Letteratura e mistica

di Francesca Caraceni

 

  1. Se c’è un termine che si sta riaffacciando sullo scenario collettivo, nel mezzo di tecnicismi medico-scientifici e statistico-numerici, quello è “mistico”. Variamente declinato in sedi e da intelletti diversi, come aggettivo o sostantivo, sembra che “mistico” sia stato rieletto a dispositivo culturale in grado di contenere, traducendolo nel presente, quanto di residuale fuoriesca dal computo e dall’analisi dei dati, o dalle dinamiche mutazionali di un RNA. E se c’è un termine davvero appropriato per delimitare l’incomprensibile orizzonte culturale che ci si para davanti, quello è proprio “mistico” perché, spogliato degli strati storico-semantici teologici e religiosi, il lemma trae origine da myein, “chiudere”, manifestandosi poi come aggettivo sinonimo di “nascosto”, “misterioso”, “invisibile”. Ben si capisce dunque come il termine qualifichi in essenza quel che istituzionalmente è definito il nostro “nemico” attuale, il virus; ancor più interessante è come questa invisibile presenza si sia manifestata, visibilmente, in forma di coatta invisibilità umana: un ritiro, un necessario permanere al chiuso, appunto. E necessariamente, se non altro per basilare proprietà transitiva, se non altro come conseguenza dell’autolettura del sintomo corporeo, questo tempo trascorso intra moenia potrebbe condurre la coscienza collettiva a rientrare dentro di sé e a tracciare nuovi percorsi di senso a partire da ogni individuale topografia interiore. L’individuazione di questi nuovi percorsi di senso, quando demandata giustamente alle scienze filosofica, antropologica, linguistica, non può certamente escludere le metodologie e gli approcci in causa alle scienze letterarie le quali sono, specialmente in questo momento e grazie alla dimensione interdisciplinare e storicistica che le contraddistingue, uno strumento fondamentale e necessario per una lettura critica del dato di realtà. Bisognerà allora iniziare dalla banale constatazione che, pur proliferando il discorso tecnicistico e pur risorgendo quello spirituale e religioso come logica sua controparte, l’alveo metaforico nel quale s’inscrivono di prassi questi nostri strani giorni sia quello della guerra; guerra mondiale del ventesimo secolo, s’intende, ma questa nostra è una strana guerra globale che con quelle passate condivide unicamente il paradigma del cambiamento di scenario e della rottura di equilibri. Proprio tale paradigma è, secondo Michel De Certeau, un ricorso storico che manifesta e rafforza il discorso mistico, volto com’è alla ricomposizione di un Io frammentato nel Tutto divino, specie in “regioni e categorie in via di recessione socio-economica, sfavorite dai cambiamenti, marginalizzate dal progresso o rovinate dalle guerre” (Sulla Mistica, Morcelliana, Brescia 2010, p. 50). Varrà la pena, allora, imbastire un percorso di senso che dal Novecento arrivi fino a oggi, osservando come pure le arti cosiddette “moderniste” abbiano fatto ricorso, sullo sfondo di una scena dominata dalla visibilità dell’orrore bellico, a pratiche e stilemi volti alla rappresentazione del reale inteso come invisibile universale.
  2. La basilare proprietà transitiva per la quale ogni fenomeno invisibile trova una sua manifestazione nel sensibile è stata detta da San John Henry Newman (1801-1890) “sistema sacramentale”. Il teologo, filosofo e letterato inglese, convertitosi dal culto anglicano a quello cattolico nel 1845, derivò quest’idea dagli scritti del Reverendo Joseph Bulter (1692-1752), e in particolare dall’Analogia della religione (1736): dichiarò Newman nella sua autobiografia spirituale (Apologia Pro Vita Sua, 1864) che la lettura di quell’opera in giovane età lo condusse a sviluppare le fondamenta della propria teologia, la quale si articola sull’idea che il mondo sensibile non sia altro che un “carattere (type) e strumento delle vere cose invisibili (real things unseen)”. Sensibile come sinonimo di visibile, e visibile come carattere tipografico, dunque: e in effetti Newman, che nella vesti di Rettore dell’Università Cattolica di Dublino non trascurò di sottolineare con forza il ruolo fondamentale che lo studio delle lettere ha nella formazione scientifica, scrisse molto di letteratura e poesia assimilando, per mezzo dell’analogia butleriana, l’uso umano delle lettere all’uso divino della Parola come strumento di Rivelazione. Non sorprende allora che il pensiero di Newman stia al centro esatto delle