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Gli abneganti

di Simone Panepuccia

Questo racconto è stato presentato e letto al corso della Scuola del Libro “Scrivere un racconto che piacerebbe al New Yorker” tenuto da Luca Ricci

 

Tutto iniziò con un capello più lungo del normale. Quella mattina Lucio Scolari si stava pettinando e, come tutte le mattine, lavorava al camuffamento del suo principio di calvizie.
La piazza scoperta sulla sua testa si allargava e la lacca, che doveva ridistribuire i pochi capelli rimasti, seguendo un algoritmo più efficiente, non bastava più.

Si era accorto, quella mattina, che uno dei capelli con cui era solito ombreggiare la chierica, si era fatto grosso, nero come un cavo elettrico, e lungo, molto più lungo degli altri.
Gli fece fare due giri intorno alla piazza e lo fissò con un grappolo di capelli presi da un lato e paralizzati con diverse spruzzate di lacca.

Poi smise di pensarci e andò in ufficio.
Simone Fibonacci, il suo project manager, lo convocò nel suo ufficio per informarlo della situazione: Globalware Italia, il cliente che foraggiava tutta l’azienda con le sue grasse commesse, richiedeva la presenza di un analista software nella sua sede di Milano.
– È per quel problema che c’è stato lo scorso week end? – chiese Lucio. Fibonacci annuì. – La spiegazione che gli abbiamo dato non li ha convinti.
– Infatti era un po’ debole.
– Non potevamo dirgli che i loro siti web sono andati giù perché la nostra rete non ha retto il carico, che dici Scolari?
– Dico che in questo caso non ci sono molte scuse che tengano. Forse dire la verità…
– Non se ne parla. Ci fanno il culo a brani. Tu stasera parti per Milano e ti inventi una scusa migliore della nostra.
Mentre stava per uscire dall’ufficio del Fibonacci, i suoi capelli cominciarono a forzare lo strato di lacca che li teneva congelati.
– Scolari, una cosa… – intervenne il project manager senza alzare gli occhi dal notebook. – Ti ho girato un’email di quel coglione di Serafini, della Banca di Trento. Dagli una risposta, io non ci ho capito niente. Sempre a rompere i coglioni, quello lì. Un giorno o l’altro li mando a cagare, ‘sti pezzenti.
Lucio annuì senza voltarsi, temendo che i suoi capelli stessero prendendo il volo e si infilò in bagno. Davanti allo specchio non c’era sentore di ribellione: la lacca stava tenendo, ma allora perché sentiva questa sensazione, questo formicolio? Si osservò meglio e vide che il capello anomalo si era ingrossato ancora, soprattutto sulla punta, dove stava emergendo un pezzetto di metallo. Lo infilò sotto il ciuffo e uscì dal bagno.

Prese il Frecciarossa Roma-Milano delle 19, perché fino alle 18 era dovuto rimanere in ufficio. Anche se non importante come Globalware, la Banca di Trento era comunque un cliente di rilevo, checché ne dicesse Fibonacci. A volte non capiva come potesse, uno come lui, fare il project manager: l’azienda aveva bisogno di dirigenti come un bambino ha bisogno della mamma. Lui sapeva che molte volte bisognava sacrificarsi per questo bambino, passare notti insonni, preoccuparsi se qualche server faceva i capricci, chiudersi in ufficio durante il week end finché il problema non era risolto. Invece il Fibo se ne andava, per dire, tranquillo in settimana bianca e lasciava a lui tutte le incombenze.

Arrivato a Milano si comprò un cappellino perché durante il viaggio aveva sentito qualcosa muoversi fra i capelli. Era andato più volte nel bagno del treno, ma il cavo che aveva al posto del capello era rimasto lì. Curiosamente, però, all’estremità era comparso un connettore USB.

In albergo prese coraggio e infilò nel notebook il cavo che gli spuntava dalla testa.
Si montò sul pc come un hard disk: dentro era pieno di file binari, illeggibili da qualsiasi applicazione. Quel cavo doveva essere l’accesso USB alla sua memoria.

