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Dieci motivi per cui vale la pena leggere “Le cento vite di Nemesio”

nemesio-cop(Marco Rossari ha pubblicato un nuovo romanzo. A Sergio Garufi è piaciuto, qui sotto ci spiega perché. Io lo farò questa sera assieme a Maria Rosa Mancuso, alle 19,00 alla Libreria Verso, in corso di Porta Ticinese 40. Come si dice in questi casi: sarà presente l’autore)

di Sergio Garufi

Perché è un libro coraggioso, e lo si capisce dall’incipit lettoricida. “Sono nato da uno sperma vecchio”, come dice il protagonista, è tutto meno che l’adescamento canonico prescritto da molti manuali di scrittura creativa. L’attacco suona talmente antipatico e respingente che somiglia più al buttafuori di un locale che a una prostituta ammiccante. Però funziona lo stesso, fa sì che t’intestardisci a volerci entrare.

Poi è un romanzo con diversi livelli di lettura, e non è necessario riconoscere le tante parafrasi e allusioni colte disseminate nel testo per gustarlo appieno. L’incipit, per esempio, è una frase che trae la sua necessità dal fatto che la pronuncia un uomo generato da un padre settantenne, e tuttavia non si esaurisce lì, nel senso attribuitogli dall’intreccio. È anche l’angoscia dell’influenza di cui parlava Harold Bloom, quella che colpisce ogni artista di fronte al peso della tradizione, o quella che schiaccia le ambizioni del figlio di un pittore famoso e ingombrante come Nemesio, relegandolo a vivere in un monolocale e a fare il custode di un museo, quasi compiacendosi di essere ignorato dal mondo.

Poi è molto divertente. Si ride perfino dopo, a libro chiuso, quando ripensi a certe scene come quella corale della seduta spiritica, in cui Rossari dirige le voci e le interazioni di parecchi personaggi che ruotano attorno a una medium napoletana in un caleidoscopico salotto dei primi del Novecento.

Poi per come usa gli ossimori e i paradossi. Spesso la profondità e il chiaroscuro di un personaggio o la contraddittorietà di una situazione vengono fatti emergere attraverso una presentazione che illustra equamente pregi e difetti, vantaggi e svantaggi, quasi fosse una bilancia, oppure col ribaltamento meccanico di un attributo corrente (tipo “il silenzio assordante”), mentre qui si scava dall’interno, le contraddizioni sono costitutive, e anche un luogo comune può rivelare un senso inaspettato a seconda di chi ne è il destinatario. “La vita continua: continua a restare ferma”, è il commento alla routine del giovane Nemesio. E altrove, dopo aver preso un cazzotto in faccia da una camicia nera, il padre protesta: “Questa è un’aggressione di stampo fascista!”, e la camicia nera risponde: “Verissimo!”. In sintesi la lezione di Manganelli, che per elogiare un libro lo definiva “deliziosamente irritante”, e che considerava la depressione per un letterato “una condizione catastrofica e illuminante”.

Poi è un romanzo molto originale. Sulla quarta di copertina si spendono i nomi di Stefano Benni, Kurt Vonnegut, Jaroslav Hašek e i Monty Python, ma io ci vedo un film: Big fish di Tim Burton. Il rapporto conflittuale padre-figlio (seppur a ruoli invertiti), la verità del mito (e il mito è ciò che resta nella traduzione, e Rossari nasce come traduttore), la necessità della fantasia e del sogno (“l’immaginazione è l’esperienza dello scrittore”), sono tutti temi che appartengono a entrambe le opere.

Poi perché è un romanzo d’amore capace di rendere romantica una lista della spesa.

Poi perché quando lei si ammala ed è a letto incosciente Nemesio va in confusione, e facendo la spola fra l’ospedale e l’università finisce per trascorrere “lunghi pomeriggi a spiegare il Vallo di Adriano alla sagoma immobile di Lotte e indimenticabili ore a lezione mormorando ex cathedra: «Amore mio fatti forza: non tutto è perduto», nel silenzio imbarazzato degli studenti”.

Poi per le similitudini poetiche che inventa, come quella del finale, quando nella notte romana il giovane Nemesio apre la finestra e lascia che si libri sui tetti una cosa a cui teneva molto, “con l’attenzione che una ragazza madre dedica al figlio quando lo abbandona sui gradini di una chiesa”.

Poi per l’escatologia rovesciata del piccolo Nemesio, nella quale si sta come le mummie di Ruysch, intenti sempre a propiziarsi il passato, non il futuro, perché il male è l’impossibilità di recuperare qualcosa che è già accaduto da qualche parte nel tempo: un momento decisivo nell’economia della propria esistenza, il punto in cui tutto è deragliato, forse la scelta di rinunciare a vivere.

Poi perché a differenza di Reger, il protagonista di Antichi maestri di Thomas Bernhard, che sosta quotidianamente di fronte a un ritratto del Tintoretto per cercarne i difetti, Nemesio ogni giorno sorveglia e investiga tre quadri dell’avanguardia dei Vuotisti solo per vedervi contraffatte le proprie ossessioni, oltre che la cifra del suo destino.

Poi perché ci restituisce l’immagine di un secolo, il Novecento, cupamente picaresco, gravido di lemuri come un teatro di ombre cinesi; un grande luna-park in cui passano in rassegna poetesse dalle pause interminabili, scienziati pazzi, squadristi lapalissiani, ciarlatani di ogni risma e badanti sudamericane con mille cognomi; il tutto condito da una prosa febbricitante e lunatica, lussureggiante e visionaria.

E anche per altri motivi, ma mi sa che ho già superato i dieci.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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