S.P.Q.R.S.T.U.V.Z.

Sono Proprio Questi i Romani?

(a proposito della loro storia speciale)

di

Gigi Spina

 

Non so, e non ho voglia di informarmi, se mai sia stata resa con una formula interrogativa la famosa sigla SPQR sulla quale si sono e ci siamo sbizzarriti sin dai banchi di scuola, in genere in forma assertiva e perentoria, una volta scelta la voce verbale Sono (terza plurale, non cartesiana) come nascosta sotto la S. La P ha autorizzato aggettivi i più vari e fantastici, in genere connotanti in forma ironica e sfottente, se non affettuosamente dispregiativa. E poi Questi Romani, con la forza del deittico, ne ha testimoniato la permanenza ostinata, forse lo stesso non poterne fare a meno.

La domanda sorgerebbe spontanea, ma con una sostanziale risposta affermativa (magari anche Questi), una volta terminata la lettura del vivacissimo libro di Giusto Traina, La storia speciale. Perché non possiamo fare a meno degli antichi romani, Laterza, Bari-Roma 2020.

In realtà, dopo la fortunata stagione dei libri sulle lingue e le culture classiche che si sono affollati dal 2016, contribuendo anche al dibattito sul liceo classico e sulla prova di traduzione, sembrava che ci fosse un momento di pausa. Li elenca in gran numero e ne parla Silvia Stucchi, nell’introduzione (Studiare latino: un incubo o un’opportunità) al suo volume Come il latino ci salva la vita, Ares, Milano 2020, uscito contemporaneamente a quello di Traina, a segnare forse una ripresa anche se unidirezionale (latino e Roma) di quella riflessione. Salvare la vita potrebbe significare non poterne fare a meno. Se alla vita si è attaccati, naturalmente. Ma si tratta di due libri diversi. Quello della Stucchi, legato a un’esperienza di ricerca e didattica universitaria e anche di didattica scolastica, affronta con metodo e competenza i vari aspetti della cultura latina, letti e approfonditi con il filtro delle domande moderne, dei possibili intrecci fra somiglianze e profonde diversità: quella che potremmo definire la vita quotidiana delle culture antiche. Una panoramica ampia e ricca anche di dettagli, che sicuramente servirà di supporto a molti percorsi e incursioni nel mondo degli antichi romani.

Il volume di Traina si presenta, innanzitutto graficamente, al primo impatto visivo con la copertina, come allusivo a uno dei successi indubitabili (per numero di copie vendute, per diffusione internazionale e forse anche per inevitabili polemiche) della stagione prima descritta: il volume di Andrea Marcolongo La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, stesso editore, 2016. D’altra parte, nella prima delle Adnotationes (p. 175 s.), Traina spiega il possibile rapporto ‘genetico’ fra la Lingua geniale e La storia speciale – ricordo che proprio Andrea Marcolongo ha scritto una delle prime recensioni, molto numerose e positive, del volume di Traina, su tuttolibri della Stampa.

D’altra parte, basta cominciare a leggere, anche solo sfogliando l’indice dei nomi e l’indice generale, per capire che ci si trova di fronte a uno di quei libri e autori che, indipendentemente dall’argomento, scelgono di non nascondersi e di presentarsi con tutti i riferimenti espliciti alla propria presenza nella cultura moderna. Allora torno con la memoria a una recensione che scrissi al volume di Maurizio Bettini I classici nell’età dell’indiscrezione. Parliamo del 1995 (Einaudi, Torino); la recensione uscì sui Quaderni di Storia (43, 1996, pp. 325-329). Annotai questo particolare:

In una recensione filologicamente rigorosa non dovrebbe mancare una critica al fatto che il volume è privo di un indice dei nomi. Ma mi sembra di capire che si tratta di una scelta e non di una dimenticanza. Si racconta, infatti, che in un recente convegno sull’intertestualità greca e latina sia stato pronunziato, durante un intervento, il nome di Francesco Guccini. Sembra anche che un austero filologo sia stato visto sobbalzare sensibilmente. Ora, nel volume di Maurizio Bettini, filologo, antropologo e ‘curioso’ a tutto campo, si possono leggere, non raccolti in indice, i nomi di Maurizio Costanzo, Fabiolo, Marcello Mastroianni, Walt Disney, Aldo Biscardi, Antonio Di Pietro, Renzo, uno degli ultimi barbieri (figura tipicamente plutarchea e ateniese) chitarristi d’Italia ecc. ecc. C’è anche un nome inventato (per confessione dello stesso Bettini, p. 9 n. 3), Eleanor Sherving, che non è, dunque, la protagonista del film Fabiola.

Ecco, mentre confesso, ma non è la prima volta, che fui io a pronunziare il nome di Guccini in quel convegno, devo constatare che qualcosa è cambiato, e credo positivamente, negli ultimi 25 anni, se è vero che nell’indice dei nomi Traina può tranquillamente annoverare Astérix, guerriero gallico; Berlinguer, Luigi; Berlusconi, Silvio; Blasetti, Alessandro; Cattivik (uaz! uaz!); Di Canio, Paolo; Di Maio, Luigi; Johnson, Boris; Lombroso, Cesare (mai troppo lodato); Massenzio, imperatore (o usurpatore a seconda dei punti di vista); Obélix; Taylor, Johnnie; Zingaretti, Nicola ecc. ecc.

Dunque un volume sicuramente spigliato e divertente, dedicato, fra gli altri, alla signora Giuliana Longari, anzi Toro in Longari, eroina di Rischiatutto.

Potrei definirlo un volume meritoriamente divulgativo, se non sapessi che la pratica della divulgazione necessita ancora di un aggettivo, alta, per poter essere ammessa nel sempre più ristretto empireo dell’accademia giudicante (non mancano esempi recenti nelle valutazioni per la docenza universitaria). La divulgazione senza aggettivi, invece, se è tale, è l’unico debito che la ricerca può pagare alla comunità che la sostiene, offrendo continuamente i risultati delle proprie acquisizioni in una forma e un linguaggio alla portata del maggior numero di lettori e lettrici. Soprattutto in un momento in cui la divulgazione che fanno giornali, reti televisive e social è spesso (spesso, non dico sempre) rovinata dalla fretta, dalle esigenze di audience, dalla sciatteria, dalla incompetenza di cattivi comunicatori. Col rischio, dunque, che alcuni utili risultati di ricerche, in tutti i campi, siano schiacciati fra circolazione elitaria e sofisticata e circolazione vasta e inefficace.

Giusto Traina affronta invece di petto il problema. Innanzitutto nella ripartizione dei capitoli, con titoli tutti affidati a frasi celebri e diffuse della cultura romana, di quelle che troviamo spesso nel linguaggio dei giornali e delle personalità in vista, non solo politiche. Sono in tutto XVII (numerazione rigorosamente romana), cioè diciassette capitoli con le Adnotationes finali, che forniscono al lettore, senza un sistema di note definito e numerato ad hoc, verrebbe da dire, cioè né a piè di pagina né in fondo al volume, i riferimenti bibliografici, gli autori delle citazioni criptiche, insomma quell’insieme di detti e fatti da spiegare meglio su cui ci si sarà interrogati durante la lettura. Un sistema, questo, che ha preso molto piede nei libri, appunto divulgativi, perché evita che il flusso di scrittura/lettura venga continuamente interrotto dal rinvio alla nota (a una lettura, cioè parallela e anche scomoda se piazzata in fondo al volume) e in qualche modo costringe lo scrittore a contenersi, a essere sempre chiaro, esauriente, mai ammiccante o allusivo. Quando si arriverà a limitare la nota al solo, spesso necessario, breve e puntuale rinvio bibliografico (anche per evitare di essere accusati di plagio) e si riuscirà a trasformare in scrittura organica interna al testo la riflessione minuta della nota, forse si sarà fatto un passo in avanti nel rapporto fra chi scrive e chi legge. Osservo, intanto, positivamente che, nella situazione di isolamento durante la pandemia, il volume di Giusto Traina ha visto anche una utile diffusione on line di interviste, presentazioni, dibattiti, suggerendo un modo sicuramente proficuo da riadattare anche in condizioni di normalità.

