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Per una traduttologia del come: Emilio Mattioli

[È uscito per Mucchi Il problema del tradurre (1965-2005), un’antologia di scritti di Emilio Mattioli a cura di Antonio Lavieri, con postfazione di Franco Buffoni. Il volume appare nella nuova serie della collana “Strumenti”, originariamente fondata da Mattioli e oggi diretta dallo stesso Lavieri. Ne pubblico l’introduzione, ringraziando il curatore e l’editore. ot]

 

di Antonio Lavieri

Per noi non si dà teoria senza esperienza storica

G. Folena

Un uomo dalla fisionomia generosa e il sorriso aperto, con due fessure limpide e luminose dietro grossi occhiali da vista: così mi apparve Emilio Mattioli quando lo incontrai per la prima volta nei corridoi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, nel 1992. Dalla sua voce avrei presto scoperto il senso etico dell’espressione «scienze umane»: rigore, sensibilità, apertura, competenza, entusiasmo. Nelle sue lezioni si parlava di Bodmer e Breitinger, Croce e Gentile, ma anche di Saussure, Benjamin, Grassi, Jakobson, Doležel, Kristeva, Apel, Valéry, Nida, Meschonnic, Eliot, Novalis, Steiner, Folena. Di teoria e storia delle traduzioni (il plurale è significativo). Una «cultura libera e spregiudicata[1]» che non temeva le ortodossie dei settori scientifico-disciplinari, che sapeva muoversi agevolmente fra le forme, gli interstizi e le congiunture di una varietà di pratiche estetiche, poetiche e retoriche con la consapevolezza di un esercizio critico votato alla provvisorietà intesa come conquista.

L’interesse per la traduzione appare prestissimo: fra il 1951 e il 1952 Mattioli traduce l’Anfitrione di Plauto[2] per il Teatro Universitario dell’Alma Mater. Quattro anni dopo si laurea in Lettere Classiche all’Università di Bologna, discutendo con Raffaele Spongano una tesi sulla ricezione di Luciano nell’Umanesimo[3]. Ma sarà il metodo di un altro Luciano, il metodo Anceschi, a orientare le sue ricerche «verso il nuovo senza rompere con la tradizione», e contro ogni dogmatismo. A partire dal 1956 un gruppo di giovani studiosi, fra cui lo stesso Mattioli, comincerà a raccogliersi intorno alla rivista il Verri: la capacità dell’estetica anceschiana di comprendere e indicare relazioni, la valorizzazione e l’interpretazione delle poetiche, la funzione della letteratura nei suoi legami con il pensiero e la realtà, l’osservazione interdisciplinare di metodi e fenomeni che producono cultura, fino al ruolo della avanguardie: sono questi i punti e gli strumenti che hanno consentito a Emilio Mattioli di reintrodurre nell’analisi il valore storico dell’esperienza estetica, e di porre l’attività traduttiva come «elemento cruciale» al centro della cultura contemporanea.

Nel clima culturale dell’epoca, dominato in Italia dalla filosofia idealistica e, in Francia come altrove, dai formalismi dello strutturalismo di matrice linguistico-semiotica, la traduzione continuava a subire il processo dell’obiezione pregiudiziale, o a essere ridotta a un mero trasferimento di contenuto, da codice a codice. La pubblicazione nel 1965 di «Introduzione al problema del tradurre» apre una prospettiva nuova, pioneristica:

Di fronte ad un problema come quello del tradurre per il quale nessuna conclusione si presenta come esauriente, perché la soluzione univoca (traducibilità assoluta o intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto, la soluzione possibilista (possibilità e impossibilità del tradurre coesistenti) appare equivoca, pare di poter concludere che la risposta sul piano teorico non si può dare e che il problema si risolve soltanto in un contesto prammatico (le molteplici risposte della storia alcune delle quali sono state sopra indicate). Molteplici risposte quindi, ma sul piano prammatico, il che implica ricchezza, non contraddittorietà; le traduzioni nate nel corso dei tempi in rispondenza alle loro esigenze profonde: queste le risposte che conosciamo. Altre risposte (traduzioni e idee del tradurre) seguiranno in futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilire regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte del futuro. E cioè, per rendere il discorso il più chiaro possibile, alla tradizionale domanda: «si può tradurre?» proponiamo di sostituire altre domande: «Come si traduce?» e «Che senso ha il tradurre?»[4].

