L’Anno del Fuoco Segreto: Il Periodo Balsamico della Bardana
La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.
di Giovanni Ceccanti
Arno, a cosa pensi prima di dormire?
Arno si girò dando le spalle a Mordirosso e al fuoco bofonchiando qualcosa di incomprensibile.
Non pensi proprio a nulla?
Arno non parlava. Arno per lo più bofonchiava.
Se dovessi scommettere qualcosa direi la fica.
Il fuoco scoppiettò.
Sì, tagliò corto. Prima di dormire penso alla fica.
Mordirosso si tastò con cura le gambe da cima a fondo e ricominciò.
È tanto tempo che non ne vedo una che non la riconoscerei neppure se me la sbattessero in faccia.
Mordirosso pensava che Arno dovesse essere stato un professore o qualcosa del genere perché ogni tanto parlava delle stelle o diceva cose tipo comburente o alienazione.
Non era gonfia come una sughera matura?
Non so perché ma penso a degli strati. Mi vengono in mente un sacco di strati.
La verità è che ci penso così tanto che non ci penso mai sul serio. Nel dormiveglia però si trasforma e si espande, invade gli spazi. Mi oscilla sopra la testa in sogni che non le appartengono. O forse sono io che invado i suoi.
Qualche volta è un’enorme pianta grassa nel deserto.
Arno teneva gli occhi chiusi cercando di vedere.
Per me è dappertutto. È nei serbatoi delle macchine. È quello che ordiniamo ai ristoranti. Sono le notizie di guerra.
Sì, le spine me lo ricordo ce le aveva. Gli strati no, gli strati non me li ricordo.
Pensa a una rosa o una lasagna.
Ti prego, non parlarmi di cibo.
Se me la sbattessero davanti adesso non saprei dove infilarlo. Con tutti quegli strati, come facevamo? Mi ci perderei dentro come un bambino.
Mordirosso si tastò le ginocchia.
Forse, nella vita prima, Arno era stato un professore o un cameriere in un ristorante. Uno prestigioso, però.
Ti ricordi che odore aveva?
L’odore no ma giurerei sulla consistenza.
Ne hai mai mangiata una?
Di giorno di solito Arno andava in città e Mordirosso lo aspettava guardando la silhouette degli ultimi palazzi spengersi contro il tramonto. Arno chiamava quella parte di mondo la frangia urbanorurale. Quando Mordirosso gli chiedeva perché non dormivano in città lui gli diceva che preferiva la frangia urbanorurale.
La frangia urbanorurale non era più città e non era ancora campagna. In città ci sono gli uomini, in campagna ci sono gli animali, spiegava.
E qua ci siamo noi, deduceva Mordirosso.
A volte, sempre alla stessa ora, soffiava un vento basso, che s’infilava ovunque, entrava nelle pieghe e faceva di pietra le coperte. Allora Mordirosso rabbrividiva e Arno metteva un altro legno sul fuoco e in maniera poco plateale soffiava nel punto giusto.
Attraverso le palpebre il fuoco era una macchia di luce dai bordi sfumati e Arno ci soffiava sopra senza farsi notare, quasi di nascosto.
Arno tirò un lungo sospiro.
La fica, ripeté.
Poi guardarono il nero del cielo mentre Mordirosso tentava inutilmente di afferrarsi i piedi.
All’alba furono svegliati da alcuni camion che facevano manovra oltre il crinale, dietro il bosco.
Rieccoli, disse Mordirosso.
Non sono quelli dell’altra volta. Questi hanno rimorchi più grandi, disse Arno alzandosi e coprendo la stufa con un paio di assi.
La stufa era una struttura di sua invenzione che permetteva al fuoco di bruciare più piano o più forte a seconda del bisogno.
Vado a controllare, disse.
Mordirosso annuì e lo guardò allontanarsi.
Iniziò a cadere una pioggia leggera, così leggera che sulle foglie non faceva rumore.
Quando la pioggia aumentò Mordirosso si trascinò sotto l’olmo. In quel punto, anche quando pioveva forte, l’acqua non poteva raggiungerlo. I rigagnoli formavano una O in mezzo alla quale la terra si era fatta lucida e compatta per l’abitudine.
I camion scendevano allineati nella cava. Venivano giù dalla strada battuta dalle ruspe nell’argilla rossa.
Una volta uscito dal bosco Arno aveva raggiunto il crinale e si era disteso a pancia in giù sull’erba, sporgendosi.
Man mano che arrivavano sul fondo della cava i camion si disponevano uno accanto all’altro e restavano accesi. Il rumore di tutti quei motori vicini rimbombava nella cava e usciva come un bolero per venire riassorbito dal muro di pioggia battente che cadeva dal cielo bianco.
