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Perdere il controllo

 

di Lisa Ginzburg

 

Julia von Lucadou (Heidelberg, 1982) ha costruito un notevolissimo romanzo (La tuffatrice (Die Hochhauspringerin) Carbonio editore, traduzione di Angela Ricci, pp. 252) tutto incentrato sul reciproco controllo come paradigma dominante. Non solo: la sua riflessione, con sapienza travasata e diluita in forma narrativa, si pone (e vince) una sfida supplementare, quella di descrivere l’inevitabile erosione di detto paradigma di controllo. Una disfatta sistematica  e pensata come sola possibile prospettiva salvifica.

La trama è acutamente limpida: un’atleta campionessa di tuffi dalle prestazioni sportive performative al punto da averla resa oggetto di massimo interesse e investimento da parte di diversi manager sportivi, cade in depressione. “Cade” in senso quantomai letterale: perché l’aitante giovane sprofonda in una condizione di spirito che è fatta insieme di misantropia e di un’abulia entrambe intrise di ottundente malinconia e (apparente) cessato  desiderio di vivere. Di colpo diserta gli allenamenti e fugge da ogni tipo delle varie sessioni di coaching, mostrando “un chiaro cambiamento di indole, di comportamento e dell’umore”. Così nelle schede descrittive che – ingaggiata dai manager sportivi dell’atleta – una psicologa del lavoro / allenatrice dello spirito scrive di lei nelle schede che è tenuta a redigere. Il punto di vista posato sulla sportiva in crisi (Riva Karnowsky il suo nome) non è però ravvicinato. La coach/psicologa  (Yoshida) sta appostata, nascosta, osservando la sua “paziente” attraverso video, filtri di lenti molto sofisticate, zoommate di teleobiettivi, comunque sempre da postazioni segrete così che quella non possa accorgersi di lei, secondo una prossemica tutta improntata sulla dimensione della distanza.

Già con questi ingredienti il romanzo conterebbe una “mise en abyme” molto originale (crisi del narcisismo competitivo osservata e riportata da lontano, senza contatto diretto e perciò amplificata nella sua distorsione). Non fosse che a ispessire il materiale romanzesco della vicenda si aggiunge un rapporto di specularità semi-simbiotica tra osservatrice e osservata: la stessa coach/psicologa “cade” progressivamente in una crisi di identità ed esistenziale persino più grave di quella dell’altra, la sua paziente oggetto della sua diagnostica quotidiana. L’universo in cui entrambe si muovono è – pur nella distanziazione – un universo angusto, quasi concentrazionario (non così lontano da certi scenari che l’attuale pandemia ha generato, con relative prossemiche anti-contagio in varie occasioni di una limitatezza spaziale o viceversa lassitudine di comportamento cautelativo cui corrispondono analoghe ristrettezze del pensiero). Secondo un organigramma inflessibile ai limiti dello spietato, la coach/psicologa Yoshida risponde a un superiore (Master) severo nei confronti dei tentennamenti della sottoposta, e che di continuo la sprona a non sgarrare rispetto alla disciplina che come osservatrice lei è tenuta a mantenere. Una ferrea metodica quotidiana composta di due dimensioni speculari e asintoticamente vicine a quelle cui, se fosse “in salute”, sarebbe tenuta l’altra – l’atleta. Vuoto mentale e cura del corpo, “mindfulness” e “fitness”. Ovvero, rendere tonico e smagliante il contenitore, e invece il più possibile aereo e poco consistente il contenuto. Su questo binomio antitetico, anche, fa leva la distopia concepita da Julia von Lucadou.