La trasformazione della domanda di tipo essenzialistico, metafisico, in domanda fenomenologica è un fatto inedito, importante, nel panorama internazionale degli studi sul tradurre di quegli anni: l’analisi di Mattioli chiarisce l’insufficienza epistemologica delle posizioni sul tradurre provenienti dal neoidealismo estetico (Croce e Gentile), dall’estetica materialistico-storica di Della Volpe, dalla linguistica teorica e applicata (da Terracini a Jakobson, da Nida a Mounin). Attraverso un primo esercizio di storia delle poetiche del tradurre, Mattioli recupera alcuni passaggi esemplari di Goethe, Novalis, Eliot, Leopardi, Benjamin, Pound, fino ad arrivare all’antologia dei Lirici Nuovi curata da Luciano Anceschi:

il grande interesse che ha per noi questa antologia sta nei discorsi sul tradurre che essa contiene. Intanto quello di Anceschi nella introduzione; respinta «l’ambizione sbagliata di ‘resa fotografica’ che sforza la lingua e testimonia solo di un’astratta scienza filologica» e «l’ambigua equivalenza col testo forestiero» Anceschi riproponeva per il tradurre «la parola imitazione»[5] […].

Nell’esame di Mattioli la nozione di equivalenza appare già ambigua, equivoca, poco euristica; seguendo i passi dell’«ἐποχή fenomenologica», la sospensione del giudizio che, sulla scorta dell’interpretazione banfiana di Husserl, Anceschi aveva trasformato in strumento critico-ermeneutico a partire da Autonomia e eteronomia dell’arte (1936), la definizione essenzialistica e normativa della traduzione appare a Mattioli del tutto analoga alla definizione essenzialistica e normativa dell’arte: la realtà delle esperienze traduttive, l’orizzonte storico e pragmatico aperto dalle poetiche del tradurre rappresentano la via privilegiata per indagare una delle pratiche simboliche più irriducibili e complesse a cui l’uomo si sia mai dedicato. Ciò malgrado, molti saranno ancora i teorici della traduzione che invocheranno il principio di equivalenza – «il mito della sua pertinenza» scientifica – nel corso degli anni a venire. A distanza di quasi trent’anni Mattioli si mostrerà fedele, in termini di metodo e di impostazione, al saggio precursore del 1965:

Introduzione al problema del tradurre, del 1965, è il mio primo scritto sull’argomento […], ma la impostazione fenomenologica che diedi allora alla ricerca mi sembra tutt’ora valida ed ha affinità con metodologie sviluppatesi autonomamente in seguito in altri contesti culturali […]. Oggi si è accentuata la consapevolezza che l’idea di una traduzione identica all’originale è un’ingenuità epistemologica e che sostenere l’impossibilità della traduzione su questa base è una petizione di principio. La copia non è l’ideale della traduzione[6].

D’altronde, Mounin stesso aveva più volte sottolineato che tutti gli argomenti contro la traduzione alla fine si riducono soltanto a uno: la traduzione non è l’originale. Lo ricorda anche Jean-Paul Vinay nell’incipit di un articolo pubblicato nel 1969[7]: una rapida occhiata all’appendice bibliografica ci fa scoprire accanto ad altri nomi, come quelli di Cary e Mounin, il Mattioli di «Introduzione al problema del tradurre»[8], segno dell’attenzione che il saggio di Emilio Mattioli aveva saputo suscitare da subito negli ambienti accademici francesi e d’oltreoceano[9]. D’altra parte, l’interrogativo posto nel titolo del contributo di Vinay – «La traduction littéraire est-elle un genre à part?» – si declinerà sotto forma di proposta in uno scritto di Mattioli del 1975: «La traduzione come genere letterario[10]». Caduta l’obiezione pregiudiziale delle filosofie neoidealiste, le critiche principali di Mattioli si indirizzano verso l’irrigidimento teorico della linguistica jakobsoniana e la riduzione essenzialistica della poesia alla paronomasia. Dalla trattatistica cinquecentesca di Sébillet, Mattioli riprende la nozione di «genere» nella prospettiva della nuova fenomenologia critica:

È in questa prospettiva che proporrei di considerare la traduzione come genere letterario. I vantaggi che ne derivano sono evidenti: 1) prima di tutto si sarà data attuazione concreta alla proposta di mutare la domanda sulla possibilità del tradurre in quella sul come si traduce; 2) poi si sarà in grado, applicando alla traduzione la nozione di genere inteso come simbolo di poetica, di scoprire le idealità e le intenzioni dei traduttori e di collocare quindi le traduzioni in rapporto alla storia culturale nel modo più efficacemente euristico; 3) si sarà data alla traduzione una collocazione tale da farle riconoscere una funzione autonoma nel sistema letterario, ma non irrelata[11].

Ancora una volta, è necessario trasformare la questione metafisica in questione fenomenologica: dal «si può tradurre?» al «come si traduce?», per Mattioli la traduzione diventa un «genere letterario di tipo particolare caratterizzato dal rapporto dialettico fra la poetica dell’autore tradotto e quella del traduttore[12]». La nozione di poetica non è certo quella elaborata in àmbito strutturalista, intesa come «una teoria della struttura e del funzionamento del discorso letterario[13]», ma quella avanzata da Luciano Anceschi: «nata con la poesia, la poetica […] rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali[14]». In opposizione alle teorie normative del tradurre, l’opzione per una traduzione libera o letterale, sourcière o cibliste, acquisirà valore solo rispetto alla poetica del traduttore. Sul piano traduttologico, le conseguenze sono di rilievo; accordare una poetica al traduttore vuol dire: a) che tradurre significa elaborare un’opera autonoma rispetto al testo di partenza; b) ridefinire le pratiche traduttive come un processo poietico, un rapporto dialogico e dialettico fra due momenti costruttivi di un’opera, e non fra due risultati; c) rimodulare il rapporto originale-copia attraverso la nozione di intertestualità, sottraendo il traduttore dall’obbligo della riproduzione totale; d) sottolineare la relazione traduzione-tradizione, mettendo in luce la pratica traduttiva come un atto critico e produttivo, in cui «si esercita la dialettica fra tradizione e innovazione[15]»; e) che una storia della letteratura non può fare a meno di una storia delle traduzioni. La traduzione come rapporto fra poetiche spiega anche, in parte, l’affermarsi nelle diverse lingue-culture di arrivo di alcune traduzioni diventate fra virgolette «canoniche», cioè quelle a cui una determinata tradizione assegna i valori fondanti di un classico (L’Eneide del Caro, l’Iliade del Monti, o ancora l’Enéide di Klossowski o le Bucoliques di Valéry), ma anche il successo delle traduzioni autoriali (Bonnefoy traduttore di Shakespeare, Pavese traduttore di Melville)[16].

Nel 1989, un anno dopo il convegno «La traduzione del testo poetico»[17], Emilio Mattioli e Franco Buffoni fondavano il semestrale di teoria e pratica della traduzione letteraria Testo a Fronte: sulle pagine della rivista Mattioli scriverà di Ricœur e Berman, di Apel, Etkind e Meschonnic, cominciando a introdurre in Italia alcune delle voci più significative della traduttologia internazionale[18]. In sintonia con la poetica del tradurre di Henri Meschonnic[19], la traduzione per Mattioli si configura sempre come creazione di nuove relazioni, come rapporto interpoetico e interdiscorsivo fra valore e significazione[20]. Nella solidarietà fra senso e forma, nel ritmo come organizzazione imprevedibile delle forme nella storia, «la traduzione di un testo letterario deve fare ciò che fa un testo letterario[21]»: attraverso il ritmo, la prosodia, la significanza, le scelte traduttive per le quali di volta in volta opteranno i singoli traduttori negano l’idea stessa di trasparenza, di annessione, di calco, permettendo alla riflessività traduttologica di cogliere la specificità e la storicità di ogni pratica teorica. Sarà dunque impossibile far coincidere l’operazione traduttiva con quella ermeneutica, perché se tradurre vuol dire solo comprendere, tutto diventa traduzione, in una mistificazione che non tiene conto delle implicazioni pragmatiche fra tempo e linguaggio, tempo e soggetto, linguaggio e soggetto.