Ma torniamo ai capitoli: al terzo posto troviamo il nostro S.P.Q.R. Trovo opportuno, però, citarli tutti, anche perché, attraverso queste pillole sentenziose si compone il quadro del percorso indicato da Giusto Traina nella storia speciale. I passaggi da un capitolo all’altro sono spesso televisivi (inutile spiegare) o fàtici, cioè capaci di riferirsi al rapporto con chi sta leggendo in quel momento. Del tipo: c’est plus facile; non cambiate canale; se voltate pagina; lo vedremo nel prossimo capitolo. O forse no; Difficile da dire, diamo comunque un’occhiata; Peccato che non ci sia più spazio per raccontare anche questa storia, ma perché non darne almeno un piccolo assaggio?; Ma le pagine scorrono, ed è giunto il momento di congedarsi; E finisce qui. Exeunt omnes.

Che è la fine del capitolo XVII, intitolato, qualcuno/a l’avrà indovinato: Exeunt omnes.

Torniamo ancora una volta all’inizio. De te fabula narratur, giustamente incipitario, perché il te siamo noi, noi moderni, almeno noi europei, ma non solo; perché quando si dice Romani non è lo stesso di quando si dice Greci: i Greci delle varie città sono ciascuno straniero all’altro, i Romani tendenzialmente no. E quindi se è di noi che si parla e si racconta, Giusto (lo conosco, posso permettermelo) ci tiene a stabilire parentele, affinità e anche idiosincrasie: gli ellenisti sono cuginastri; cugini, invece gli antropologi, che però non lo convincono del tutto. II. Historia magistra vitae, che naturalmente vale una volta che si sappia cos’è la storia, come la si possa raccontare da contemporanei e, soprattutto quando, come Giusto, non si è proprio ciceroniani. Mi viene da riflettere: a noi ci ha rovinato Zemeckis, con Ritorno al futuro. Perché aver immaginato di poter vagabondare avanti e indietro nel tempo dà poteri impensabili, capacità censorie ingolosenti (per dirla con i cronisti di tennis), impunità protette. Giusto si sottrae a questi pericoli, pur sapendo viaggiare bene nel tempo, perché si basa su un’ottima lettura delle fonti e su un non malcelato orgoglio del mestiere di storico. IV. Civis Romanus sum, che serve a non fare confusione sul ius soli e a non abusare della storia antica. V. Aut Caesar aut nihil, motto tre-quattrocentesco, che forse in questi giorni di iconoclastia serve a tenere i piedi bene per terra, pensando a come è cambiato nel tempo lo stesso concetto di rivoluzione. VI. Roma caput mundi, ovviamente fra elogio e vituperio. Ecco, a voler essere pignolo, nella adnotatio a questo capitolo avrei aggiunto ai riferimenti felliniani R. De Berti, E. Gagetti, F. Slavazzi, Fellini-Satyricon. L’immaginario dell’antico, Cisalpino, Milano 2009. VII. Si vis pacem, para bellum, capitolo affascinante per i continui vai e vieni tra passato e futuro (dei Romani) e soprattutto per la facile constatazione che essere contro la guerra non impedirà mai di essere polemici (in senso questa volta greco). VIII. Homo sum: humani nil a me alienum puto, che messo in connessione col capitolo precedente sembra stridere, ma solo per chi non abbia letto anche il bel volume Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019, del cugino Maurizio Bettini (più che cugino, perché latinista oltre che antropologo). IX. Graecia capta ferum victorem cepit, famoso verso oraziano che, adattato all’autore che, come si sa, insegna alla Sorbona e vive in Gallia, potrebbe essere riletto come: la Gallia, una volta sottomessa, ora può assicurare il magistero al vincitore di allora, pur essendo nel tempo stato sconfitto (mi riferisco alle guerre mondiali, naturalmente). Al di là della battuta su possibili e residui sciovinismi nazionalistici, è il capitolo che serve meglio a orientarsi e a dare strumenti critici anche nelle odierne contese fra culture, fra antichi e moderni, fra colonizzatori e colonizzati, fra abitanti al di qua e al di là degli oceani, e quindi ecco subito: X. Mare nostrum. Che si collega a XI. Imperium sine fine e alle alterne vicende di un impero in espansione ma non immune da sconfitte e disastri, come quello indicato nel XII. Vare, Vare, redde mihi legiones! Impero che presentava come altro lato della medaglia (o del sesterzio, se vogliamo essere più precisi) il bisogno di un’identità ristretta e forse sicura: XIII. Ubi bene, ibi patria. Ci avviamo alla conclusione, segnalando monumentali esperienze e competenze concrete: XIV. Fabricando fit faber, con la ripresa delle discussione sulla “idea pessimistica di una stagnazione tecnica e scientifica dei Romani”, cui Giusto è particolarmente attento avendo curato importanti repertori di letteratura scientifica e tecnica greca e romana. Anche per XV. Pro aris et focis possono valere studi recenti che hanno indagato sul politeismo antico, sulla accoglienza delle divinità altrui e sul reale peso della religione con tutti i sui riti e le sue pratiche nella vita sociale. Senza fare a meno di ricordare che “a un certo punto l’impero romano divenne cristiano e moltissime cose (ma non tutte) cambiarono”. E fu proprio un “dottissimo autore cristiano di origine balcanica”, Girolamo, santo protettore dei traduttori, a chiedersi XVI. Quid salvum est, si Roma perit? “Rise and Fall” è la formula più spesso usata per segnalare la caduta di qualcosa che è stata in auge, come un Impero. Anche se oggi, spesso, varrebbe come formula di resilienza, parola cara a Giusto, quella inversa: “Fall and Rise”. Ma è giunto il momento già annunziato del XVII. Exeunt omnes e, quasi con una composizione ad anello, si esce perché è ancora di noi che si torna a raccontare, come nel primo capitolo.