Perché il suo La tuffatrice racconta tra le altre cose la valanga metamorfica di una muda che coinvolge curatore e curato, controllore e controllato,  e la conseguente decostruzione di un monitoraggio simbiotico inteso come forma di vita e base imprescindibile di ogni relazione. Molto, tra Riva e la sua coach/psicologica a distanza della quale lei ignora l’esistenza, funziona esattamente come secondo lo schema dicotomico dei neuroni a specchio. Se pure nello scenario totalmente indiretto di web camera, micro chip video, riproduzioni audio a distanza e quant’altro dica di uno spiare nascosto, nella prima parte del racconto l’angoscia accorata da cui Yoshida, la psicologa, si sente progressivamente pervadere è riflesso diretto della depressione della sportiva Riva, sua paziente osservata da lontano. Quanto più Riva si abbandona alla propria rinuncia, mentale e fisica, esistenziale e professionale, tanto più Yoshida incomincia senza accorgersene consapevolmente a mettere in discussione il proprio stesso spiare, il senso profondo della sua professione. Inquietudine, la sua, che assume presto la forma più estesa  di una disobbedienza a un intero sistema. Il mondo del controllo ora la mette in crisi, e per metterlo in crisi lei altro non può che attraversare una profonda personale crisi. Attraverso una serie di “atti mancati”, gesti che sono autentici autosabotaggi (ma gravidi della determinazione assoluta che solo può pertenere alle istanze dell’inconscio), quello della coach  è un perdere il controllo volontario. Volontario e sovversivo: le costerà reputazione, salario e sicurezza economica, identità nel mondo, e peggio di tutto – in un mondo dove la reperibilità è tutto – sconnessione. Verrà radiata, ogni password del suo accesso all’universo del controllo, cancellata. Nel mentre, secondo una nemesi distopica anche quella, accanto alla sua disfatta, in parallelo, prenderà corpo la guarigione di Riva. Da un lato la terapeuta perde il bandolo, “lascia entrare il caos” così autoemarginandosi dall’asettica realtà in cui lavorava e si muoveva, dall’altro la sportiva intanto ritrova entusiasmo. Come tuffatrice riprende a tuffarsi, torna a provare l’orgasmo di quel momento del corpo assoluto per interezza, l’unico in cui senta di esserci tutta, scossa da una vertigine di lucidità e presenza a se stessa che, quella sola, sa regalarle una soddisfazione intima senza eguali.

Senza praticamente mai incontrarsi per davvero nella realtà, le due giovani donne conoscono un destino uguale e contrario. Con la sua battuta d’arresto esistenziale, la tuffatrice permette alla psicologa chiamata a “monitorarla” di disserrare le chiavi di una nuova visione, liberandosi dalla propria vita inautentica di “controllante”. Qualcosa di reciproco e di essenziale (un “filo d’oro”, per dirla con Jung) vincola le loro anime, in un patto che le allontana l’una dall’altra di più ancora nella realtà, eppure legandole, continuando a legarle in una telepatica corrispondenza “a specchio”.

La depressione della coach risulta a chi legge molto più energica e suggestiva della ritrovata salute della sua paziente tuffatrice. A tuffarsi per davvero – tuffarsi nella vita reale – adesso sarà Yoshida, la curatrice. Si termina di leggere il romanzo pensando così. Perché sottrarsi al monopolio della vigilanza onnipresente, perdere il controllo, rinunciare all’uso di un occhio clinico e in una continua ansia di prestazione da giudizio significa aprire altri occhi, puntandoli su nuove realtà. Realtà delle proprio cicatrici, come accade a chi si risolva a prendersi (sé stesso da sé stesso) in consegna. Così dischiudendosi a orizzonti più ampi e sapienti, quelli della libera autodeterminazione e della spontaneità, che non controlla più, decide una volta per tutte di smettere di farlo. E proprio perciò, per questa volontaria scelta di abbandono al flusso delle cose, alla naturale complessità del vivere, incomincia a vedere e seguire quel che in essa vale e conta per davvero.

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lisa ginzburg
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Lisa Ginzburg ha scritto i romanzi Desiderava la bufera (Feltrinelli 2002), Per amore (Marsilio 2016, Au pays qui te ressemble, Verdier 2019), Cara pace (Ponte alle Grazie 2020, candidato al Premio Strega), le raccolte di racconti Colpi d'ala (Feltrinelli 2006, Premio Teramo 2007) e Spietati i mansueti (Gaffi 2016, Premio Renato Fucini 2017), i mémoir Malìa Bahia (Laterza 2007), Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italo Svevo 2017) e Pura invenzione. Dodici variazioni su Frankenstein di Mary Shelley (Marsilio 2018). Collabora con Avvenire.
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