Uno dei camionisti saltò giù chiudendosi la portiera alle spalle, il rumore arrivò ad Arno solo qualche istante dopo.
Indossava un’incerata verde militare lunga fino ai piedi. Il cappuccio aveva una tesa che gli copriva il volto. Il camionista si agitò davanti alle teste dei camion scandendo una serie di ordini, l’ultimo dei quali Arno dedusse essere perentorio, visto che tutti i motori si spensero.
Rimase il rumore della pioggia come il fruscio di una radio senza segnale.
Allora anche gli altri camionisti scesero e con la stessa incerata del primo si radunarono poco alla volta nel punto prescelto.
Arno non poteva sentire quello che dicevano. L’acqua gli colava giù dai capelli, nel collo e nella schiena.
Uno degli autocarri aveva una cisterna al posto del normale vano da carico e il simbolo dietro diceva merce pericolosa, il che poteva significare infiammabile, corrosiva, tossica o radioattiva.
La pioggia batteva sulle cabine e sui vani da carico.
Una rana con la pelle traslucida saltò sulla mano di Arno. Aveva ancora la coda da girino.
Arno non si era mai concentrato sulla forma della cava. Aveva però subìto la meraviglia delle sue dimensioni fin dalla prima volta che l’aveva vista. Quel vuoto era così vasto da esasperarlo.
Osservò i camionisti disperdersi di nuovo e raggiungere ognuno il proprio mezzo. Mentre sganciavano i teloni dei vani da carico, alcuni pickup scesero giù dalla stessa strada ricavata sul fianco della cava.
Gli operai si misero quindi a scaricare sacchi di materiale, quasi che la pioggia non avrebbe mai più fornito ritagli di tempo utile.
La rana saltò giù e scomparve nell’erba.
Prima di rialzarsi per tornare indietro, Arno si accorse che gli aveva lasciato la coda sul dorso della mano.
Mordirosso aveva smesso di camminare un poco alla volta. Le giunture gli si erano come saldate, i muscoli irrigiditi.
Una malattia ereditaria, magari. Non sapeva. Il passato gli era sconosciuto quanto il futuro. Non aveva scelto di nascere, non avrebbe scelto di morire.
Aveva trascorso gran parte della sua vita in strada sotto i ponti di diverse città. Poi era iniziata la fatica e era salito al livello stradale.
Alla fine l’unica possibilità fu dormire nei pressi di bar e ristoranti, azzerando lo spazio percorribile a piedi.
Eludere la prossemica cittadina. Abbandonare il pudore per sopravvivere. Defecarsi addosso per mantenere il riserbo.
Arno lo vide una mattina mentre brigava nel suo regno di stracci. Erano entrambi solitari. Nessun compagno di bevute, nessun circolo dello scaracchio.
Così cominciò a portargli lui le cose da mangiare, a lavargli i vestiti e a rifornirlo di coperte e giornali quando arrivava il freddo.
Quando le cose si misero male, una notte lo caricò su una carriola e lo portò fuori città.
Attraversarono in silenzio tutta la città finché le luci non scemarono e iniziarono i rumori degli insetti.
Si stabilirono vicino a una zona di stoccaggio rifiuti. Negli anni guadagnarono metri. Poi smisero di portare i rifiuti e il puzzo finì.
Smisero anche di passare le macchine sull’autostrada, riconoscerne il modello era stato un gioco come un altro.
Smisero di passare i treni e per Arno era un fatto che non passassero più neppure gli aerei.
Arno preparava impacchi di bardana da applicare sulle gambe di Mordirosso. Mantengono la circolazione attiva e ridanno elasticità ai muscoli, diceva.
Speranza e disperazione di un atto.
Mordirosso lo lasciava fare.
Una volta l’anno Arno faceva scorta.
È ora, disse una mattina. È il periodo balsamico della bardana. Vado a raccoglierne un po’.
Mordirosso annuì e lo guardò allontanarsi.
Il sole filtrava con le sue spade attraverso le fronde degli alberi.
Dopo un pò di perlustrazione Arno decise di superare la cava. Al di là della cava, pensò, troverò la bardana.
Così passò accanto al cantiere e vide che i macchinari erano aumentati. Autobetoniere, rulli compattatori, gru. Di operai non c’era l’ombra.
Le fondamenta della costruzione ricoprivano il fondo della cava per intero. File interminabili di barre d’acciaio spuntavano dai casseri.
Arno percorse tutto il bordo. Arrivato quasi in fondo vide una donna con una tuta blu che usciva dalla radura e gli veniva incontro.
Aveva in mano uno strumento.
Lei vive qua?, chiese la donna.
Arno non rispose. Guardò il cielo e si scostò i capelli dal volto rigato dal sole.
