SCRIVERE BENE, SCRIVERE MALE (Autismi mitografici # 5)

di Giacomo Sartori

scrittura-egizia

 dedicato a Andrea C.

 (ma anche a Pippo D.B. e a Francesco  D.B., con un grande augurio)

 Naturalmente ben scrivere non vuol dire scrivere bene, e anzi equivale piuttosto (può equivalere, nei fatti finisce per equivalere, molti esempi dimostrano che nei fatti equivale) a scrivere male, o anche molto male. Parlo beninteso dell’italiano, lingua che lascia libertà infinitamente più grandi di tante altre, meno normalizzata e meno normativa, meno letterariamente irrigimentata, ma anche ben più corrotta da un autoctono conformismo, e provo a spiegarmi utilizzando la mia esperienza personale. Quando qualche anno fa si trattava di pubblicare il mio romanzo su Galeazzo Ciano, Cielo nero, l’editore (Gaffi) pensò bene di proporre a uno scrittore molto conosciuto di partorire l’introduzione. Lo scrittore molto conosciuto (non lo nomino solo perché il mio intento, mi si creda, non è affatto quello di polemizzare con lui, e anzi proprio per questo per anni non ho parlato della cosa) lesse il romanzo, e rimase orripilato (le mie notizie sono indirette, tramite la casa editrice, ma non credo di tradire la sostanza dei fatti) dal tono dello stesso. Per lui le frasi del testo, spesso non sedimentate, passionali, a volte crude, a volte violente, erano incontrollati apprezzamenti dell’autore. Mie incaute considerazioni sul personaggio di Ciano, o forse meglio sul personaggio storico, il vero Ciano.

Precipitai letteralmente dalle nuvole. Com’era possibile che un lettore avvertito come quello, un apprezzato intellettuale, non vedesse che nelle linee del mio testo allignava lo sguardo della coprotagonista, la giovane spia che i nazisti avevano affiancato a Ciano in attesa che venisse condannato a morte e giustiziato? Com’era possibile che una persona colta, fine e attivo artefice culturale, interpretasse la mia terza persona, appunto contaminata e per così dire guidata dall’intimo di quel secondo personaggio (e quindi vicina per certi versi a una prima persona), come la voce di un narratore onnisciente? Come poteva supporre anche un solo secondo quel letterato stimato che io mi prendessi la libertà di mettere lì estemporanei e non sedimentati commenti sul personaggio principale, Ciano, o addirittura su Ciano stesso? Come poteva arguire che mi prendessi la libertà, che certo ai suoi occhi diventava leggerezza e irresponsabilità, di sproloquiare su Galeazzo Ciano (fittizio o reale che fosse)? Come poteva non vedere che in quelle parole c’era solo la giovane nazista che era stata affiancata all’ex ministro degli Esteri, con tutte le sue ansie e contraddizioni? Non vedeva che pur utilizzando i suoi occhi e le sue orecchie, e le sue trippe, e la sua vagina, mi tenevo a distanza anche dalla ragazza? E che proprio in quella diffrazione, in quei gioco di rimandi non simmetrici e non sovrapponibili, stava l’interesse del testo? Com’era possibile che si fosse verificato quell’enorme equivoco?

A quel punto ripresi il mio romanzo in mano, provai a rileggere qualche frase, come si intinge il dito nella padella per testare una pietanza. Certo la cosa era teoricamente possibile, mi accorgevo. Ma era un uso talmente inappropriato del testo, a tal punto in contraddizione con la sensibilità e la complessità che trasudava da ogni sillaba, talmente antitetico con la mia concezione della scrittura (anch’essa ben evidente in ogni parola), e con tutti i miei i testi, che a dire la verità non l’avevo nemmeno contemplato. Per me era inconcepibile che dopo Céline, Conrad, Virginia Woolf, Proust, Beckett, Robert Walser, Marguerite Duras, Thomas Bernhard, De Lillo e tantissimi altri un lettore avvertito potesse prendere quella cantonata, e non sapesse riconoscere in una terza persona di facciata un trucco per mettere il naso in una vicenda torbida e ambigua, e incoerente, per raccontare quel grumo maleodorante di storia italiana. E non me ne ero premunito semplicemente perché non l’avevo nemmeno contemplato. Ma era successo.