Passò la notte ad hackerarsi. Capì che alcuni files erano parzialmente leggibili se aperti con un editor esadecimale. Vide, in quelle sequenze di numeri e lettere, spezzoni della sua vita recente. Alcuni files più vecchi erano compressi e, una volta espansi, contenevano del codice scritto in un linguaggio la cui sintassi gli era familiare. Lì c’erano codificati diversi algoritmi comportamentali di base: ad esempio quello per ruotare il cucchiaino nella tazza che prevedeva, come opzione di default, la rotazione oraria. C’erano migliaia di altri files come quello.

Era l’alba e fra poche ore avrebbe dovuto nuotare in una piscina piena di squali che aveva la forma di una stanza a vetri con un lungo tavolo bianco: gli squali si sarebbero disposti ai lati del tavolo e lui, da solo, sarebbe stato divorato a capotavola. Si mise a pianificare un’azione di difesa.

Nel taxi che lo portava alla sede di Globalware si ritrovò a pensare che, forse, con un accurato lavoro di autohacking, avrebbe potuto cancellare quella insana paura che aveva di Simone Fibonacci e, magari, sarebbe riuscito a prendere il suo posto. Con lui come project manager, l’azienda sarebbe cresciuta. Avrebbe lavorato tutti i week end e tutte le notti necessarie a rinforzare il settore di comunicazione con il cliente, avrebbe creato da zero un gruppo trasversale di risorse che si sarebbero occupate dell’integrazione fra le varie aree tecniche e…

Era arrivato. Scese dal taxi e si diresse verso le porte automatiche su cui spiccava la serigrafia del mondo accerchiato da una grande G rossa. Diede il suo nome alla reception e ricevette, in cambio, un badge da appuntare sul risvolto della giacca.

Lo fecero accomodare in sala riunioni: gli squali erano già tutti lì che si affilavano i denti. L’obiettivo era chiaro: indurre l’azienda fornitrice ad ammettere la sua colpa e sanzionarla con una penale che si sarebbe tramutata in un grosso sconto sulla prossima commessa. Praticamente avrebbero lavorato gratis per il primo semestre dell’anno e Lucio era l’unico che, in quel momento, poteva impedirlo.

– Ci dica come sono andate le cose, dottor Scolari.
– È semplice: i certificati di sicurezza HTTPS associati ai domini internet delle vostre aziende sono scaduti.
Gli squali si guardarono fra di loro corrugando la fronte.
– E perché non sono stati rinnovati per tempo? – Chiese un giovane squalo che gli nuotava intorno in cerchio.
– È un’attività a vostro carico. Ditemelo voi. – Lo dribblò Lucio.
Il sorriso famelico del giovane squalo si congelò.
– E questo che c’entra con il down subito dai siti web? Non si poteva accedere attraverso HTTP? – Intervenne un vecchio squalo che cominciava a volerci vedere chiaro.

– È quello che è stato fatto, – disse Lucio. – Il nostro bilanciatore ha cominciato a deviare tutte le richieste verso la connessione non sicura, ma dopo un po’ i nostri sistemi hanno bloccato tutto: troppe connessioni non sicure, in genere, suggeriscono un attacco hacker.

Il giovane squalo tentò un affondo: – Perché non ci avete detto che i certificati erano scaduti?
– La gestione dei domini non è un’attività di nostra competenza, non abbiamo nessuna visibilità al riguardo.

Il giovane squalo sudò e tacque.
Il vecchio, invece, divenne accomodante e questo sancì la vittoria di Lucio. Anche su Fibonacci, volendo dire.
Il resto della riunione fu di tutt’altro tono. I direttori tecnici dei vari reparti della Globalware approfittarono dell’occasione per fare diverse richieste a Lucio, il quale prese nota di tutto con la promessa di lavorarci sopra appena tornato a Roma.
Poi chiese informazioni sul bagno.
Si chiuse dentro e si infilò una mano nelle mutande: aveva lo scroto che prudeva da matti. Si grattò fino a scoprire diversi peli pubici ingrossati.
Per fortuna i fili che gli uscivano dalle palle si erano mantenuti entro dimensioni ragionevoli. Erano, però, diventati trasparenti, come sottilissimi tubicini di vetro.
Durante il viaggio di ritorno, fra gli scossoni del bagno del treno, Lucio si rese conto che quei fili si erano uniti in un fascio di fibre ottiche.
Passò una notte agitata, piena di algoritmi e porzioni di programmi. Si ritrovò, nel sogno, a precipitare attraverso le linee di codice, giù fra le librerie del sistema operativo e poi sempre più giù, sempre più velocemente, fra le istruzioni del processore che venivano eseguite ad una velocità spaventosa, anche se quel che facevano era elementare: spostare byte da una porzione di memoria all’altra ed effettuare piccole operazioni matematiche, saltando incessantemente fra gli indirizzi.
Poi si schiantò sui settori di un hard disk. Era tutto lì, tutto ciò che non era volatile era lì, scolpito su una superficie magnetica lastricata di piccoli ciottoli grigi un po’ sconnessi, qualcuno in piedi, qualcuno sdraiato. Era arrivato alla fine del viaggio: più giù dei bit non si poteva andare.