Sto cercando qualcuno che conosca la zona. Una parte sta franando e abbiamo dovuto fermare il cantiere. È a conoscenza di fenomeni carsici?
Una nuvola passò velocemente da una forma familiare a una mostruosa.
I due scesero giù passando dalla strada battuta dalle ruspe.
Guardi, gli diceva. Noti. Veda.
Arno guardava, notava, vedeva.
Più tardi accompagnò la capocantiere alla macchina parcheggiata nella radura. Era un modello che non aveva mai visto.
Se è interessato ho dell’altra documentazione a casa, disse la capocantiere. Visure, conteggi analitici dei volumi, planimetrie, titoli edilizi.
Arno pensò alle notizie di guerra.
In lontananza le rane iniziarono a gracidare.
Quando scendeva la sera Mordirosso teneva alcuni sassi vicino, da usare in caso che un animale si facesse avanti.
Il crepuscolo era l’ora di passo. Prima gli insetti e i serpenti, quindi l’istrice e la donnola, infine il lupo, il capriolo e il fiero barbagianni.
Quando il sole calava una miriade di bestie si avvicendava intorno al regno di stracci in cerca di prede o di compagni.
Accendere il fuoco era soprattutto segnare una distanza.
Mordirosso si tastò con cura le gambe da cima a fondo mentre la silhouette degli ultimi palazzi si spengeva contro il tramonto.
Le lucciole iniziarono le loro intermittenze amorose e i grilli accordarono le elitre.
Quando si vive in strada la prima cosa è rispettare la notte. Imparare a viverla come un inevitabile cambio di quinte.
È soltanto un ricordo, nella radura, il ritmo circadiano. Poi sfuma anche quello e rimane il tempo registrato dai capelli e dalle unghie.
La prima cosa che Arno notò fu la sofisticazione degli odori. Bandite le note forti, l’acido e l’amaro dei fiori rancidi e degli ormoni, nella casa trionfava uno statico vaniglia.
La capocantiere gli offrì una sedia. Poi si mise dietro di lui, dentro alla sfera del suo afrore così netto in opposizione al vaniglia.
Il suo afrore ritagliava uno spicchio di radura nel salotto.
Gli infilò le mani nel cespuglio di capelli e non senza fatica raggiunse la testa. Quindi prese a massaggiare con trasporto il derma crostoso e ruvido.
Vogliamo andare in bagno?, chiese.
Mentre lo lavava nella vasca Arno ripeté alcune nozioni di meccanica dei fluidi e mentre gli tagliava i capelli espose l’articolata arringa di Keplero in difesa di sua madre accusata di stregoneria.
Verso ora di cena lo vestì con un abito di lino bianco che gli calzava a pennello e lo portò al ristorante.
Tornarono a casa a notte fonda ma Arno non si addormentò che un paio d’ore dopo, quando finalmente si decise a abbandonare il letto per sistemarsi sul tappeto, vicino alla finestra.
Al mattino la capocantiere si rimise la tuta e uscì per andare a lavorare.
Ci vediamo stasera, disse prima di uscire.
Aveva lasciato un mazzo di chiavi e una ventiquattrore sulla porta.
Arno si toccò la pelle liscia del volto sbarbato e non la finiva di passarsi le mani sul suo nuovo taglio di capelli.
Poi uscì in strada con l’abito di lino e la ventiquattrore e attraversò la grande rotonda con la fontana. Arrivò in ufficio appena in tempo per il briefing.
Si occupava di bollettazione. Aveva la possibilità di emettere bolle di accompagnamento per fatturazioni differite o per trasferimento di materiale da un magazzino all’altro.
Fatture accompagnatorie, fatture immediate, ricevute fiscali.
Alla pausa pranzo andò al bar in fondo alla strada con alcuni colleghi che si lamentavano delle rispettive mogli e delle loro manie di controllo.
Non avete idea, disse Arno. I colleghi scoppiarono a ridere. Quando finiva uno iniziava l’altro e sembrava che la cosa potesse durare all’infinito. In generale i colleghi pendevano dalle labbra di Arno ogni volta che bofonchiava una battuta.
Alla fine, dopo i caffè e gli ammazzacaffè, ci fu una mezza baruffa per stabilire a chi toccasse offrire il pranzo.
Mordirosso si svegliò prima che sorgesse il sole quando il barbagianni si avventò su un topolino che razzolava alla base della stufa.
Il rumore possente dello sbattere d’ali fu seguito da un fastidioso polverone.
Il fuoco si era spento e Mordirosso stava congelando. Inoltre i morsi della fame iniziavano a farsi sentire.
Il barbagianni si appollaiò in cima all’olmo e iniziò a maciullare il topolino con il suo forte becco.