Che poi quello scrittore noto non era stato scelto dall’editore a caso, ma perché lo stesso anno aveva pubblicato un romanzo sul nonno, figura di primissimo piano del fascismo. Un romanzo di cui si era parlato molto, e che era entrato nella cinquina del premione letterario nazionale. E che non mi era piaciuto per niente. Lo avevo trovato, a parte qualche sprazzo più personale dove ribolliva la melma di famiglia, slavato, pavido, omertoso, assolutamente incapace di ritrovare e raffigurare la complessa grandezza – nel bene e nel male – del personaggio, il suo tragico ruolo, il suo drammatico destino, l’incredibile violenza della sua epoca. Mi era sembrato che l’autore non sapesse staccarsi dalla sensibilità e dai luoghi comuni della nostra epoca ben leggerina, dalla lingua intrisa di buoni sentimenti e poco consapevole di sé (ma su questo tornerò) di questa, e non avesse quindi gli strumenti per abbordare quell’animalaccio ben più grande (e temibile) di lui. Come qualcuno che cercasse di acchiappare un rabbioso alligatore (che per ironia della sorte aveva avuto un ruolo importante nella fine di Ciano!) con un retino per le farfalle. Non me ne voglia quello scrittore (non sarebbe il primo!), non si vendichi (non sarebbe il primo!), se mai incappasse in queste mie parole, le esprimo senza astio alcuno, e anzi con simpatia, e anche rispetto, e soprattutto con l’unico intento di spiegare quello che mi è successo (del resto lui ha dalla sua una buona fetta dell’apparato delle lettere, non ha da preoccuparsi di quello che farnetico io). Che poi a ben vedere è una semplice questione di poetica diversa, come si diceva una volta.

Ci fu poi un secondo tentativo, questa volta con un giovane critico molto brillante e militante, e bendisposto nei miei confronti, che andò male: pure lui espresse serie riserve. Il tasso di letterarietà era decisamente troppo basso, ben al di là dell’ammissibile: troppa riduzione all’osso drammaturgico, troppa secchezza. E che dire delle inopportune escrezioni espressionistiche? Un romanzo, mi sembrava di capire in controluce, deve essere un romanzo, mica un ramo secco pieno di nodi e brutti cancri. E poi i miei personaggi erano macchiette, marionette (non dispiegati, e in un certo senso urbani, abitanti di romanzo!). L’unico che si tirava fuori era invece inverosimile: perché quel suo cambiamento dall’odio feroce al cieco amore? Può succedere una cosa del genere, in un romanzo serio? Le intenzioni erano buone, lo capiva, ma il risultato era davvero catastrofico.

Il povero testo uscì allora senza introduzione, e nessun critico importante, a parte una voce dissonante, lo recensì. Come nessuno dei tanti storici che contattai si degnò di un riscontro purché telegrafico, pure qui con un’unica calorosa e bella eccezione (non a caso il solo non accademico). Certo non poteva esserci nulla di interessante, nel testo di uno scrittorino, un agronomo, che si permetteva di mettere il naso in quelle cose di cui non sapeva nulla, e che erano dominio loro. In quel modo, così lontano dalla loro idea (già a priori dispregiativa) di romanzo storico, poi (“io non leggo romanzi storici, e non li apprezzo”, mi scrisse uno molto in voga, e anche esperto di letteratura). Ai loro occhi non ero nemmeno riuscito a fare l’ennesimo mattonoso e inutile e stupido romanzo storico. Un fallimento al quadrato.

