Penisolario (guida segreta a una Liguria sotterranea)

di Marino Magliani

Il collante delle mie storie liguri è la vergognosa verticalità cui è stato sottoposto un io narrante sofferente di vertigini. Costretto all’esilio, la via di fuga dai carruggi e dai ponti in salita gli ha provocato una specie di euforia, o solo di corsa scomposta da poppa a prua, a bordo di un traghetto diretto ogni giorno in Corsica. Poi notturne esperienze da spiaggiato, lungo coste più o meno brave e isole, quando l’estate iniziava altrove, ad esempio attraverso pampe. Scorie e frammenti di verticalità millenaria, si posarono su un dunaio. A quel punto, mancava solo la scrittura del penisolario, la Liguria e le penisole della vita, progettata tanti anni prima a Carlos Paz, sulle rive del lago, che non ricordo quanto disti dalla città di Cordoba, ma non molto, considerando i grandi spazi australi.
Un giorno, un pomeriggio certamente, vagando, perché a questo officio si può dire mi dedicassi a Carlos Paz, ho conosciuto uno scrittore che poteva avere la mia età ora. Era uno scrittore di racconti. Qualche anno prima era stato in Europa per cercare – uso le sue parole – material por una novela europea, e tornato a Carlos Paz s’era stabilito sulle rive del lago, anzi del rio, dove aveva buttato giù alcuni incipit del suo romanzo europeo, e li aveva rigorosamente annegati nelle pozze di Carlos Paz.
Lo incontravo ogni giorno alla spiaggia, a una cert’ora della tardecita, io su quelle rive ci vivevo, dormivo sotto una barca, mi svegliavo nel primo pomeriggio e quando uscivo da là sotto gli spaggianti mi applaudivano, in seguito scroccavo le grigliate ai turisti, giocavo a calcio coi ragazzi sulla sabbia, mentre lo scrittore al lago ci veniva a fare il bagno – elegante mezz’ora di crawl alla Pereira, cui seguiva una mezz’ora di esercizi, il doccione, le spadrillas, le spalle al lago.
Un giorno lo scrittore di racconti che non riusciva a scrivere un romanzo mi invitò a casa sua a cena. Era sposato, padre di un paio di morochitos che gli scarabocchiavano fogli e libri. La moglie ci servì milanesas y papas nel patio, e ci versò del buon mendocino. Credo che se le passassero discretamente bene, la famiglia di lei possedeva delle case e dei campi nella provincia di Salta, con un manente a condurre l’azienda agricola. Quando, parlando, gli dissi che dormivo in spiaggia mi propose di sistemarmi in una baracca di sua proprietà, comoda, che dava sulla Sierra, con un buon letto e un bagno, il cucinino. Persino la stufa per quando a maggio iniziava a far freddo. Dissi che prima o poi, verso marzo, aprile, quando la temperatura cambiava, poteva venire a taglio. Ma io per quell’epoca tornavo all’estate boreale.
Mentre si digeriva e massacravano zanzare, rinfrescati dalla brezza del lago, lo scrittore preparò un mate senza zucchero, come piaceva a entrambi, e poi volle che gli parlassi della Liguria. C’erano suoni di rospi e rane.
La Liguria…
Tolto qualcosa sul mare e sugli ulivi, non avevo mai provato a raccontare a nessuno cose del genere, forse perché nessuno me l’aveva mai chieste. Così, il primo tentativo fu di selezionare cosa mancava alla Liguria. Laghi ad esempio non ce n’erano, c’era quello che noi chiamavamo lago ed era una pozza profonda del torrente, piena di canneti, serpi e rane, forse anguille. Gli dissi che non c’era nemmeno il mare in Liguria, cioè sì c’era, ma dal mio paese non si vedeva, bisognava salire in cima alle terrazze, sugli spartiacque e da lassù scoprire che in fondo, dove terminava il corso del torrente, non si vedeva niente, e quello era il mare. Naturalmente non c’erano donne, gli dissi, e questa era la pura verità, per metter la mano nei raggi a una donna bisognava aspettare l’estate quando scendevano le tedesche in vacanza. Gli dissi che non capivo cosa ci trovassero di tanto bello i turisti, in Liguria, forse il clima, ma di gente ne arrivava ogni anno sempre di più, e non solo tedeschi, anche tanti francesi, perché la frontiera era a due passi, e inglesi, olandesi, tutta brava gente che si portava appresso figlie, mogli, cugine. Gli parlai degli ulivi, che formavano un bosco rugoso, all’apparenza, inteso visto da lontano, morbido, specie di zona replicante percossa da vento e luce. Replicanti (mi chiese cosa intendevo con quel termine inquietante; glielo spiegai) era perché certi ulivi giravano le foglie al vento e sembravano dei mutanti, agitavano fronde metallizzate, e gli provai a raccontare di quanto erano profonde certe vallate, e di come si