elaborazioni di metodologia artistica di uno dei giganti del Novecento, James Joyce (1882-1941), il quale lo definì “il più grande prosatore in lingua inglese”. Da Newman arrivano a Joyce certe rielaborazioni dell’estetica platonica che vogliono l’arte come personale messa in forma del principio trascendente; da Newman arriva a Joyce un’originale interpretazione, in chiave cattolica e davvero mistica sensu proprio, della soggettività della fede intesa come dialogo e affezione interpersonale fra credente e Dio (Myself and my creator, dice Newman nell’Apologia); dunque da Newman arriva a Joyce un fondamentale principio di religiosità dell’arte, e della creazione artistica come conseguenza della rivelazione mistica. Joyce essendo uno dei principali punti centrifughi ad aver rivoluzionato la letteratura dello scorso secolo, propongo di leggere certi stilemi di destrutturazione e ricomposizione formale propri dell’arte, plastica e letteraria, del primo Novecento come espressioni di una ricerca, non sistematica e sistematicamente trasversale, che può essere definita “mistica” la quale, a cavallo fra i due conflitti mondiali, ha teso a riconvertire il naturalismo fenomenico ottocentesco in un potenziamento del realismo, questa volta di stampo noumenico, rivolgendo lo strumento rappresentativo all’interno dell’uomo, nelle pieghe invisibili della sua mente quando si rapporta alla manifestazione trascendente.
  3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[…] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua […]. La sua è poesia, parole non langue […] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva. Si capisce dunque che il ragionamento escluda facili suggestioni tipografiche: oggetto dell’indagine è la radice del pensiero non articolato, quello spazio residuale, davvero filosofico e fuori dal tempo, che esiste tra forma e sostanza, tra parola scritta o detta e pensiero, tra contingenza e trascendenza. Si tratta di indagare la parola come elemento ritmico-mnemonico e, quindi, rituale-poetico. Si tratta, cioè, di recuperare la radice rituale della composizione letteraria perché, ci ricorda Stella, “Tutta l’arte ha un’origine rituale” (p. 95). Aver rintracciato e ri-codificato questa radice consente allo studioso di disincagliare Ulysses, ad esempio, dalle maglie di un pensiero critico che lo vuole da sempre “un caso eccellente di ‘metodo mitico’ sub specie eliotiana” (p. 86) e, soprattutto e finalmente, da una lettura dell’opera ancorata alla miope e parziale decodificazione morfologico-sintattica della parola scritta. “Non è retorico, non è formale, non è letterato il gioco di Stephen con il suono, con il soffio della parola e con le visioni che essa proietta. C’è piuttosto un’illetteratezza che ha a che fare con la forza della vitalità. […] la parola di Stephen […] entra nella Forma solo parzialmente […] sospesa tra il prima e il dopo […] della scrittura. In questo senso Stephen può dire: Rhythm begins, you see. I hear” (pp. 78-9). Per questo, in Joyce il mito è piuttosto il residuo testuale della memoria collettiva, una litter-a sulla quale aprire “un’epocale domanda sull’energia generativa della parola poetica. Una domanda autentica, sganciata dal tempo storico, e riannodata al movimento ritmico della creazione. Prova ne è quella sua scrittura che non è più scritta” (p. 83). Eppure questo, con le dovute modulazioni concettuali, è anche lo sforzo dei mistici tradizionalmente intesi: riportare nel visibile l’esperienza dell’invisibile, articolando la tradizione in “un linguaggio nuovo […], il linguaggio mistico è quello del tempo spirituale”. E questo tempo spirituale, corrispondendo al folgorante momento estetico dell’esperienza, davvero fuoriesce dalla storia e pretende che il linguaggio ne dica il senso adattandosi a esso: cioè, operando il proprio sacrificio: “Ogni esperienza […] comporta questi momenti. ‘Estasi’ personale, se si vuole, o esperienza collettiva di un gruppo sorpreso da ciò che accade in se stesso, illuminazione intellettuale in certi casi, brusca intuizione che sposta (senza che si sappia troppo ancora il come) l’organizzazione di una vita e il tipo di relazioni che si hanno con gli altri. Si è prodotta una breccia. Una irruzione apre una breccia. Tutto d’un colpo, è cambiato il paesaggio, con nostra sorpresa. Questo, è un luogo. Nell’esperienza individuale, come nella storia, vi sono momenti che fanno dire: ‘Dio è là’” (De Certeau, Sulla mistica, pp. 94 e 101-2).