Sarà ormai chiaro che la traduttologia del come di Emilio Mattioli tende a evitare l’autoreferenzialismo e il «mimetismo realistico»: i riduzionismi tutti, siano essi contenutistici o formalistici. In questa direzione, lo studio che chiude questa raccolta di saggi – riuniti per la prima volta in volume – preannuncia quello che è ormai diventato, da una decina di anni a questa parte, un vero e proprio campo di studi nella ricerca traduttologica contemporanea, l’indagine sui «racconti di traduzione» – sul rapporto fra letteratura, sapere traduttologico e immaginario del tradurre – , in un continuum euristico in cui l’enunciazione vale quanto l’enunciato, il cui la rappresentazione alimenta costantemente il dato empirico[22]:

Ci sono fondati indizi per affermare che un altro promettentissimo sviluppo si dà nel campo della traduzione letteraria e negli studi su di essa: intendo riferirmi a quei testi creativi, romanzi in particolare, che assumono come argomento centrale o anche parziale la traduzione […]. Adoperando il linguaggio della fenomenologia critica potremmo parlare di un’attenzione portata anche alle poetiche implicite del tradurre oltre che a quelle esplicite […]. A me sembra fin da ora che siano da fare due considerazioni.

  1. Che la traduzione con i suoi problemi diventi oggetto di romanzo (e ormai gli esempi sono così numerosi da poter parlare di un fenomeno consistente) è una prova ulteriore che essa sta dentro la cultura più vitale, che riguarda la creatività.
  2. All’interno di molti romanzi ci sono pagine sulla traduzione di cui si deve tener conto e considerarle come apporti rilevanti alla consapevolezza del tradurre[23].

Il mio rammarico personale è che l’improvvisa scomparsa non abbia consentito ad Emilio di apprezzare questi ulteriori passi compiuti verso una maggiore «consapevolezza del tradurre». Sono certo, però, che avrebbe gioito nell’apprendere che, sulla strada aperta da «Introduzione al problema del tradurre» più di cinquant’anni fa, è stata creata lo scorso anno a Palermo la prima Società italiana di traduttologia: linguisti, comparatisti, filosofi, antropologi, specialisti di lingue e letterature antiche e moderne, tutti riuniti intorno al tradurre, nella certezza che riflettere sulla traduzione significhi pensare la letteratura come rapporto fra le letterature, la lingua e la conoscenza come rapporto fra le lingue e i saperi, l’alterità e la differenza come condizione stessa della nostra identità culturale:

La nascita di questa disciplina è importante da due punti di vista: 1) perché segna il riconoscimento dell’importanza cruciale che ha la traduzione per molte discipline che vanno dalla filosofia alla linguistica, dalla teoria della letteratura all’estetica, dalla comparatistica alla psicoanalisi, dalla etnologia alla retorica etc.; 2) perché indica la necessità di trattare i problemi della traduzione in modo autonomo, riscattando l’attività traduttiva dalla posizione subordinata in cui è stata a lungo e dal disprezzo che l’ha spesso circondata.[24]

Note

[1] Cfr. S. Calabrese, «Lehrjahre modenesi: ricordando Emilio Mattioli», In Testo a fronte (per Emilio Mattioli), n. 38, 2008, p. 39. Segnalo, all’interno dello stesso numero, l’importante contributo di Franco Buffoni («Da traduttologia a ritmologia», pp. 10-29).

