La cerimonia del possibile

di Paolo Morelli

L’antico filosofo Sesto Empirico diceva che chiunque cerca qualcosa arriva a questo punto: o dice che l’ha trovata, e che non si può trovare, o che ne è ancora in cerca. Tutta la filosofia è divisa in questi tre generi, diceva.
Se questo è vero, La vita che brucia di Edoardo Camurri (Timeo Editore, 18 euro) appartiene certamente al genere numero tre. Con una particolarità: il Qualcosa si trova ad ogni istante durante il cammino, ed anche nell’attualità del rendere partecipi gli altri delle proprie scoperte, perfino con l’urgenza di avvertire di una possibilità che si è intravista.
Un libro di filosofia dunque, non però nel senso corrivo e ormai quasi unico di esibizione culturale, bensì “la filosofia, in questo libro, sarà un fenomeno atmosferico, un discorso che scaturisce e si sviluppa nella vita di un giorno, seguendo e sentendo il percorso del sorgere e del tramontare del Sole, dalla notte all’alba”.
Il libro si trova a fare un dittico con Introduzione alla realtà, uscito l’anno scorso per lo stesso editore e ne è in qualche modo il dispiegamento nel pensiero. Se nel dirlo fosse possibile dimostrarne l’umiltà, si tratta di un ricco libro sapienziale mosso, appunto, da un’urgenza, un’urgenza di dire accorata e a tratti commovente ma soprattutto nitida e rigorosa, che riguarda una possibilità che abbiamo e che si potrebbe perfino definire spassionata, nel senso che come possibilità c’è sempre stata, per l’essere umano, quella di diventare se stesso. L’uomo è l’unico essere vivente che ha la possibilità, o l’onere, di diventare se stesso, ai gatti o alle antilopi non passa nemmeno per l’anticamera. Se si tratti di destino, di un privilegio oppure di una condanna si è dibattuto a lungo nei millenni, anche se serve a poco chiederselo, perché il dato di fatto è che l’uomo può superare l’aporia del diventare quello che è già, e magari trarne dei vantaggi.
Qui è il racconto di una giornata che comincia dall’alba e odora forte di eterno ritorno. Trae spunto dal tempo ciclico per una rinascita, se non è parola brutta anzi “sciagurata”, o una meditazione se non è parola brutta anch’essa e soprattutto se serve a Qualcosa.
Non si può che partire dalla sofferenza che è la vera trama nel tessuto della nostra vita, è ciò che non puoi nascondere se vuoi dare valore al Qualcosa che fai o che sei. Come sappiamo se tentiamo di ignorarla diventerà una cosa mostruosa, una paura molto profonda radicata nel corpo e nella mente, farà ulteriori danni. “È il dolore che proviamo che ci fa essere chi siamo”, è forse questo il famoso stile di una vita, il modo in cui ci barcameniamo, ed è anche forse la ragione necessaria per ogni tentativo filosofico: bisogna trovare un modo o una maniera per convivere con il dolore. Forse l’antico detto popolare Siamo nati per soffrire è stato tràdito male, forse l’originale era Siamo nati per sopperire.
Nel libro infatti si ripercorre con la propria voglia un cammino già fatto da tanti altri, si rifà a modo proprio tutta la strada costeggiando e anzi corteggiando l’indicibile, ci accompagna fino alle soglie dell’indicibile, perché oltre ci si va solo con l’esperienza personale. Non si può spiegare, solo sperimentare.
Si tratta così di un’esperienza, “l’espressione di un’esperienza”, basterebbe questo al giorno d’oggi a tacciare il libro di sovversivo, avendo l’avventatezza di presentarsi come un richiamo, un appello, persino una preghiera, in un Mondo Nuovo che ci si è imposto senza quasi che ce ne accorgessimo e che ha fatto dell’esperienza diretta uno dei suoi nemici giurati.
Quindi il tentativo di comunicare un’urgenza, insieme alla possibilità di un mutamento di visione che è forse la cosa più lontana dal nostro orizzonte, da quello che crediamo ci sia utile e necessario.
Viviamo in un’epoca, molto più di altre, in cui ogni mutamento del rapporto con la realtà viene considerato pericoloso per l’ordine costituito, quindi vengono definiti realisti soltanto coloro che accettano l’esistente come dato di fatto immodificabile. Questo era già il terreno di lotta identificato nel primo libro del dittico, in cui la Realtà in questo senso veniva definita addirittura “uno stato di polizia”.
E viviamo anche in un’epoca in cui vige sempre più un equivoco micidiale: la pretesa e proditoria coincidenza tra Realtà e Verità, fonte primaria e motivazione principe a ben vedere degli assolutismi e totalitarismi crescenti nel mondo: vale a dire che ciò che è reale, o percepito o fatto percepire come tale è vero, falso tutto ciò che non è reale. E questo proprio mentre si celebra la pare definitiva perdita di privilegio del vero nei riguardi del falso.
Nonostante tutto restiamo convinti di avere saldo un controllo delle operazioni, diciamo così, anche quando risulti un bel po’ sgangherato con l’invasione nelle nostre teste dei device, e nonostante gli scienziati cognitivisti ci avvertano che non esiste alcun centro di diramazione permanente nel nostro cervello, di come quindi il nostro famoso Io sia in definitiva soltanto virtuale. È una finzione certo a cui è assolutamente necessario credere, ma altrettanto assolutamente rimane una finzione, anche a ristretto rigore di logica.