La lingua dei Romani sembrava ad alcuni di loro povera rispetto alla greca, a un altro, invece (ma non lo nomino, perché non proprio simpatico a Giusto), perfettamente capace di rendere il pensiero di un’altra cultura. Aveva certo, rispetto alla famosa lingua geniale, alcune carenze: mancava il duale, eppure avevano escogitato i due consoli. E mancavano gli articoli, il che mi ha consentito di ipotizzarne uno e di inserirlo nella formula del titolo. Perché Quintiliano, il famoso maestro di retorica, ispanico di Calahorra, usava una bellissima metafora per sottolineare l’assenza degli articoli nel confronto col greco: noster sermo articulos non desiderat ideoque in alias partes orationis sparguntur – la nostra lingua non ha bisogno degli articoli: li ritroviamo diffusi in altre parti del discorso. La loro funzione si espande e si rivela altrove. Quindi i Romani ne potevano fare a meno. Anche se noi, secondo Giusto, non possiamo fare a meno dei Romani.

Forse l’ultimo passo laico da compiere consisterebbe nel rendere questa affermazione meno perentoria. Potremmo anche farne a meno, ma se proprio non possiamo, che almeno ce li raccontino bene, senza sovrapposizioni, senza attualizzazioni, complicati come erano.

Anche perché la prima persona a cui ho pensato leggendo il titolo del volume di Giusto Traina non è stata Totò, del cui latinorum pure sono appassionato e studioso. Oltretutto, leggendo di quell’Apuleio “mezzo numida, mezzo getulo” come non ricordare parte-nopeo, parte napoletano? No, ho pensato a Massimo Troisi. Che certamente avrebbe commentato: E sì, allora ne possiamo fare a più!

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francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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