Pratiche lesbiche e vincoli ciechi

 

zanzibar_lesbo

di Simonetta Spinelli

Ho chiesto a Simonetta Spinelli il permesso di pubblicare alcuni suoi articoli scritti diversi anni fa e già postati sul suo blog. Le ho anche chiesto di scrivere una breve nota di accompagnamento per ogni intervento, raccontando in sintesi le circostanze della composizione e il contesto di discussione in cui si inseriva, e lei lo ha fatto, per questo la ringrazio. La scelta di ripubblicare questi testi in serie (uno al mese) spero sia evidente a chi legge: (non solo sono incredibilmente belli, ma) sono inattuali e perciò parlano al presente.

Qui il primo post della serie: Una donna lesbica femminista.

Qui il secondo: Queering Wittig?.

 

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Il silenzio è perdita (2016)

L’articolo pubblicato nel 1986 in DWF è il risultato di una riflessione che, ancora oggi, mi angustia. In Italia – e solo da noi – le donne lesbiche non riescono a restituire le loro esperienze di vita in discorso politico autonomo. Donne che si dichiarano lesbiche, che si esprimono pubblicamente in mille modi: studiose, letterate, scrittore, storiche, archiviste. Donne di pensiero, attive nella politica, che scrivono su tutto e su tutto restituiscono un patrimonio di consapevolezza. Ma il lesbismo resta come un inciso, tenuto al riparo, come se non potesse quell’esperienza fondante del nostri percorsi essere la base dalla quale partire per costruire una visione di mondo a propria dimensione. Non a caso nasce l’adesione sempre più massiccia alle lotte per i diritti civili, perché la richiesta di equiparazione e di tutela, per quanto possa essere dettata da sacrosante esigenze pratiche, non costringe ad esplicitare il sapere delle nostre vite, né ad assumere la fatica di una contrattazione complessiva sull’intero sistema dei diritti.

 

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Il silenzio è perdita (1986)*

Come un gesto di irritazione di fronte ad un’intimità invasa. A volte penso che l’incapacità di parola che chiude il lesbismo in un discorso difficile da articolare, e che rende anche i gruppi politici in qualche modo insofferenti ad approfondire, in termini teorici,  quanto in questi anni si è espresso in pratica di rapporti, sia lo stesso atteggiamento a difesa di un’intimità, che sembra di avvilire nominandola[1].

Approfondire un’analisi sulla realtà del lesbismo significa scavare, inevitabilmente, in una storia tutta intima e renderla esplicita, abbandonando la ricerca di un sapersi che, proprio del lasciar tutto implicito, aveva fatto una strategia. Restringendo lo spazio di comunicazione alla denuncia di un’oppressione. E il resto raccontandolo in un gesto di interruzione di discorso. Un discorso che esisteva, per ogni donna lesbica, prima ancora che esistesse il desiderio di costruire linguaggio. Come se la chiusura ad ogni sforzo di parola fosse la premessa necessaria ad esprimere un desiderio, che solo nel contatto con il corpo dell’altra poteva dirsi, perché implicitamente diceva un’esistenza.

Se l’altra è corpo del desiderio, fra i due corpi di donna si costruisce uno spazio di coscienza che rompe la logica della negazione. L’incontro tra i due corpi – non detto del linguaggio a cui la materialità del desiderio restituisce presenza – rimanda, nello stesso tempo, all’una e all’altra donna, un’immagine di sé come soggetto desiderante e una intuizione del proprio corpo come strumento di indagine e di intelligenza. Prima di ogni analisi e presa di coscienza, dividere, dirsi il desiderio è nominarsi l’un l’altra e scambiarsi riconoscimento. Questo impatto di conoscenza è così forte che capovolge il senso di tutta la realtà. Per un momento. Perché la quotidianità ricostruisce le barriere del senso comune. E si struttura una mediazione tra l’insostenibilità e la voglia di onnipotenza, che è percorso di tutte le donne, ma che per le donne lesbiche contiene l’ostinata memoria di quel “sapere del primo istante”[2] negato, rimosso e irrimediabilmente presente. Amuleto raccolto in un tempo remoto, che dei simboli magici ha l’orrore di essere esplicitato, e di cui niente più si sa di preciso, se non che gettarlo è gettare la vita. E’ più facile esprimere una protesta, difendere una strada comune alle altre donne, o la specificità di un percorso e di una pratica. Ogni cosa ci segna, ci lega e ci attrae, basta che non tocchi, a livello singolo e collettivo, quel fulcro di sapienza di intimità che è lo scandalo delle nostre vite e il nostro scandalo. E non si deve dire, perché scioglierne i nodi è rischiare di perderci.

