Argonautiche – IV, 1223-1304

trad. isometra di Daniele Ventre

Drepane il settimo giorno lasciarono. Vento impetuoso,
limpido, venne dal lato dell’alba; e dal soffio del vento
mossi correvano sempre più oltre. E però non ancora
era destino per quegli eroi di sbarcare in Acaia,
prima che fino agli estremi di Libia non fossero giunti.
Già si lasciarono dietro il golfo che ha nome da Ambracia,
già la regione Curetide, a vele spiegate nel volo,
e con le Echinadi stesse, altre isole in fila disposte,
strette, e da poco la terra di Pelope s’era levata;
ecco che allora con furia procella di Bòrea funesta
proprio nel mezzo del mare di Libia prendeva a sbalzarli
per nove notti e altrettante giornate, finché la profonda
Sirte raggiunsero, là, dove via non c’è di ritorno
per i vascelli, ove siano forzati a raggiungerne il golfo.
E dappertutto è pantano, per tutto è un fondale coperto
d’alghe, su cui senza un’eco si volge la spuma dell’onda.
Su fin nell’etere sorge la sabbia e a quel lido non viene
mai animale che strisci o voli. In quel luogo gli eroi
una marea –dalla terra infatti fluisce a ritroso
spesso quel flutto e di nuovo si leva e con impeto piomba
contro le coste –all’interno del golfo li spinse veloce,
fin nel suo grembo, nell’acqua restò poca parte di scafo.
Giù dalla nave balzarono e angoscia li prese a vedere
l’etere e simile all’etere un dorso infinito di terra,
che si stendeva lontano e continuo, non un ruscello,
non un sentiero a distanza scorgevano, non un riparo
per i bovari, ogni cosa giaceva in un quieto silenzio.
L’uno con l’altro perciò si chiesero in tanta afflizione:
“Questa che terra si vanta mai d’essere? Dove i marosi
ci hanno gettati? Se avessimo osato, a dispetto d’angoscia
devastatrice, avviarci per quella medesima rotta,
oltre le Rupi; anche andando al di là del fato di Zeus,
era ben meglio morire tentando un’impresa grandiosa.
Ora che mai tenteremo, se qui ci costringono i vènti
a rimanere, anche un tempo esiguo? A tal punto il deserto
va dispiegandosi lungo una landa senza confini!”
Sì, così dissero: a loro angosciati nell’impotenza
della sventura, parlò Anceo il nocchiero in persona:
“Dunque moriamo d’atroce destino e non ha via di scampo
questa pazzia: si prepara per noi il dolore più cane,
nell’aggirarci per questo deserto, se pure spirasse
vento da terra: poiché se intorno mi guardo a distanza,
scorgo dovunque fangoso il mare e in gran parte anche l’onda
viene ad infrangersi sopra le bianche distese di sabbia.
E con violenza da tempo ormai si sarebbe spezzata
molto più in là sulla costa la sacra carena, dal largo
a trasportarla su in alto è stata la stessa marea.
Ora nel pelago quella precipita, solo acqua salsa
non navigabile stagna, che appena ricopre la terra.
Ecco perché di ritorno e navigazione già credo
ogni speranza intercisa. Un altro dimostri la sua
abilità: gli è concesso sedersi vicino alla barra,
se di partire ha la brama; però nessun giorno al ritorno
Zeus ha intenzione di compiere in coda alle nostre fatiche”.
Disse così fra le lacrime; e con il suo affanno concordi
erano quanti di navi sapevano. Il cuore di tutti
s’era agghiacciato, un pallore si stese d’attorno alle guance.
E come poi, somiglianti agli spettri d’anime nudi,
gli uomini in una città s’aggirano, quando di guerra
o pestilenza s’attendono il termine, o forse una pioggia
inesorata, che inonda a mille i lavori dei bovi,
o come quando talvolta effondono statue sudanti
sangue, o se immaginano di sentire mugghi nei templi,
o se magari dal cielo il sole conduce la notte
di mezzogiorno e lucenti nell’etere brillano gli astri:
sì, così allora gli eroi gran tratto sul lido disteso
si trascinavano errando. E subito buia la sera
precipitò: fra di loro offrendosi abbracci pietosi,
si salutavano in pianto, per poi consumarsi la vita
sopra le sabbie cadendo ciascuno in disparte, da solo.
E chi di qua, chi di là, andò ognuno a cercarsi un riparo;
e ricoprendosi il capo ognuno del proprio mantello,
senza mangiare né bere giacevano tutta la notte,
l’alba, in attesa di morte pietosa. E le giovani, a parte,
presso la figlia di Eeta gemevano insieme raccolte.
E come quando solinghi, caduti al di fuori d’un sasso
concavo, gemono acuti lamenti gli implumi pulcini,
o come quando sul ciglio del chiaro scorrente Pattòlo
destano i cigni la loro armonia, d’intorno la piana
rorida freme e non meno la bella corrente del fiume:
tali gli eroi, ricoperti di polvere i biondi capelli,
tutta la notte gemevano il loro pietoso lamento.

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daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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