Giovanna Marmo, Oltre i titoli di coda, Aragno 2015

di Paola Nasti

Cosa si cela/rivela oltre le palpebre? oltre la cortina chiusa/aperta dell’occhio? questa domanda potrebbe essere una delle chiavi d’accesso per questa raccolta di poesia. L’occhio, del resto, era già parte costitutiva, fin dal titolo, di un precedente libro di Giovanna Marmo. La recente silloge, edita da Aragno, porta il nome di Oltre i titoli di coda. E’ una raccolta costituita da tre sezioni molto differenti, ad un primo sguardo; ma molto coese; quasi una narrazione. Paradossalmente, proprio dove più forte è la spinta che dissolve il tessuto narrativo e lo frammenta in lacerti di immagine – spesso, in questo caso, sanguinolenti – è più forte l’avvertimento di un respiro che tiene insieme le parti, quasi come un organismo. Forse non vivente.
Al di là delle palpebre è la prima sezione. Parla di due cose: forze elementari e spettri. Cosa connette un terrificante spettro con la nuvola, il sole, il cielo, l’oceano? la visione, la visione soprattutto dei bambini e dei selvaggi. Un modo di essere al mondo popolato dalle angosce più profonde ed ancestrali. Dove l’occhio è perfetto, ma la mente disarticola la visione, la infetta di schemi sbagliati (non ti do colpa, occhio,/ di questo difetto della mente). Lo sguardo di primitivi e bambini è uno sguardo in-fans, che non parla, che non può dire; ed è per questo sopraffatto dal terrore. Lo stesso terrore dell’animale. Le prime poesie della raccolta quasi disegnano un paesaggio preistorico, in cui passeggia l’animale/bambino/poeta, con gli occhi sbarrati. Cosa terrorizza il protagonista preistorico/in-fantile? sono le forze, gli elementi naturali primordiali: sole, nuvola, stella… con la loro misteriosa capacità di deviare dal loro rassicurante corso, dall’orbita prestabilita; di rendere vana ogni intenzione ed ogni certezza (Allora le stelle scivolano / verso l’alto. In direzione diversa // da quella dove/ davvero vado). Ma forze elementari sono anche le parti del corpo. I pezzi, del corpo, bisognerebbe dire. L’intero dell’organismo si frammenta in elementi che hanno perso il respiro del tutto, che agonizzano, singolarmente presi: occhio; mano destra; mano sinistra; bocca. La danza macabra delle parti senza più il tutto, la danza orfana di ogni armonia, spettrale, anatomica, costituisce essa stessa una delle forze elementali di cui il protagonista è al cospetto, terrificato. Il corpo, in alcune opere della più recente produzione italiana, o è una forza annichilita dalla schizofrenia che lo tagliuzza nelle sue parti – come in questi versi della Marmo; o è l’essere tutto-pensiero, macigno che non lascia filtrare spiraglio di luce, senza parti, senza respiro tra membro e membro, come nella raccolta, che di poco anticipa questa della Marmo, di un altro bravo poeta contemporaneo, Biagio Cepollaro. In entrambi i casi – tutto intero, plumbeo; o spezzato in frammenti – il corpo “resta”, immobile come le pietre sospese nei cieli densi di Magritte. Queste poesie di Giovanna Marmo sono terrificanti: Guardo verso l’alto. Un mostro/ trascina nuvole, / tutto il giorno. Sono poesie del terror-panico, onniavvolgente. Il terrore è la medusa – come nella poesia che chiude la raccolta – che paralizza e rende ciechi. Ed ecco il tema dell’occhio. La poesia della Marmo è una poesia della cecità, della visione che scappa, sfugge nella distorsione e nella rifrazione: Remo. nell’oceano ciò che giace immerso/appare sempre spezzato. Oppure – ma è la stessa cosa – di una visione che si nasconde, terrificata, sotto la cortina delle palpebre. Il mondo comincia oltre la cortina dello sguardo, che permane bloccato, ben chiuso nel corpo. Il mondo è vicinissimo eppure irraggiungibile: Al di là delle palpebre/ Vediamo. Ma ogni angolo/sfugge ai sensi.