2 La traduzione verrà messa in scena al Piccolo Teatro di Modena, per la regia di Roberto Ronchini, il primo novembre 1952. Ringrazio Germana e Maria Mattioli per avermi trasmesso il dattiloscritto, ancora inedito. Per il Teatro Universitario, Mattioli tradusse anche testi di Molière e Beaumarchais (cfr. E. Mattioli, L’etica del tradurre e altri scritti, Mucchi, Modena 2009, p. 7).

3 Gli studi su Luciano confluiranno nel volume Luciano e l’Umanesimo (Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1980).

4 Cfr. Cap. I, p. 52-53.

5 Cfr. Cap. I. p. 50.

6 Cfr. E. Mattioli, Contributi alla teoria della traduzione letteraria, Aesthetica Preprint, Palermo 1993, pp. 5-6.

7 Cfr. J.-P. Vinay, «La traduction littéraire est-elle un genre à part?», in Meta, vol. 14, n. 1, marzo 1969, pp. 5-21.

8Ibid., p. 21.

9 A dispetto di una lingua di pubblicazione, l’italiano, che oggi più di ieri soffre di visibilità nella letteratura traduttologica internazionale.

10 Cfr. Cap. II, pp. 55-74.

11Ibid., p. 70.

12Ibid., p. 74.

13 Cfr. T. Todorov, «Poetica», in AA.VV., Che cos’è lo strutturalismo?, ILI, Milano 1971 [1968], p. 108.

14 L. Anceschi, Progetto per una sistematica dell’arte, Mucchi, Modena 1983 [1962], p. 46.

15 Cfr. E. Mattioli, Contributi alla teoria della traduzione letteraria, op. cit., p. 64.

16 Cfr. A. Lavieri, «Il canone della traduzione. Modelli, traduzioni e pratiche culturali», in R. Messori (a cura di), Tra estetica, poetica e retorica. In memoria di Emilio Mattioli, Mucchi, Modena 2012, pp. 217-226.

17 Cfr. F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Guerini e Associati, Milano 1989 (poi Marcos y Marcos, Milano 2004).

18 Dobbiamo a Emilio Mattioli l’edizione italiana di Literarische Übersetzung und Sprachbewegung di Friedmar Apel: cfr. F. Apel, Il manuale del traduttore letterario, a cura di E. Mattioli e G. Rovagnati, Guerini e Associati, Milano 1993 [1983]; F. Apel, Il movimento del linguaggio. Una ricerca sul problema del tradurre, a cura di E. Mattioli e R. Novello, Marcos y Marcos, Milano 1997 [1982].

19 H. Meschonnic, Pour la poétique II. Epistémologie de l’écriture. Poétique de la traduction, Gallimard, Paris 1973; H. Meschonnic, Poétique du traduire, Verdier, Lagrasse 1999.

20 Cfr. E. Mattioli, Ritmo e traduzione, Mucchi, Modena 2001. Mechonnic e Mattioli cureranno a quattro mani un numero monografico di Studi di Estetica dedicato al ritmo (n. 21, 2000); cfr. anche A. Lavieri, Esthétique et poétiques du traduire, Mucchi, Modena 2005.

21 Cfr. Cap. VIII, p. 165.

22 Cfr. A. Lavieri, Translatio in fabula. La letteratura come pratica teorica del tradurre, pref. di J.-R. Ladmiral, Editori Riunini, Roma 2007 (1a ristampa 2016). Cfr. anche S. Klimis, I. Ost, S. Vanasten (a cura di), Translatio in fabula. Enjeux d’une rencontre entre fictions et traductions, Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles 2010; K. Kaindl, K. Spitzl (a cura di), Transfiction. Research into the realities of translation fiction, Benjamins, Amsterdam/Philadelphia 2014.

23 Cfr. Cap. X, pp. 192-193.

24 Cfr. E. Mattioli, Contributi alla teoria della traduzione letteraria, op. cit., p. 7.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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