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Omissis, di Carlo Bellinvia – con una nota di Davide Castiglione

Nell’uovo

Persona, non ti so aiutare

non ho per te un salvagente
né altro vestito
d’emergenza

– non ho mai festeggiato un matrimonio –

ti scorgo appena
e neppure ti conosco

però ti do un nome qualsiasi,
facciamo così

ti do un nome,

un nome che ti possa aiutare anche
in futuro, nel mondo;
ma, sai, un nome alla fine

è soltanto un manico con cui si dovrebbe
poter afferrare al bisogno
il tuo viso, che ora torna nel nulla
tra i ricambi di iddio,

per cui ti do un nome

visto che là i nomi
dei nostri compagni volano
via, sono stati cuciti male, un disastro
di madri e padri che non hanno

legato bene i nomi ai corpi dei figli, così
non si fa, così i nomi salgono e i corpi

affondano, madri e padri
che hanno fatto male il loro
lavoro di datori di nomi

 

 

 

Homo erectus

Ho scoperto il fuoco
il due settembre
millenovecentonovantasei,

avevo undici anni

papavero-petalo-rosso-fiamma
il probabile innesco,
secondo tutti secondo i vicini

comunque

il fuoco avvolse
la nostra Fiat Regata,

scendemmo in strada, un fumo

alto, da tossire forte

fino a rimboccarci il sangue
divenuto lungo

e largo, quindi: puro sforzo di polpa

meglio, di pomodoro

della stessa qualità
che macchiava nel novantadue
i teli bianchi, per strada

sopra gli uccisi che facevano
un’ora di sdraio

e altra scorza e altri ponti d’ombra
fabbricammo per rimanere;

fuggiva dal rogo

anche un piccolo pardo
dal pelo quattrocchi,

con la sua onniveggenza

oltre che predatore
di fiducia degli avi

quando erano animali orari,
al massimo annuali;

da lì, non avendo più altri modi
per sapere

presto ci affezionammo
al falso, al suo parassitare
essenza
e logica

nell’evacuare velocemente fatti
comodi, sicuri

oscillanti tra la nostra storia
e una Storia sempre latente

dietro lo sfondo-soggetto ch’è la specie:

accadeva un due di settembre
a una incerta Fiat Regata, divenire

la paesaggistica
ferita, lì per lì illeggibile e senza senso

eppure atto traboccante d’identità

con tutto quel segno

 

 

 

 

Ballata del provveditorato

I

Mamma lavorò
lavoricchiava non lavora

più – allo stato dello Stato

papà pure, e sedeva
sempre

sopra il brano
di una poltroncina in pelle
nera e tutta spartita;

una carcassa
tattica, dunque, fatta di animale scorso
e gommapiuma, e in più

lui mostrava all’infuori,
sulla strada,
due panni privati

che alla svolta dello scirocco
si mischiavano e si chiarivano,
rientrando in loro stessi:

verdebiancorosso

verdeverdebianco
rossobiancobianco

e su di un blu, due, tre punti gialli
sporcati

 

II

Soltanto lì sedendo, papà,

tu eri già abbondante
produttore
di simbolo, così vestito

in giacca grigia e cravatta
amaranto

senza altri squilli

né il bel possesso
di una mercedes o di un rolex,

mentre in città
un’altra cosa lasciava

il suo simbolo (sartorie
persuase a esplodere

nel divenire covi per il ciclo di certa oggettistica
da sparo oppure lavanderie automatiche
e pilatesche)

 

III

Cosa ti fecero, mamma,
che mi portasti

da documento sospetto
alla vita

mentre la gente dopo
anni d’uso ti indicava

da vita
a documento sospetto

documento, peraltro,
a firma di retrattili

colleghi tra vetro
sfaccettato

di ufficio, senza mai capienza
per la tua immagine

e anzi
specchio riflesso
chi lo guarda è un fesso (…)
fesso sei diventato

e il posto fisso

trappola

dell’umanamente,
del professionalmente

 

IV

Ostetricamente,

assistevi i tre fogli/figli
di una stampante Epson

mentre premevi il verde
e a capo

nell’invio di una pratica
del tutto decorativa

scritture pensili che come albe
aprivano una vecchia olivetti

soltanto tua, pianola giocattolo

o triste carillon: sonoro

di quei giorni, se alle sette
di una mattina di maggio,

fatta di cenni ignorati, non letti

bene nell’androne tra scale
e ascensore, papà
rimase spalle al muro

contro due, torre e cavallo

omissis

con la loro miserabile

ginnastica di pugni
e di calci e

omissis

per spiegarmi le regole
del gioco

P.S.