Appartenenza per una donna lesbica è percorso di esplicitazione di quel sapere di intimità. Ma questo percorso presuppone che l’intimità sia nominata, in qualche modo esposta. Là dove il segreto le manteneva il senso di difesa magica contro la cancellazione. Se neanche io so dare un nome a ciò che non può essere nominato, né articolarne i connotati, lo sottraggo all’indagine del mondo. Che lo sottragga alla mia sembra poca cosa di fronte al fatto che, inespressa, quell’intuizione dà spessore alla mia vita. Il timore è che la violazione del divieto sommi trasgressione a trasgressione e cancelli, banalizzandolo, ciò che mi dice esistente. Quando lo spirito non abiterà più la pianta, sparirà dalla terra il popolo degli alberi.

Concepire l’appartenenza in termini di esplicitazioni contiene, oltre al fantasma della perdita, il fantasma del tradimento. Gran parte delle donne lesbiche politicizzate ha concentrato i suoi sforzi nella significazione del soggetto donna, ma ha evitato – o rifiutato – di articolare in linguaggio il sapere delle sue pratiche di intimità. D’altra parte, le donne lesbiche che si sono aggregate nei gruppi spontanei sono rimaste, spesso, legate all’esaltazione ideologica di una pratica, peraltro non esplicitata. In ambedue i casi non c’è stata accumulazione di sapere. Quell’accumulazione di sapere che ha permesso la fondazione di un soggetto collettivo donna, l’inizio di un’articolazione di significato, che non è ancora linguaggio, ma già spazio di comunicazione sessuata, all’interno del quale è possibile problematizzare intrecci, relazioni e contraddizioni tra pratiche di rapporto e ambito collettivo in cui quelle pratiche si significano.

All’interno del soggetto collettivo donna, un soggetto collettivo lesbica non è mai esistito, perché le donne lesbiche non hanno posto – se non in termini rivendicativi o confusi – l’esigenza teorica di articolare un linguaggio a partire dalla propria esperienza di comunicazione, segnata proprio dalla materialità del rapporto con l’altra. Si verifica un paradosso. Quanto più il lesbismo non si esplicita in un soggetto collettivo, tanto più le donne lesbiche sembrano sviluppare una dinamica di difesa di fronte al tentativo di approfondire l’indagine sulle pratiche di rapporto, che è interpretato, collettivamente, come minaccia di frattura, di abbandono. Come se esistesse una realtà di vite separate, che non si mettono reciprocamente in gioco, ma si stringono in corpo sociale ogni volta che è a rischio quel patto, che nessuna dichiara, ma di cui ognuna registra le violazioni. Opera qui una doppia concezione di appartenenza, che invece di articolarsi entra in collisione, pur fondando su quell’implicito sapere di intimità, perché quelle che appaiono negarsi reciprocamente sono fatiche concrete, che hanno segnato storie e vite, così a fondo che i meccanismi di difesa scattano prima di qualunque razionalizzazione.

