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Un amore crudele (Piero Pieri)

di Francesca Tuscano

Nei romanzi di Piero Pieri il corpo, nelle varianti espressive della violenza e del sesso, ha sempre un ruolo centrale, anche se con funzioni stilistiche diverse. In La notte di Stalin (Stampa Alternativa 1999) e in Furio (Allori 2004), diventa oggetto di rappresentazione, grottesca e palesemente metaforica; in Vaporidis in carcere (Fernandel 2009) è elemento di denuncia esistenziale e politica; nei Nouveaux Anarchistes (Transeuropa 2010) è segno esplicitamente politico e sociale (con alcune sfumature esistenziali). Il corpo è luogo di incontro, di conflitto, di violenza, di dolcezza, di conoscenza, di mercificazione e spettacolarizzazione (nel senso debordiano del termine). Ed è, sempre, parte di quel sistema comunicativo che Pasolini aveva individuato nella “Realtà”. I corpi che Pieri racconta, dunque, parlano, dicendo cose che il linguaggio verbale non potrebbe mai dire.

Nel suo ultimo romanzo, Un amore crudele (Marsilio 2014), l’autore fa ancora un passo avanti, concentrandosi sulla funzione espressiva della lingua del corpo. Rende quella lingua poetica, cioè eversiva della banale comunicatività, straniante. Il diciannovenne René e la sua quarantenne professoressa d’inglese, Anna (i protagonisti) usano il corpo per dirsi il dolore di esistenze sentimentalmente inespresse, “ibernate” dalle violenze ricevute, che hanno reso l’uno un diverso da controllare e umiliare, e l’altra una donna ferita in modo irrimediabile, proiettata verso l’autodistruzione. Con il codice del corpo Anna trasmette a René la disperazione e l’umiliazione, ancora pulsanti, per la violenza sessuale subita dall’ex marito e reiterata durante il matrimonio attraverso pratiche sadiche. E con lo stesso codice René parla dell’anaffettività (non meno violenta) nella quale è cresciuto. Esprimere tanto dolore non si può attraverso una “normale” comunicatività del corpo. L’autore lo sa, e perciò amplia semanticamente il codice dei suoi personaggi, concentrandosi sul tratto stilistico attraverso il quale il corpo-segno esprime la sua massima potenzialità espressiva – il sesso. Il momento in cui si conosce la violenza del possedere e la grazia dell’essere posseduti (ancora Pasolini) è quello che permette che i corpi si confrontino nella nudità che annulla la norma sociale e libera le pulsioni più profonde. Così la comunicazione diventa poesia. Il dolore distruttivo di Anna, però, ha bisogno di livelli espressivi sempre più alti, che il sesso “normale” non soddisfa. Perciò, lentamente e inesorabilmente, riesce ad ottenere da René la condivisione di esperienze di volta in volta più estreme. Quando, infine, il giovane amante la sottopone alla stessa violenza che rifiutava dal marito, la donna apre, con ferite reali, le ferite interiori. E René vi penetra, (come nel possesso dell’intero corpo di Anna), giungendo a toccare il dolore della donna, che ora può mescolare al suo – fluido con fluido, sofferenza con sofferenza (male che fa male ma cura il male):

Abbiamo mescolato parole e fluidi, sadismi orgogliosi e masochismi non rimossi. […] Due corpi solidali in ogni dettaglio, complici in ogni aberrazione. […] Il male è una percezione fisica che invade la mente senza creare problemi; il male è un assassinio condiviso.1

Il sadomasochismo, per i due, è un poetico grido d’amore, la richiesta non normata di un risarcimento emotivo e sentimentale. René ne acquisisce consapevolezza proprio quando comprende il limite della parola di fronte al linguaggio del corpo:

In Anna parla il rumore di una carne remota. Il suo dolore non è dissimile dal mio. […] Di questo dolore possiamo parlare solo per immagini frammentarie, celebrazioni discorsive, oscure evocazioni. Siamo sottomessi e dipendenti, nonostante lo strumento del linguaggio[…] Non posso liberarla da ciò che non conosco. […] Solo quando infierisco sul suo corpo Anna si rilassa completamente, abbacinata da tanta crudeltà regalata.2

Il ragazzo crudele cresciuto nella periferia, che non conosce gentilezza e che non possiede mediazioni intellettuali, sa usare il linguaggio della violenza, necessario ad Anna quanto quello della dolcezza, perché il sadismo l’ha già conosciuto sulla sua pelle, nei rapporti famigliari e sociali («Lo schiaffo è il mio catechismo, la mia regola»), e ne conosce le regole comunicative. Ma, com’è noto, in un rapporto sadomasochistico è il masochista colui che detiene realmente il potere – il sadico non è che uno strumento. Anche nel momento in cui subisce il sadismo di René, la professoressa non fa uscire il suo studente dal ruolo di ragazzo e di “sottoposto” intellettuale, oggetto necessario per il proprio autolesionismo, la propria autodistruzione. Gradualmente René inizierà a capirlo, e l’amore finirà quando la violenza del corpo sul corpo perderà la sua poeticità, per diventare lingua standard. I corpi non saranno più sacri, perderanno il valore di segni espressivi, diventeranno cose, sulle quali esercitare rabbia e frustrazione. Anna e René non potranno più dirsi nulla quando ciò che era straordinariamente loro diventerà quotidianità distruttiva (a quel punto, quale differenza potrebbe esserci tra il sadismo di René e quello dell’ex marito di Anna?). Nella standardizzazione della poesia, René deve accettare il fatto che il suo dialogo con Anna si è trasformato in un monologo della donna, all’interno della cui contorta prospettiva autodistruttiva egli ha la funzione di un attore che interpreta il ruolo delle fobie della “professoressa”:

Certo che capisco. Sono il tuo rovescio. La reincarnazione del marito. Capisco tutto, cara Anna, e quel che mi chiedi di fare lo faccio. […]Ora che ti hanno tolto Nadia sono finiti i discorsi accademici e le simulazioni sociali. Per questo mi hai chiesto di bruciarti con una sigaretta. Il dolore allo stato puro. La tortura che rischiavi, se i fascisti ti avessero presa con un messaggio per il capo brigata. Sono io il tuo fascista. È questo, Anna, che non ti perdono.(126)

La crescita politica ed intellettuale del ragazzo si svincolerà dalla professoressa, ed in Anna s’interromperà la crescita emotiva e sentimentale. Entrambi tenteranno la strada della normalità, il ritorno all’ibernazione del proprio mondo sentimentale.

Sullo sfondo della società degli anni Sessanta, soffocante ma già pronta ai grandi cambiamenti del ’68, Anna e René vivono importanti esperienze politiche (come un viaggio nella Grecia dei colonnelli, per portare aiuti alla resistenza) ed esistenziali, combattendo come possono contro il mondo piccoloborghese che li circonda (sia quello “di periferia” del ragazzo che quello “intellettuale” della donna). Ma il desiderio (piccoloborghese) di normalità può essere più forte dell’amore, e proprio Anna lo dimostrerà. L’intellettuale impegnata politicamente, che ha condotto il suo studente verso la letteratura quanto verso il sesso estremo, lascerà René per un collega della sua stessa età e del suo livello intellettuale. Ma, molti anni dopo la fine del loro amore, sarà René, ancora una volta, a permetterle di dire con il corpo il male di vivere, consentendole di completare il montaggio della sua esistenza con un ultimo e definitivo atto di autolesionismo. René, ormai fisicamente libero dalla presenza dell’amante-madre, s’immagina un nuovo amore, con la figlia di Anna, un amore finalmente normale. Ma, ci avverte una voce fuori campo, è proprio quella la via della depravazione.

1 Un amore crudele, p. 64.

2 Ivi, p. 47.

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