 

  1. Qui, dove l’argomentazione di Stella vira sapientemente verso l’identificazione di questo spazio residuale con il principio femminile incarnato in Molly/Penelope e nella parola stessa, vorrei mantenere e approfondire il punto illuminandolo da un’altra prospettiva, e cioè guardare allo spazio ritmico e illetterato della scrittura joyciana come a una prassi, derivante da una metodologia figlia di una tradizione culturale e religiosa ben precisa che trova nella mistica la sua espressione letteraria più alta. Il passo di Ulysses citato da Stella è l’apertura del terzo episodio, quando il flusso di coscienza di Stephen Dedalus conduce il lettore in una vertiginosa meditazione sulla percezione del sensibile: quando l’“ineluttabile modalità del visibile” è dall’uomo esclusa (Shut your eyes and see, dice Stephen), appare ai sensi l’“ineluttabile modalità dell’udibile” nella forma del ritmo del mondo (A catalectic tetrameter of iambs marching). Stephen, lo stesso alter-ego joyciano che nel Portrait definirà l’arte nei termini di un rito, e l’artista nei termini di un “prete” (a priest of the eternal imagination); lo stesso che metterà a sistema il fondamento dell’arte nella percezione estetica del Bello (a spiritual state very like to that cardiac condition which the Italian physiologist Luigi Galvani […] called the enchantment of the heart); Stephen, dunque, in quel passo intende trascendere il sensibile per arrivare a quel “piacere estetico” (aesthetic pleasure, sempre nel Portrait) che sopraggiunge solo quando i sensi sono stati condotti alla quiete: that is why mystic monks. […] Gaze into your omphalos; e Stephen vuole trascendere e arrivare a quel piacere estetico, che in vulgata si conosce come “epifania”, poiché è quello che accende la creazione artistica. L’epifania joyciana, meglio definita, manifesta sì il divino nel sensibile, eppure non nella forma, non nel linguaggio: entrambi sono mezzi attraverso i quali l’artista riproduce l’ineffabilità rivelatrice di una Condition of the Heart che non necessita di un’articolazione intellettuale poiché appunto appartiene al cuore e, come giustamente nota Stella, al quel primo ritmo creatore sempre rimanda. Compito dell’artista è proprio quello di agire sulla forma e sul linguaggio, disarticolandone le strutture ordinatrici, per fare in modo che questo ritmo mistico, nascosto dall’ineluttabile velo sensoriale, si riveli agli occhi di chi guarda, alle orecchie di chi ascolta. Perciò la lettera, il type newmaniano di cui sopra, in Joyce diventa dato sensibile e materia plastica analoga al canonico tòpos costituente il canonizzatissimo materialismo joyciano: il corpo. Ma la tradizione mistica vuole proprio il corpo come luogo primario ove l’entità a-soggettiva si rivela, senza mai identificarsi, senza mai rivelare il proprio nome, attraverso segni, ferite, accensioni del cuore: “Non basta riferirsi al corpo sociale del linguaggio. Il senso ha per scrittura la lettera e il simbolo del corpo. Il mistico riceve dal proprio corpo la legge, il luogo e il limite della propria esperienza” (De Certeau, Sulla mistica, p. 64). Da qui proviene l’altissimo grado di scomposizione linguistico-formale proprio dell’arte letteraria joyciana, e non solo: si pensi alle manipolazioni plastiche del linguaggio comuni a molti modernisti tutte intente a manifestare, ad esempio, l’immagine poundiana, il luminous halo woolfiano, i fragments e le ruins eliotiani. Sono modalità espressive che, a ben vedere, indicano nella scomposizione della forma le feritoie che aprono alla manifestazione trascendente; costante e comune a ogni esperimento è l’intenzione di rivelare l’ineffabile, ciò che è oltre il linguaggio: oppure ciò che lo precede e che, quindi, non é. In certa misura, e mi si perdonerà l’ardire, è possibile affermare che gran parte dell’arte contemporanea dal modernismo procede e del modernismo è conseguenza: a partire da quel post-, prefisso che a partire dal dopoguerra non autodetermina alcunché ma pretende di spiegare se stesso in relazione a ciò che è stato, le feritoie sul senso aperte da Joyce, che del modernismo può ben dirsi essere il gran maestro, si sono rizomaticamente moltiplicate in una sequenza sincronica e diacronica di sperimentazioni formali i cui esiti spingono fino al presente più prossimo. Joyce, che infine volle restituire la voce alla muta epoca tipografica e per questo scrisse Finnegans Wake, da molti è indicato come il progenitore assoluto di qualsiasi esperimento multimediale nelle arti, dai Novissimi fino alla resurrezione popolare della poesia recitata a viva voce nel poetry slam: ma con ciò non s’intende che la sua opera concorra alle colpe per l’attuale ancillarità del testo scritto rispetto all’immediata vocalità del mezzo digitale. Piuttosto, la sua fu una preconizzazione, fu l’indicazione di una direzione da molti intrapresa e da altri, purtroppo, largamente fraintesa. Fulgido genio, e perciò da sempre soggetto a iperletture intellettualistiche che lo vogliono aderente a qualsivoglia ideologia faccia più comodo al presente storico in cui è letto, Joyce l’irlandese fu il figlio spirituale e prediletto di un cardinale cattolico inglese e di una solida formazione gesuita: la sua mistica dell’arte, da questi padri derivante, è deflagrata in un tempo bellico e oscuro, fra la conta dei morti, a far dire a Leopold Bloom che la forza, l’odio, la storia, gli insulti e tutto il resto non erano la vita adatta a donne e uomini. E a chi gli chiedeva cosa fosse allora la vita: Love, says Bloom.