Appartenere a sé per una donna lesbica è percorso così legato all’appartenenza all’altra che scindere le due proposizioni è ripercorrere una strada che è stata obbligo prima di essere conquista. La materialità dell’incontro con l’altra restituisce alla donna lesbica la titolarità di un desiderio che può essere espresso. Ma l’essere soggetto desiderante è legato all’altra, al suo essere soggetto desiderante. Se l’altra è immagine senza corpo, lo stesso esistere perde senso. Il sapere dell’intimità coesiste con il fantasma della perdita. Qui scatta la prima difesa. Sembra più urgente sottrarre all’indagine quel vincolo, piuttosto che rischiare di perderlo analizzandone il dato di acquisizione di conoscenza. Al rischio della perdita di senso si oppone l’occultamento di senso. Che sembra investire anche l’atteggiamento opposto di chi rifiuta un’esplicitazione di percorso, considerandola svilente di fronte alla sfida che quel rapporto, così connotato, fondi di per sé un linguaggio che scardina la logica sociale. Perché, di fatto, ridurre ogni possibilità di rappresentazione all’esemplarità astratta di un percorso, azzera le singole vite e impedisce proprio la costruzione di un sapere collettivo, fondato sulle pratiche concrete e non sull’immaginario di quelle pratiche.

La scoperta di altre donne, legate dalla stessa materialità di rapporto, non cancella il timore della perdita. Ne muta le coordinate. Le altre donne lesbiche sono spazio di socialità che permette un intreccio articolato di rapporti. Concreti. Nei quali quel sapere di intimità, non espresso, è presupposto dato. C’è uno spostamento di ottica, in cui l’appartenenza si ridefinisce, ma sempre in termini di “ciò a cui appartengo”. Il processo di costruzione di un’identità è per le donne lesbiche troppo legato alla paura della solitudine, all’ansia di non rintracciare somiglianze, al bisogno di rappresentazione sociale, perché l’appartenenza possa immediatamente porsi in modo diverso da “appartenere a”. Sembra più vitale fare corpo insieme contro l’estraneità, stabilire un patto sulla base di una somiglianza che non può essere smentita. Il dato di fatto di una pratica di intimità si sostituisce ancora una volta all’indagine sul sapere di quell’intimità. E la sostituzione diventa nello stesso tempo punto di coesione e  base per il riprodursi di un’estraneità. Perché rappresenta le donne lesbiche in un corpo sociale votato alla perdita di senso.

Sembra un gioco ad incastro, in cui spostare una pedina è spostarle tutte. Prendere distanze dall’estraneità, nominando il proprio sapere, evoca di nuovo il terrore di essere appartenenti a nessuna, e di contribuire alla disgregazione di un corpo che del suo essere non soggetto a verifica aveva fatto forza coesiva. D’altra parte, ripercorrere una rimozione rompe un patto con sé, e provoca un’espropriazione che nessuna “appartenenza a” può sanare.

La pratica politica non smentisce la difficoltà di esplicitazione con la quale le donne lesbiche reagiscono alla paura che, nominando ciò a cui danno valore prevalente rispetto alle loro vite, si produca una perdita. L’appartenenza al Movimento è stata la mozione d’ordine sulla quale le lesbiche si sono cancellate. Più la loro presenza è stata significativa, e ha contribuito alla rassicurazione generale di “essere insieme”, più è stato nascosto e taciuto il sapere delle loro pratiche di intimità. Che restava, del Movimento, il non detto. Su cui fondava la coesione. Anche qui si è prodotto un immaginario di corpo sociale omogeneo, quasi omologato, che era costantemente smentito dalle pratiche, né omogenee, né omologabili. E si è verificata la stessa spaccatura tra ossessione della perdita ed estraneità. Con un’ambiguità similare. Perché non dare, o dare lettura parziale, delle loro pratiche di rapporto è stato per le donne lesbiche sminuire quanto di quelle pratiche aveva informato, e informa, l’accumulazione di sapere che negli anni è stata costruita tra le donne.