snodavano le mulattiere, di torrenti secchi e scogli affioranti, e dopo un po’ m’accorsi che nell’abbandono gli stavo proponendo una realtà alla quale non credevo, inizialmente, neppure io, e che quella non era la Liguria che ricordavo, ma un posto inventato, il tentativo di ammucchiare tempi e spazi, ad esempio gli parlavo di un bosco di ulivi che visto da lontano era il tappeto morbido di muschio azzurro, e di vallate che assomigliavano a casse toraciche, di costoni dai quali, durante le alluvioni, si staccava la terra e si vedevano le rocce lisce e nude come le scapole di una scimmia. E gli descrissi altre mulattiere che fungevano da spine dorsali di grandi bestie sdraiate, enormi scogli pieni di lichene che da bambino avevo deciso fossero schiene di balene sofferenti di una malattia della pelle.
Gli parlai di queste cose, tutte quante terribilmente liguri, o liguriamente terribili, che ora, non bevendo da anni mendocino tinto, fatico a mettere assieme.
Il pomeriggio seguente, e da lì in avanti, fin quando non andai a vivere nella baracca (saltai l’anno dell’estate boreale) e poi trovai un po’ di soldi per trasferirmi nel nord del Cile, doveva faceva comunque un buon caldo anche a maggio, rividi lo scrittore. Fin quando ci fu possibile, nuotavamo dalla riva a una boa (lui mi insegnava i movimenti eleganti del crawl), tre o quattro volte avanti e indietro, riposandoci ogni tanto sul tavolone traballante, e poi all’ultimo ci stendevamo sulle rocce.
Ogni volta che ci sdraiavamo a guardare il cielo nel ritaglio della Sierra – era una richiesta che attendevo ormai dopo ogni nuotata – voleva gli raccontassi altre storie liguri. Succedeva anche quando mi ero spostato a vivere nella baracca, e la loro donna di servizio a colazione mi portava il mate e media lunas, che sono più o meno dei croissant, mi pare di ricordare, e poi raggiungevo lo scrittore in veranda per un buon almuerzo. E così, mi pare di capire ora – come di una cosa che non esiste ancora ma di cui si è sicuri, come di un nascituro di cui si decide per tempo un nome – che a quei racconti che non avevo ancora scritto, avevo già dato un titolo. Glielo dissi: si chiameranno Los relatos de una Liguria sucia. Bien tanito – mi chiamava così, tano in Argentina significa italiano – es un titulo barbaro. Ma perché la Liguria sporca, volle sapere. Così, dissi. Forse perché in Liguria vivevo in un posto dove la spazzatura si gettava dal ponte in salita, all’ingresso del paese, e due volte l’anno la piena se la portava via, forse la ragione era quella, dissi. In realtà non sapevo perché, ma fin dal momento in cui mi era venuta in mente La Liguria sucia m’era parso un buon titolo.
Mentre ora, che la raccolta ospita anche racconti olandesi, Liguria sporca non basta più, sono storie di strada, strette e buie come carruggi, o larghe come le autopistas argentine. Storie di frontiere. E iniziò tutto a Carlos Paz, nel senso che per la prima volta sulle rive del lago ho pensato che in fondo, le cose che sognavo e che per tanto tempo non avevo mai capito cosa fossero, erano racconti.
Ma ora che non so più nemmeno quando li ho scritti, dopo aver pubblicato quelli di Carlos Paz e altre mitologie private, se mai un giorno uscissero anche questi, uno dei titoli potrebbe essere proprio Penisolario, o Guida segreta a una Liguria occidentale e sotterranea.

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1 commento

  1. La Terra che mi ha dato luce rimane sempre dentro, come un substrato inestirpabile, inoculato di immagini sottili, sfuggenti agli occhi del più potente microscopio. Eppure sono lì, non spingono, nel catalogo torboso: donne, bambini, uomini, vecchi, fiumi, alberi, uccelli, colori, voci, orizzonti, montagne, bestie, scarafaggi, nuvole, pane, olio, vino, noci, scoiattoli, sirene, licantropi, ciclopi, giorni di sole, contadini, marinai, tuoni, arcobaleni, venti freddi, scirocco, santi, peccatori, preti, idealisti, filosofi, muratori, barche, pescatori, salsedine, pioggia, neve, marosi, sabbia. Schizzi di memoria conciati coi giorni del calendario in un catino color acqua marina. Cocci di storia vera, mai vissuta, realtà proiettata, mai arrivata. Poi, incontri uno straniero o un cercatore di storie che ti chiede della tua Terra di Luce, e succede il miracolo: il substrato germoglia, risveglia semenze sepolte, vivifica con linfa oratoria novizi alberi di parole, di accenti, di storie…

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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