*

Immagine: Giacomo Sandron, Landscape, 2017.

 

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5 Commenti

  1. Ho letto con interesse la sua riflessione. Trovo, tuttavia, che sia segnata da alcuni fraintendimenti. In particolare, l’opposizione tra “numeri” e spirito, su cui lei apre, non pare poter essere ritrovata negli “autori spirituali” di oggi, anzi: spiritualità e scienza (rimando, in senso esemplificativo, a un’intervista ad Aldo Nove da me diretta e apparsa su questo stesso sito) vengono spesso tenuti insieme.
    Trovo poi che una lettura del problema fatta con categorie esclusivamente occidentali sia, in una certa qual misura, anch’essa fuorviante – secondo alcuni, infatti, si potrebbe leggere il processo ora in corso come una “Easternalization” (Campbell – The Easternalization of the West), e non so se gli esempi che lei ha portato si adattino a descrivere il contesto contemporaneo (in cui il sistema dualistico delle “feritoie” sarebbe sostituito da altro, almeno in molti casi).
    Mi pare, infine, lei consideri la spiritualità in maniera assoluta, e non tenga in conto alcune delle caratteristiche centrali dei processi (individualizzazione del credere, messa in crisi delle differenza tra credente e non credente ecc.) che hanno coinvolto le società occidentali a partire dalla metà circa del secolo scorso. Insomma: quelle dell’oggi sono esperienze mistiche o spiritualità individualizzate?