Ognuno di noi ha in testa una mappa della realtà che non solo crede vera, cioè perfettamente aderente a quello che c’è fuori, ma crede che coincida con quella degli altri. In realtà, e al contrario delle avventurose mappe di Borges, esse non coincidono in nessun caso.
E insomma qui si racconta un processo di liberazione mimetico del pensiero, si indice una cerimonia che sa solo una cosa: un mutamento di prospettiva è possibile, ed è allo stesso tempo radicale e naturale: “Siamo partiti dal sussulto dell’essere, dalla sofferenza come sensazione primaria, e siamo alla ricerca di una liberazione possibile – anche attraverso la comprensione e il ragionamento – dal dolore che caratterizza la vita”. Una cerimonia rituale fatta con le parole dettate dal cuore: un processo che si disidentifica subito dal tempo della logica lineare e si reidentifica con quello ciclico, magari così ci abitua meglio all’impermanenza di ogni cosa al mondo, noi compresi, e anche alla forza insita nella ripetizione.
E si fa luce la necessità di un addestramento, ne abbiamo assolutamente bisogno come di una strategia per uscire dall’inganno, ma il libro fa già parte dell’addestramento, in questo senso è una guida, un manuale per orientarsi.
C’è una frase che unisce i due libri del dittico: “Nessuno deve rimanere indietro”, che in Introduzione alla realtà viene definitita “una legge spirituale universale e necessaria come, nel mondo fisico, la forza di gravità”. È il modo della compassione da cui parte e per la cui ragione si dipana il racconto, ma non come un’ansia sentimentale, è più quel modo della compassione di stampo orientale che proviene dalla possibilità appunto, e dal piacere si potrebbe addirittura dire, di poter vedere le cose da più punti di vista e quindi anche da quello dell’altro. La compassione è l’aprire le mani del pensiero, della visione rigida che ci vuole arroccati, di quella illusione ottica della coscienza che ci fa credere separati dal resto. È la percezione reale che tutto quello che incontro diventa parte del mio corpo.
Quella frase però coincide ad esempio con il voto del bodhisattva buddista, il rinunciare a liberarsi fino a che non sono liberi tutti gli altri, e così diventa anche un trucco, un upaya si direbbe in sanscrito, l’espediente perché nell’addestramento l’io non si accorga del risultato raggiunto, serve affinché non possa farlo. Per giungere al risultato quindi bisogna che l’ego non raggiunga il risultato, bisogna che il soggetto non se ne accorga: ecco l’unico modo per aggirare l’egosistema.
Il libro, o la cerimonia, o la danza, è tutto innervato su immagini prensili, allucinogene (“l’allucinazione è una malattia sacra”), serpenti, montagne, il labirinto, fino al rito comune del falò finale. Immagini che producono altre immagini. Questa per esempio: “Come il cacciatore che spara in cielo agli uccelli e ritorna a casa soddisfatto col suo bottino di volatili, così la nostra vita non è altro che la predazione di tutti i pensieri che sono in volo nel cielo della nostra coscienza”, ossia il nostro ordinario modo di pensare consiste nel pensare di afferrare la cosa pensata, quindi una tautologia inconsapevole, inesausta, spiritata, la condanna a una mente delusa. È un’immagine che fa venire in mente la possibilità che abbiamo di abbandonare quella caccia per dedicarci al bird-watching: se lo facciamo a lungo, come una disciplina (una parola che già da molto tempo abbiamo lasciato alla destra, coi risultati orripilanti che solo potevano scaturirne), se lo facciamo a lungo ci possiamo accorgere di quanto noi siamo, anche, parte di quel pomeriggio nella vita del cielo e nella vita di ogni singolo uccello.
Incontriamo durante il cammino molta tradizione filosofica occidentale, ad esempio nei dialoghi che sono il mezzo più sicuro per non raggiungere conclusioni se non momentanee, e su su traverso la meraviglia dei frammenti eraclitei fino alle sorgenti orientali, fino al capitolo finale: la possibilità, la rivelazione avviene per mezzo di tre semplici righe tratte dal Ṛgveda (una immagine, anche qui, perché persino ove si tratti di percorsi di pensiero gli orientali preferiscono descrivere piuttosto che spiegare). Dunque: appaiono due uccelli che sono molto amici e stanno sul ramo di un pìppala, albero sacro dell’India, l’albero della chiaroveggenza: uno dei due mangia, l’altro semplicemente guarda. Uno è la verità di un Io che si identifica con se stesso e quindi agisce, l’altro sa bene che è una finzione. Siamo nella via mediana del buddismo, o nel non-due dei cinesi: vale a dire ci dice che possiamo essere, allo stesso momento e, è meglio ribadirlo, proprio nello stesso, la verità assoluta e quella relativa, nello stesso tempo io posso essere pienamente convinto di essere me e pienamente consapevole che è una finzione. Ed ecco la possibilità che subito avvertiamo come comoda, naturale, di come sia l’attività normale per la nostra mente, mentre quella precedente ci appare ora solo inutile e dolorosa.
Ne scaturisce un tipo di attenzione che, dando fiducia all’intuizione, diviene man mano una speciale qualità di percezione delle relazioni tra noi e le cose del mondo.
Ecco che un altro giorno inizia.

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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