Devo confessare, e qui volevo venire, che sono ora molto riconoscente all’insieme di queste persone, perché proprio riflettendo sulle loro inappellabili – e per lo più silenti – sentenze, mi sono convinto ancora di più del fatto mio. E appunto della centralità della lingua. Quella del mio romanzo era certo legnosa, certo spigolosa, a tratti anche respingente, brutta. Era però la sola suscettibile, evitando psicologismi e addomesticamenti normalizzanti, tenendomi bene alla larga da un tono romanzesco, di permettermi di venire a capo di quella cloaca, esprimendo quello che volevo dire: andava bene proprio così.

Altri hanno opinioni su quali binari la narrativa dovrebbe avanzare, deprecano questo e auspicano quello. Più realtà, meno realtà, più dinamiche sociali progressiste, più fantasia. Intervengono in seriosi convegni, scrivono libri che vengono poi decriptati sui giornali. Personalmente non ho idee di quali debbano essere i suoi soggetti e le sue forme, e poco mi importa il genere, la carica trasgressiva o liricheggiante, impegnata o sbarazzina, o irresponsabilmente demente, l’eventuale piglio sperimentale, il legame più o meno lasso con la tradizione letteraria, e non ho molte pregiudiziali sugli universi, le sensibilità e affinità, l’intelligenza e profondità, i gravami e i debiti letterari. Come lettore mi piace essere stupito, mi interessa quello che non so già, e che quindi non posso prefigurarmi. Quello che però non può mancare, di questo sono certo, è che il testo sia autoconsapevole. Vale a dire che la lingua sappia quello che fa, abbia in mano tutto quello che succede, fino al minimo caracollare o anche solo esitare di elettrone, conduca con piglio sicuro il gioco dove vuole lei, evitando e prevenendo qualsiasi incontrollata incursione, qualsiasi affacciarsi di facce già conosciute, di pedanti o anche solo pedissequi non invitati, dei soliti fantasmi di casa (uno degli scogli maggiori è quello). Quello che in politica chiamiamo efferato giacobinismo, maoismo. Anche la storia più idiota e il personaggio più scontato, più abbozzato e improbabile (perfino le mie macchiette?), possono diventare nettare succulento, e per certi versi quasi divino, quando questa dittatura, che può essere in realtà molto dolce, o struggente, si realizza.

La lingua che utilizziamo per comprare i pomodori e conversare, come sappiamo recente e per molti aspetti artificiosa, si porta dietro carriolate di scontato non detto, tutto un insopportabile arsenale di interpretazione del mondo e dei rapporti umani, di prescrizioni su cosa sia bene o male fare e di cosa si debba evitare, di scriteriati patti di solidarietà. Come ci ha insegnato Lacan parliamo per comunicare, ma anche e forse soprattutto per riaffermare i nostri legami, per rassicurarcene. Pochi sono gli scrittori che riescono a far dire a questo strumento tanto corrotto con il non brillante e provinciale presente, tanto preso da loschi e non espliciti fini socializzanti, tanto ammanicato con la volgarità e il potere, solo quello che vogliono loro, evacuando tutte le implicite piattezze e le subliminali scontatezze, tutte le subdole mire di supremazia che questa baldracca si porta appresso. E questo avviene a volte a prezzo di scrivere male, o molto male. A ben vedere diversi nostri grandi scrittori scrivono male, o molto male. A cominciare da Svevo, che per me è stato un modello fin dall’adolescenza, e su fino a Gadda (la sua lingua mi manda in brodo do giuggiole, ma non riesco a considerarla bella), su su fino a Moresco, al norvegico marchigiano. Scrittori che riescono a spremere fuori dal linguaggio ogni goccia di pedissequità e secondi fini, riducendolo a rozza e suprema essenza (come certe donne non armoniose, non belle, riescono a essere irresistibili). Per dirci quello che hanno da dirci. Ma certo è un discorso che andrebbe affrontato con più calma. Ci proverò.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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