Scomparendo dallo schermo, la sezione intermedia, riprende questo tema dello sguardo bloccato dal terrore, dello sguardo intransitivo; e lo porta ad una intensità parossistica. Lo fa utilizzando una metafora potente, quella cinematografica. Meglio sarebbe dire: filmica, nel senso anche letterale – riguardante il film, la pellicola; il supporto trasparente, e quasi immateriale, su cui l’immagine lascia il segno. O almeno dovrebbe. Perché anche qui il verso costantemente rimanda ad una impotenza, ad una incapacità di lasciare/serbare traccia, che caratterizza ogni vissuto, individuale o collettivo. La pellicola e le lamine staccate sono le massime consistenze possibili per la figura che cerca appiglio – nella memoria, nella visione. E pellicole e lamine sono taglienti. Come taglienti sono le effigi che tentano di passare oltre e raggiungere l’occhio che vorrebbe guardarle. Lo scenario della memoria muove, tra le quinte del ricordo originario e di quello ultimo, figure sospese ad una corda, funeree come impiccati (sullo schermo si proiettano solo memorie/ la prima e l’ultima immagine coincidono// una lamina impiccata su vuoto gira su di sé…) . La memoria è allora caratterizzata dalla perdita – dal fallimento – della sua tendenza al custodire. Il palcoscenico su cui volteggiano i fotogrammi del ricordo, le pellicole sospese, è pieno di botole e di tranelli. L’assito teatrale riceve lo sprofondo delle parole/corpo. E questa rappresentazione, caratterizzata dall’impossibilità di trattenere, dal precipitare, costituisce, appunto, La curva dell’oblio. Il film che si proietta è un film rotto; la pellicola di celluloide trasparente continua a sbattere, sciolta da ogni aggancio, ad ogni giro del proiettore. Viene da pensare alla pellicola usata in alcune opere dal grande maestro Carlo Alfano: in alcune tele – ma anche in pergamene acquarellate – gli inserti di pellicola costituiscono una soglia entro cui si avventano/escono figure umane, come a costituire un altrove momentaneo, sospeso, determinato solo dal passaggio – e quindi resistente, l’immagine, ad ogni suggestione metafisica, ad ogni tentazione ontologizzante di definire un altrove/sostanza. Il tema, in Alfano come in Giovanna Marmo, è quello della scomparsa/epifania, del transito in zone diverse dello spazio/tempo, nell’inusitato che si apre ad ogni passo. E l’ombra trans-corre i limiti, i confini, tra due territori egualmente ignoti e inesplorabili. Un entrare/uscire dal nero e del nero – la trasparenza della celluloide di cui la pellicola è costituita mima l’inconsistenza della vita che vi è impressa in singoli fotogrammi. Scompare dallo schermo l’esistenza incorporata sulla soglia, che distingue – senza distinguere – l’essere vivi dall’essere morti. Si accede con un segno di benvenuto a questa proiezione di un corpo denudato, composto unicamente di luce. Il corpo dell’immagine, che si incide nella pellicola e lì sa consistere molto meglio del corpo che si mostra stampato sul supporto di carne-muscoli-ossa. Benvenuti/arrivederci (Scomparendo dallo schermo): il campanello del giorno e quello della notte, le due parentesi entro il cui arco si svolge la giornata della protagonista di Giorni felici.
Dicevamo, all’inizio, della paradossale, complessiva, narratività di questo testo poetico, attraverso lo snodo delle sue tre sezioni. Nella prima, dunque, la nascita terrificante nel mondo elementale; e il conseguente, subitaneo ritrarsi oltre la cortina della palpebra. Nella seconda un proiettarsi fuori, ma vivendo una vita puramente immaginale, come in una pellicola, come in un film. Il cinema, dicevamo, come metafora. In particolare: il cinema muto – vero paradigma dell’immagine insonora, della parola senza voce. Il sentimento, ma oscuro, di una vita che scorre senza appartenerci e senza che noi possiamo appartenerle. Un film che scorre da un passato immemorabile – ogni fotogramma con una bruciatura al centro che rende indecifrabile la successione, lo scorrimento del senso, del ricordo di ere primordiali – di quando la voce era sostituita da un fascio luminoso che si alzava dal basso, come dalla buca del suggeritore, per bisbigliare senza suono e senza accorgimenti di significato; di quando la parola, sovrascritta, era estranea all’immagine, certo più estranea della musica e della luce. Il film muto metafora di un’afonia molto più radicale (Senza corde vocali). Il montaggio degli istanti di una vita che avviene fuori scena – Fuori, nel mondo, il montaggio…, e senza corde vocali. Ma cosa ci sarà “fuori campo” (…ciò che conta/ è già avvenuto fuori campo), nel luogo esterno del montaggio? il mondo oltre la superficie blindata delle palpebre, come sarà? si costituisce, in questi versi, un altrove metafisico che sembra uscito da un film, appunto – la mente corre alla “zona” di Stalker, con la sua muta e impenetrabile opacità, quintessenza di ogni rappresentazione aniconica. E poi ci sono gli incontri. L’incontro può avvenire solo in un punto virtuale, posto in un orizzonte sconfinato (Prigionieri in due riprese distinte…. erano le comparse di un film… girato in due piani sequenza paralleli) – è il punto in cui si incontrano i piani paralleli, il punto sfocato, la “zona” che si apre nel non-luogo-e nel non-tempo del film finito. Solo oltre la fine, oltre i titoli di coda, c’è contatto. Forse.