In piedi davanti allo specchio del bagno Lucio vide che ormai non c’erano più capelli da sistemare, né calvizie da nascondere. La sua testa era diventata glabra e la pelle bluastra con riflessi argentati. Al posto delle orecchie c’erano due piccoli microfoni, la bocca era collassata in dentro lasciando visibile solo una piccola feritoia nera. Con l’aiuto di un secondo specchio si guardò la schiena: c’erano diverse prese USB, una presa di rete ethernet e perfino una HDMI per collegare un monitor o una TV. C’era di che essere soddisfatti di quell’upgrade notturno.

Decise di andare in ufficio senza portarsi il notebook. Per strada qualcuno lo guardava con curiosità, ma la maggior parte delle persone aveva la faccia incollata allo smartphone e a malapena non gli andava a sbattere contro.

Giunto in ufficio si sedette al cospetto di Simone Fibonacci che non lo degnò di uno sguardo.
– So tutto. Bravo. – disse da dietro lo schermo del pc, mentre controllava l’andamento dei suoi Bitcoin.

– Ho portato alcune richieste da parte del cliente, – fece Lucio con la voce solo leggermente metallica. – Gli ho detto che potevamo occuparcene prima della fine dell’anno. Sempre se sei d’accordo.
– Mh mh, – bofonchiò il Fibo.

– Vabbè, allora io andrei…
Fu in quel momento che il buffer, in cui Fibonacci memorizzava le cose che gli altri dicevano mentre non li ascoltava, si rovesciò nella parte attiva della sua mente.
– Aspetta, come sarebbe? Quali altre richieste? Siamo pieni a tappo fino a Natale. – disse mentre alzava lo sguardo su Lucio.
– Cristo d’un Dio, Lucio! Ma che cazzo ti sei messo in faccia?
Se Lucio avesse avuto ancora delle labbra, le avrebbe serrate per l’imbarazzo. Il Fibonacci si alzò, fece il giro della scrivania e andò a studiarlo più da vicino. – Ma questa roba è vera?
– Sì.
– E… funziona?
– Sì.
– Dio buono, Lucio, fammi vedere! – E prese il cavo del suo monitor e glielo infilò dritto nella schiena, proprio nella sua presa HDMI.
– Fantastico! Che cazzo di sistema operativo hai? – disse da dietro il grande monitor con la faccia rotonda da bambino.
– Ehm… non gli ho dato un nome. Devo averlo compilato stanotte.
– Lo chiameremo Lucius 1.0. Fammi fare un’altra cosa. – Si attaccò al telefono e chiamò quelli del gruppo hardware.
Manlio e Nello entrarono nella stanza con la solita aria annoiata. Ma quando videro Lucio, mezzo trasformato e attaccato al monitor di Fibonacci, strabuzzarono gli occhi.
– Ma che è ‘sta roba? – fece Manlio.
– Portatelo in sala server e trovategli un posticino comodo. Mettetelo in rete. – fece il Fibo. Poi rivolgendosi a Lucio: – Hai bisogno di stare seduto?
– Non credo. Anzi, mi sa che entro stasera le gambe non mi serviranno più.
– Puoi dirlo forte, bello!
E così Lucio finì in una sala refrigerata, in mezzo ai moduli rack che compongono gli armadi dei server. Venne connesso in rete e si mise subito al lavoro. Poteva lavorare ininterrottamente giorno e notte (ma del resto anche prima non è che si riposasse molto) sempre in piena efficienza. Poteva svolgere in un’ora il lavoro di una settimana senza mai sentirsi in colpa perché non aveva dato il massimo e l’azienda non era mai stata così florida come da quando lui era mutato in macchina.