Storicizzare un percorso, individuale e collettivo, significa oggi ridefinire un’appartenenza in termini di “appartenenza a sé”. Urgente è trovare ciò che mi appartiene, che mi rimanda una somiglianza verificabile e non estraneità, che non riduce la mia vita, né restringe i miei spazi di espressione. Ho bisogno di confrontare pratiche concrete, nominate, e il percorso di indagine che le ha modificate. In questo cercare ciò che mi appartiene il silenzio rappresenta la perdita. Di me, perché obbliga la mia ricerca in coordinate rigide, in cui il mio desiderio di costruire linguaggio è negato, e che mi rappresentano, ancora una volta, come corpo muto. Delle altre donne perché l’immaginario sulle vite sostituisce la conoscenza e il confronto reale, e ci rende l’una all’altra astratte, prive di quei corpi di cui si tace il sapere. Della cultura collettiva che della esplicitazione delle pratiche e della materialità che le sottendeva aveva fatto il suo punto di forza. Della possibilità di costruire una rete di rapporti, rafforzata da spostamenti di coscienza individuali e collettivi, perché il non detto copre la consapevolezza di quei rapporti, e ne impedisce la rappresentazione.

Esplicitare una pratica di intimità non significa riproporre divisioni, né opporre l’una all’altra le vite delle donne. Scommetto su un’altra donna perché scommetto su di me. Quello che lega me e lei è ciò che ognuna delle due riconosce come qualcosa che le appartiene. E perché ci sia riconoscimento occorre nominare. Non esplicitare che sono una donna lesbica nega, nello stesso tempo, la mia vita e quanto della vita dell’altra deve poter essere detto, la mia pratica e la sua. Se anche niente dell’altra sapessi, saprei che raccontare il mio percorso è dire l’intimità con una donna, con altre donne che vivono la stessa pratica, lo sforzo di assumere e di significare il sapere di quel rapporto e di quei rapporti e come ha segnato un’esperienza quotidiana e un’elaborazione politica. Perché questo abbiamo fatto negli anni, espresso politicità costruendo lo spessore delle nostre vite. E mi sembra contraddittorio – in questo momento, in cui la discussione si accentra sull’esigenza di significare le nostre pratiche di rapporto, di nominarle e di nominare i soggetti che ne sono titolari, e ci siamo già assunte, difendendo un’appartenenza a noi stesse, la fatica di tradire i patti di silenzio perché cancellano le donne – riproporre la miseria di una parola che da me parte, ma in qualche modo obliquo anche mi evita. E far finta di non sapere, ancora una volta, che “il silenzio tra le donne è calunnia”[3].

 

* In Dwf, Appartenenza, 1986 (4), pp. 49-53

[1] Il riferimento è qui chiaramente alla realtà italiana, che è atipica rispetto ad altre situazioni europee o nord-americane, nelle quali il movimento lesbico nasce separato, a volte in antagonismo con il movimento delle donne. Al contrario, in Italia, le donne lesbiche politicizzate hanno scelto di confrontarsi all’interno dei collettivi e del dibattito femminista, rifiutando la separazione dalle altre donne. Il lesbismo femminista è la realtà più generalizzata e visibile, tanto più che le aggregazioni spontanee, per quanto diffuse, non esprimono desiderio di produzione teorica, e le punte di radicalismo, peraltro deboli, restano assorbite dal dibattito complessivo.

[2] Alessandra De Perini introduce questa problematica al Seminario di Firenze, 1-2 novembre 1986: “Il sapere del corpo lesbico […] E’ un sapere implicito, sapere del primo istante, che non prende tempo per riflettere. E’ un sapere poco articolato. Frammentario […] che ancora non è un Sapere, eppure molto sa delle donne, dei loro pensieri, dei loro piaceri”. Dattiloscritto, p. 7.

[3] Dall’intervento (inedito) di Elena Gentili al convegno Una ricerca lesbica: Etica e politica dei rapporti tra donne (Roma, 1-2 novembre 1985).

 

 

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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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