Nelle ultime poesie della sezione lo scenario diventa, se possibile, più cupo. I versi sono agglomerati di orrore puro: fiale tappate con il cotone; qualcuno che viene assassinato; lo sparo; la macchia del sangue; il corpo che viene ritrovato; gli elicotteri che sinistramente ronzano sulla scena. Si pensa all’orrore maestoso dell’impresa di morte, alla cattura di Bin Laden, per esempio. La vittima/killer che si copre di peli (sono ricoperta di peli bagnati e alghe/ umide, odoro di animale imbalsamato) – si pensa a certe opere di Nitsch, alle sue garze sporche di sangue. Chi è il killer? chi la vittima? il teatro interiore, il palcoscenico dell’assassinio quotidiano, come nel funereo teatro della Bachmann di Malina. I testi finali della seconda parte assumono toni landolfiani – le pagine di Cancroregina sembrano evocate in una improvvisa fantasmagoria spaziale, apocalittica. Il finale, l’oltre i titoli di coda, assume la caratteristica di un occhio rapito nella contemplazione di un unico fotogramma, senza più attese vane di sviluppi, di storie. Finalmente non succede più nulla – oltre la fine, oltre i titoli di coda. Cosa è cambiato? c’è stato forse il varcare di una soglia, di un confine tra il prima e il poi, tra la memoria afasica dell’origine, immemore di significati; e questo nuovo orizzonte, in cui, da qualche parte, in uno spazio sconfinato e nero, un cuore batte? è l’approdo, questa contemplazione del buio spaziale, in cui il vuoto amplifica il silenzio che era prima del film senza voce? è l’approdo ad un luogo ulteriore; o è solo un’altra trasformazione dell’occhio che non vede? dello sguardo retroverso dietro la palpebra serrata? la domanda è atroce: è un ricordo o cicatrice visiva (Una cicatrice visiva). Gli invidiosi del Purgatorio dantesco: con le palpebre cucite da filo di ferro. Preclusa ogni possibilità di sguardo, di distinzione.
E in finale, quasi inatteso, l’appello, che recupera la voce del grido infantile, quello delle origini: Vorrei che mi guardaste (Lampada fatta di aria). La disperazione del bambino che chiede, da un nuovo luogo, questa volta la casa desolata dell’infanzia (sezione terza, Case riflesse ) – che con la mano afferra il volto della madre per rivolgerlo verso di sé. Vorrei che mi guardaste. Nei testi dell’ultima sezione la stessa ospitalità, la casa, si fa nemica (i titoli suonano ora: casa senza vita; casa in prestito; casa ombra….). La casa non è fatta per accogliere, ma per svuotarsi. E’ immersa nell’acqua, gelida e limacciosa, come in un incubo, è prigioniera del ghiaccio e le transizioni nelle sue stanze provocano la morte. Il movimento nella casa è anzi il procedere di un morto su un tapis-roulant: il movimento è solo fittizio, una illusione di spostamento, morte che però non provoca caduta, come giustamente, beneficamente accade negli uccelli colpiti in volo. Lo scenario del viaggio astrale, che chiudeva la seconda parte, si trasforma, nella fine della terza, in un nuovo habitat dell’orrore, in uno sprofondo marino, nell’oblò che esclude chi guarda dal “mondo” – ciò che adesso si configura oltre e fuori la muraglia delle palpebre serrate è un altro tipo di buio/silenzio. Il “mondo” adesso si situa in alto, a pelo d’acqua, e infinitamente distante. Il buio/silenzio acquatico comporta una diversa maniera di sparizione – un nuovo mood di esistenza, una nuova soglia tra l’essere e il niente (La cabina sommersa ). Il grido infantile diventa, nelle ultime poesie, l’invocazione di una spettrale Regina delle Nevi (Bisogno di sopravvivere: devo sopravvivere / a questo eccesso di vicinanza, / al calore del mondo). L’ultimo testo, Una medusa, che chiude l’intera raccolta, rantola: baciatemi presto/ sto lottando contro il crepuscolo. / Posso resistere fino a quando la luce nella casa/ di fronte si accende. Non c’è tempo,/ baciatemi. L’infanzia si ripropone, nelle ultime scene, ritrovando quasi l’eco di una favola. E l’angoscia del bambino, della principessa agghiacciata, non perde neanche per un momento la sua funerea forza di trasfigurazione: “Voglio la notte senza suono, pressione, /ossigeno. Nello spazio privo di luce/ ogni cosa si muove senza incontrarsi. / Non sono io, è l’universo/ intero a essere abbandonato.// All’alba i serpenti escono dalla foresta/ per scaldarsi con il primo sole” (Emisfero muto).

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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