    • Gentile Marco,

      questa è la sistematizzazione di un percorso di ricerca in Letteratura Inglese che sto svolgendo persso l’Università Cattolica di Milano, nella quale non s’intende gettare ponti a un’ermeneutica degli autori “spirituali” del presente. Piuttosto, il quadro di opposizione con cui apro vuol essere una riflessione, un po’ dicotomica se vuole, sulla compresenza di orientamenti epistemologici chiaramente esistenti i quali, come giustamente fa notare lei, sono di certo sussunti e superati in certi ambienti (ma non in tutti). Provo comunque a rispondere alla domanda con cui chiude, fermo restando il punto che questo scritto intende restituire una prospettiva sull’arte del primo Novecento, e in particolare su James Joyce, in relazione alla tradizione religiosa mistica, cristiana e occidentale (capisce bene che aprire a un’esplorazione della mistica orientale, che pure è presente in Joyce, richiederebbe lo spazio di un volume intero…). Nel risponderle, mi permetto di precisare che qui non tratto di spiritualità ma di “Mistica” intesa come teologia e tradizione letteraria volta alla descrizione del cammino dell’Anima nell’unione con Dio; la spiritualità è altra cosa, della quale non m’intendo e della quale in questo breve contributo non scrivo. E’ possibile che scriva in maniera assoluta della mistica perché sì, essa fa capo in modo assoluto all’esperienza come “momento oceanico” universalmente accessibile e messo in forma, raccontato cioé, con strumenti artistici individuali. Non è possibile giudicare quel che è nel cuore dell’altro; ma l’esperienza mistica, in genere, parla da sé attraverso l’autore, parafrasando De Certeau.

  2. RICORDANDO IL “MISTICO” WITTGENSTEIN (“L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”, Quaderni 1914-1916) E LA MADRE-LINGUA CHE VERRA’…

    “[…] 3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[…] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua […]. La sua è poesia, parole non langue […] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva” (Francesca Caraceni, “Letteratura e mistica” , cit. – sopra).

    SOLO “UNA SPONDA SICURA”, QUELLA DELLA “PAROLE”, NON BASTA. Se la Musa “non rispetta le regole convenzionali della lingua […] è poesia, parole non langue […] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura”, COME PUO’ PORTARE ALLA SPONDA DELLA “LANGUE”, “al centro del problema della generazione poetica” e, al contempo, ” rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva”?! Non è, forse, meglio ri-tornare sugli storici passi fatti fino al corrente antropocene, ri-seguire le indicazioni dei “profeti” e delle “sibille” e, ri-evitando gli edipici scogli di Scilla e Cariddi (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5556), portarci con l’Ulisse di Dante e Joyce, nell’oceano cosmico (Keplero) di una creatività antropologica (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4977) all’altezza del pianeta Terra? “Sàpere aude!” O no?!

    Federico La Sala

    • Credo dipenda da cosa s’intenda per letteratura -ossia quale si creda sia lo statuto ontologico della stessa. Se è considerata come manifestazione tipografica, ovvio che il discorso di Stella non regge. Ma se la si considera come opera multimediale nella sua natura, se cioé ammettiamo che i Bardi e gli Aedi, coi loro sforzi melopoietico-mnemonici facessero già letteratura…

  3. LETTERATURA E MISTICA: QUESTIONE ANTROPOLOGICA…

    Pur concependo la letteratura “come opera multimediale nella sua natura”, non per questo siamo fuori dall’orizzonte della “caverna” di “Poli-femo” e della “Re-pubblica” di Platone (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4114 ). Ulisse è morto (“infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”: Inf. XXVI, 142) e di Dante come di Joyce continuiamo a interpretare il loro racconto come il “racconto” di “prigionieri” della “caverna” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5728)! E a non comprendere che la “risposta” di Leopold Bloom (“Love, says Bloom”) come la “conclusione” del “viaggio” dantesco (“L’amor che muove il Sole e le altre stelle”: Pd. XXXIII, 145) è l’inizio di una “altra” Letteratura e di un’altra “Odissea” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5726) – quella” nello spazio” (2001), e non più nella “caverna” (390/360 a.C. )!

    “THAT IS THE QUESTION”: QUIS UT DEUS?! Detto altrimenti, CHI è come “Dio”?! O, che è lo stesso, CHI è il PADRONE della LINGUA?! O, ancora e diversamente, “CHI siamo noi in realtà?”(http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198). In principio era la “langue” – e le “parole”! O no?!

    Federico La Sala

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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