buon viaggiatore, quantomeno stando al senso letterale del termine. Mentre invece, letterariamente parlando, credo che possa essere considerato a buon diritto uno dei maggiori traghettatori di storie e di mondi e di suggestioni (e, certamente, di lingua) della nostra epoca.
I suoi viaggi meravigliosi, perché sempre portatori di meraviglia, si compiono tutti attraverso i sensi. La capacità, sempre precisa e affinata, di puntare lo sguardo, l’accuratezza, talvolta addirittura molesta – seppure, al limite, per se stesso – di prestare l’orecchio ai luoghi e alle persone che lo circondano; il gusto, spasmodico e vizioso, di cibarsi dei sapori più autentici, la ricerca, mai vana, degli odori più antichi: questo rende Michele Mari il grande scrittore che tutti oggi conosciamo.
Più di ogni altra cosa, però, da lettrice accanita dei suoi libri, confesso che il senso più spiccato attraverso cui godo delle pagine di Mari è, decisamente, il tatto; la materialità, forte, tenace, quasi ossessiva delle sue parole, la costruzione plasmabile delle sue frasi-oggetto, dei suoi periodi-universo, dei suoi personaggi-umanità.
L’architettura semplice e complessa insieme di ogni singola storia sembra quasi costruirsi da sé, per rivelarsi alla fine, nella sua granitica solidità, ciò che è e non poteva non essere, o meglio, ciò che non avrebbe potuto essere diversamente: un lunghissimo viaggio da fermi.
Mi vengono perciò alla mente due dei suoi libri più recenti: Fantasmagonia e Roderick Duddle, editi entrambi da Einaudi, rispettivamente nel 2012 e nel 2014.
Nella copertina di Fantasmagonia troviamo una casa, o meglio, il disegno preciso, il tratteggio puntuale, la rappresentazione immaginifica di quell’abitazione infestata, che è “chiusa com’è chiusa al mondo la mente del morituro”, e che delimita il confine misterioso dei racconti fantastici che la popolano e la animano.

Fantasmagonia
Nelle prime pagine di Roderick Duddle, invece, troviamo una mappa, articolata e piana, che segnerà la via da percorrere lungo l’intero romanzo, sia per il giovanissimo protagonista che per il lettore di ogni età.

Mari-mappa-Roderick-Duddle-grande

Ancora una volta: confini netti e precisi, incasellamento granitico e definitorio, spronano i cinque sensi a percorrere viaggi, questi due, diversissimi fra di loro, ma accomunati da un’epica capacità di inventare, da un viscerale scarto di evasione fantastica, così come, in ultima analisi, da un laconico desiderio di appartenenza, che è l’ovvio risvolto di fondo, l’equivalente fisico e narrativo dell’allontanamento dal quotidiano, della fuga dalla realtà.
C’è un passo, proprio in Roderick Duddle, che è la storia di questo ragazzino orfano, scompigliato precocemente dalla vita, e perciò precocemente alla ricerca di se stesso, che secondo me basta già da solo per spiegare perfettamente il processo narrativo che Mari mette in atto così bene in tutti i suoi libri.
Lo riporto:

L’Oca Rossa, quella casa, e in mezzo sua madre: troppo poco, per ricavarne un disegno, come avere solo tre ossicini di gabbiano a disposizione. Certo, volendo avrebbe potuto procurarsene degli altri, il medaglione ad esempio, e quegli uomini che lo avevano cercato, e questo signore vestito di viola, ma era sempre troppo poco. Pensò con affetto alla Grassa, ma lei non era direttamente implicata nel disegno. E quella foca bassa che aveva sentito all’abbeveratoio, subito prima di scappare, di chi era? Vagava così la mente di Roderick, come un’ape che delibi fior da fiore, lontanissimo dal sospetto che la chiave di tutto, l’ossicino che avrebbe tenuto insieme tutti gli altri ossicini dando loro un senso, era proprio lui, Roderick.

Se il viaggio è dunque un esercizio di conoscenza, umana, e storica, prima ancora che geografica, l’ilarità iniziale del pubblico è perfettamente giustificata: nessuno, in questo contesto, è meno fuori posto di Michele Mari, la cui penna sembra proprio che “delibi fior da fiore”, così come i suoi sempre vivaci spostamenti, compiuti attraverso le voci, il cibo, il sesso e la memoria, che si esplicano tutti in una grande scrittura che è ricerca di senso, appropriazione e restituzione del mondo e di se stesso, attitudine atavica alla vita.

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