Re bianco muoveva in profilo
di funzionario c3

torre e un cavallo neri
che muovevano contro l’alfiere bianco in b1

il suo re tornava al suo posto
con una corona
di sangue e mollezze e

omissis

nei confronti del re
la sua regina bianca veniva
in soccorso in dirigenziale d1

omissis

intanto il re nero, scoperto, fuggiva
di tre posizioni in d3

omissis

il provveditorato cos’era
sempre stato, utenti

ovvero pedoni mangiati

dalla scacchiera
che si rivelava a se stessa

col visto
di tutti:
di tutti,

vostro
vostro onore
onore

 

*

 

Su Omissis di Carlo Bellinvia

di Davide Castiglione

Questa sequenza di inediti di Carlo Bellinvia si pone nel segno del negativo fotografico, della mancanza, della rimozione: omissis, ovvero cosa taciuta, omissione (anche di soccorso, in senso lato: “Persona, non ti so aiutare // non ho per te un salvagente / né altro vestito / d’emergenza”, recita lo struggente incipit di Nell’uovo). Intertestualmente, il termine potrebbe richiamare, per l’uso del latino e per la convergenza semantica, almeno Res Amissa di Giorgio Caproni e la poesia Cetera desunt di Bartolo Cattafi. Ma se in questi due classici del Novecento la cancellazione del mondo è legata a una crisi gnoseologica, in Bellinvia scaturisce piuttosto da un trauma personale tanto psichico quanto di origine sociale o comunque esogena, evidente nel recupero memoriale di atti di intimidazione criminale subiti (“il fuoco avvolse / la nostra Fiat Regata”) e di mobbing e ostruzionismo sul lavoro (La ballata del provveditorato). A livello più astratto e generale – di poetica piuttosto che di riferimenti puntuali – intuiamo la forza d’urto del trauma dal tentativo di aggirare in qualche modo la stessa ispirazione confessionale e autobiografica (e con essa anche il rischio di un naivismo ingenuo). Tale aggiramento si pone all’insegna di uno straniamento figurale e tonale che non è effetto strategicamente localizzato quanto materia sostanziale della voce narrativa, qualità intrinseca della sua visione; e infine carta d’identità umana e letteraria dell’autore stesso. Rimozione e omissione si traducono, sul piano compositivo, nel procedimento principe dell’ellissi. Vengono cioè messi in rilievi alcuni frammenti verbali affogando il resto, il grande non-detto, in un bianco tipografico che non è affatto evocazione simbolista ma contrappunto drammatico, figura dell’omissione violenta che rende impossibile ogni organicità discorsiva e che eppure preserva uno splendore quasi brutale in quello che si è salvato.

Uso il verbo “salvarsi” in senso anche letterale: in Homo Erectus si allude a un incendio temporalmente localizzato (“il due settembre / millenovecentonovantasei”) e di probabile stampo doloso (“il fuoco avvolse / la nostra Fiat Regata”; “fuggiva dal rogo // anche un piccolo pardo / dal pelo quattrocchi” – dove “pardo”, seguendo le indicazioni dell’autore, indica “il gatto libero e selvaggio, che si autodetermina”). Non è tuttavia possibile lasciare schiacciati sulla lettera questi referenti: la loro valenza allegorico-simbolica appare infatti chiara sin dal principio, con l’istituzione di un parallelo rischioso ma suggestivo fra la specie e l’individuo, fra filogenesi e ontogenesi; parallelo che può forse richiamare l’Andrea De Alberti di Dall’interno della specie (2015), nel quale però prevale una coesione e fiducia discorsiva quasi agli antipodi del procedere franto di Bellinvia. La scoperta, o meglio il controllo del fuoco durante il paleolitico circa un milione di anni fa (ma la datazione è comprensibilmente controversa) rappresenta una soglia di maturità, un punto di non ritorno per l’Homo Erectus; per l’individuo nel ’92 rappresenta un evento forte ma illeggibile (“la paesaggistica // ferita, illeggibile e senza senso”). Come per la forza di gravità, possiamo solo osservarne gli effetti sul testo: vi divampa infatti un catalogo associativo del rosso, che esonda voracemente in tutto il testo (“papavero-petalo-rosso-fiamma”, e poi “sangue” e “pomodoro” – ma “papavero”, come ci informa l’autore, è anche “il classico “potente mandante” che incendiò la Regata per vendicarsi” – la natura del mandante si irradia così direttamente nel suo effetto distruttivo). Si potrebbe ipotizzare che questa marchiatura possa anche alludere alla vocazione/possessione poetica: “traboccante d’identità // con tutto quel segno”. Il segno resta semioticamente indecifrabile, e però costituisce un atto di presenza, di affermazione della propria potenza – antitetica ma non meno forte di quella del mandante criminale.