Tremando, Mordirosso afferrò un sasso e cercò di lanciarlo verso l’uccello ma riuscì a colpire soltanto il tronco dell’albero.
Riprovò altre volte senza successo. Le braccia, come le gambe, gli si stavano paralizzando.
Allora pensò di trascinarsi lontano da quella fiera bestia e dal suo sgranocchiare appassionato, ma per la paura non riuscì a contrarre un solo muscolo.
Il cielo oltre il bosco aveva tinte color titanio.
Finito di mangiare, il barbagianni rigurgitò sulle gambe di Mordirosso un piccolo bolo contenente le ossa del topolino e volò via.
In quel momento un cardellino iniziò a cantare seguito da uno scricciolo. Quindi la sezione delle capinere e quella dei passeri si aggiunsero al concerto dell’alba per evocare il sole da est.
Mordirosso immaginò che fosse giunto il suo momento e lo accettò di buon grado. Vide la sua anima separarsi dal corpo. Allora si ricordò di quando da piccolo dava fuoco alla lana d’acciaio che sua madre usava per pulire lo sporco dai fondi delle pentole. Quel baluginio di minuscole scintille era la sua anima. La sua anima saliva restando impigliata alle fronde.
Un fringuello eseguì il suo assolo spensierato mentre il tordo lo contrappuntava con un tema più solenne.
Finito il turno di lavoro Arno si sgranchì le gambe facendo un giro in centro.
In piazza c’era un mercatino di cose antiche e di libri. Un unico ragazzo stava sbaraccando il suo banco di verdure e prodotti biologici e Arno si ricordò di dover fare la spesa.
Che cosa offre la stagione?, gli chiese.
Il ragazzo gli mostrò i pomodori, le zucchine e un tipo particolare di insalata riccia. Poi tirò fuori da sotto il banco una cesta piena di erbe medicamentose.
È il periodo balsamico della bardana, gli disse. È tardi ormai, e nessuno l’ha comprata. Se vuole gliela regalo.
Arno acconsentì, poi usò i soldi che aveva nella ventiquattrore per comprare anche tutto il resto e salutò il ragazzo.
Nonostante la folla di gente riuscì a salire sull’ultimo treno. Rimase un po’ in piedi finché non gli offrirono di sedersi. C’erano molte facce stanche appese a corpi che scendevano via via alle loro fermate.
Al capolinea Arno era rimasto da solo e scese portandosi dietro i sacchi pieni di verdure e di erbe.
Attraversò in silenzio quel che restava della città finché le luci non scemarono e iniziarono i rumori degli insetti.
Quando arrivò al regno di stracci, Mordirosso, che era rimasto tutto il giorno disteso ai piedi dell’olmo, sollevò prima una palpebra e poi a malapena un braccio per farsi vedere. Non gli ci volle molto per riconoscere il vecchio Arno anche vestito così, sbarbato e con quel nuovo taglio di capelli.
Arno riaccese la stufa e preparò gli impacchi con la bardana.
Mentre glieli applicava alle gambe e alle braccia, Mordirosso pensò che Arno dovesse essere stato un fuochista alla caldaia di un treno a vapore o di qualche industria. Una prestigiosa, però.
I due mangiarono in silenzio, quindi si distesero a guardare il nero del cielo.
Arno, a cosa pensi prima di dormire?
All’alba furono svegliati da alcuni camion che facevano manovra oltre il crinale, dietro il bosco.
Arno si alzò e coprì la stufa con un paio di assi.
Vado a controllare, disse.
Mordirosso annuì e lo guardò allontanarsi.
Al posto della cava sorgeva adesso una gigantesca torre a base quadrata che si rastremava, aggiungendo lati, man mano che saliva.
Le pareti di calcestruzzo erano lisce e gli operai nei ponteggi più alti sembravano tante formiche capaci di comunicare per labili contatti, gli idrocarburi secreti sulla cima delle antenne.
Gli operai si lamentavano delle rispettive mogli nell’aria rarefatta.
Una rana con la pelle traslucida saltò sulla mano di Arno. Aveva ancora la coda da girino.
Poi saltò giù e scomparve nell’erba.
Prima di rialzarsi per tornare indietro, Arno si accorse che gli aveva lasciato la coda sul dorso della mano.
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Immagine di Francesco D’Isa.
Giovanni Ceccanti è nato a Firenze nel 1987. Laureato in Scienze Naturali, ha vissuto a Roma dove ha iniziato a scrivere. Ha pubblicato su varie riviste tra cui Colla e L’Indiscreto. Un suo racconto è apparso nell’antologia “Odi”, edizioni effequ. Ha cofondato il sito di cinema e narrazioni In fuga dalla bocciofila. Lavora presso la libreria TodoModo di Firenze.