Passarono due anni e la sala macchine era tutto ciò di cui aveva bisogno. Negli ultimi mesi entrò in confidenza con Cristina, la donna delle pulizie. Passava tre volte a settimana, verso sera, quando non c’era quasi più nessuno. Quando aveva finito di pulire si sedeva su uno sgabello a chiacchierare con Lucio.

Una sera gli disse: – Ma tu sei felice di stare chiuso qui dentro?
– So cos’è la felicità, ma non credo di averla mai provata.
– Nemmeno quando eri… prima, insomma.
– No. Ero soddisfatto quando davo il massimo per la mia azienda. – E adesso?

– Non più. Ora dare il massimo è normale, non è più motivo di soddisfazione.
– E ti credo… – osservò lei. – Ormai ti sarai ridotto a pensare a sfilze di uno e di zero! Sai che allegria.

– Non è esatto. – Replicò lui. – Sarebbe come dire che voi altri pensate solo a sfilze di neuroni che si scambiano impulsi elettrici. In realtà i miei pensieri autocoscienti sono ancora quelli di un essere umano, solo più razionalizzati. Scelgo l’algoritmo migliore, il più efficiente. Dovrebbe essere così per tutti.

– Perché fai quello che fai?
– Per servire l’azienda che mi alimenta.
Lei ponderò bene le prossime parole.
– E se ti dicessi che esiste un posto dove ci sono molti come te? Solo… liberi? Come lui. Ma liberi. Ma come lui. Ma liberi. Ma come lui. Ma liberi…
Gli algoritmi conversazionali di Lucio entrarono in loop e non seppero rispondere subito. Ovviamente non sarebbe andato in crash per così poco. Dopo un tempo limite stabilito dal sistema operativo, venne scelta la risposta che, euristicamente, era quella che poteva avere un peso maggiore. Agli occhi esterni di Cristina, comunque, Lucio ci aveva pensato su un bel po’.
– OK. Liberi. Va bene, vediamoli.
Accadde tutto nella stessa notte. Cristina aiutò Lucio ad entrare nel minivan dell’impresa di pulizie. Lo assicurò meglio che poté, ma non riuscì ad evitargli qualche scossone durante il viaggio.
Scesero una rampa ed entrarono nel parcheggio di un supermercato abbandonato. Lucio venne scaricato dal furgoncino e si ritrovò in un grande open space in cui c’erano ammassati vecchi banconi e frigoriferi industriali.
– Questo è Lucio. Lucio, questi sono i ragazzi del gruppo: Andrea, Ezio, Mirella, Roberto, Alessandra e Marco. – disse Cristina.
Lucio li guardò con le webcam che gli spuntavano dalle orbite.
Una ragazza con cuffie e microfono incastonati nella carne.
Un ragazzo con il Codice Civile tatuato su tutto il corpo.
Un signore grigio che puzzava di solvente.
Un tizio con un lettore di codici a barre al posto della mano.
Una donna che sputava scontrini dalla bocca.
Un giovane prete con le stimmate.

– Prima erano come te. Adesso sono liberi.
Sentì che il suo algoritmo di socializzazione, quello che aveva compresso e relegato in una pagina di memoria ormai dimenticata, stava tentando di formulare diverse strategie, nessuna delle quali, però, venne candidata per essere scelta.
– Mi dispiace, devo andare. – Fu la risposta che uscì dal suo altoparlante.
Poi cominciò a muovere a fatica le rotelle che negli anni avevano preso il posto delle gambe, salì la rampa e si mise sulla strada sotto lo sguardo impotente degli altri.
Il GPS lo guidava nel suo tragitto. Stimava che entro due ore e diciassette minuti sarebbe arrivato a destinazione.
Contava di essere al lavoro prima delle otto, prima dell’arrivo dei suoi colleghi. Prima che l’azienda avesse potuto soffrire per la sua mancanza.

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