L’identità, il ritagliarsi una propria forma nell’indifferenziato del mondo attorno, può tuttavia avere un prezzo alto: nella III sezione della bellissima Ballata del provveditorato, la madre che partorisce si mutila per fare spazio al figlio. In un rovesciamento crudele ma lucidissimo, l’embrione si ritrova promosso da “documento sospetto” di una ecografia alla “vita”; ma la madre, in un chiasmo doloroso, si ritrova degradata dalla “vita” a “documento sospetto”. Come per le leggi sulla conservazione dell’energia, anche la quantità di vita né aumenta né diminuisce: si travasa soltanto, e tragicamente ci sarà sempre chi ne perde. Tornano alla mente le parole amare di Simone De Beauvoir: nel dare alla luce i figli, la madre metaforicamente muore, avendo assolto al compito tirannico della specie. Qui però la degradazione inflitta è soprattutto sociale, sono gli altri nel mondo organizzato: una donna che ha partorito si ritrova inabile al lavoro, e a firmarne l’emarginazione sono “retrattili / colleghi” – dove “retrattili” icasticamente suggerisce una connotazione di viscida perfidia e vigliaccheria. Il nesso fra vita e ufficio, fra procreazione e sostentamento, si coagula più oltre nella metafora della madre come stampante, coi fogli-figli da assistere. Al di là del richiamo paronomastico, è stato in effetti ipotizzato (dal biologo ed evoluzionista Richards Dawkins) che condizione primaria per lo sviluppo di forme di vita su altri pianeti sia la presenza di replicatori, cioè di dispositivi che possano creare copie di sé. Culturalmente, però, la copia porta in sé il rischio della ridondanza, del superfluo: per questo la maturità richiede sempre uno strappo dal troppo simile a sé.

C’è insomma, in questa suite che ha già una sua forte progettualità e connotazione ma che potrebbe con profitto espandersi e svilupparsi, un discorso spietatamente confessionale ma che, al tempo stesso, si fa analisi a-sentimentale e a-narcisistica: non si indulge elegiacamente nel proprio passato per evocarlo, ma lo si attraversa dolorosamente per comprenderlo. Il padre produce simboli altisonanti e castranti; la madre è vittima ma il figlio, come carnefice innocente, non può offrirle che accenti di pietas nell’allocuzione (“Cosa ti fecero, mamma”, Ballata del provveditorato III). Il pessimismo caustico di Philip Larkin (“They fuck you up, your mum and dad”, This Be the Verse) si trasforma in Bellinvia in un rimpianto accorato ma che trattiene la stessa sostanza accusatoria di Larkin: madri e padri non hanno “legato bene i nomi ai corpi dei figli, così / non si fa” (Nell’uovo). Il compito della nominazione allora, spesso ridotto a vieto cliché neo-orfico in autori epigonici, spetta al poeta come risarcimento, ricucitura del proprio stare, fratturato ma tenace, in un mondo che ancora non riconosce come suo ma con il quale fa continuamente i conti.

 

*

 

Carlo Bellinvia è nato a Reggio Calabria nel 1985 e vive a Livorno. Nel 2006 ha pubblicato Per i vicoli, macellai di piccioni e spettri di carta per Cicorivolta edizioni. Nel 2013 è presente in Poem Shot vol. 1 a cura di Davide Castiglione su poesia2punto0. Nel 2014 ha pubblicato Il lastrico per LietoColle edizioni. Nel 2015 e nel 2017 è risultato semifinalista al Premio Nazionale Elio Pagliarani per l’opera inedita. Nel 2018 è tra i candidati per la selezione del XIV Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea. Nel 2019 ha ricevuto una segnalazione al Premio Lorenzo Montano per la prosa inedita.

 

(L’immagine: “Warum willst du überhaupt, dass man mich sieht?”, di Christian Lübbert)

 

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