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Ariaferma

Elisabetta Bucciarelli intervista Leonardo Di Costanzo

Ariaferma è il nuovo lungometraggio di Leonardo Di Costanzo, uscito nelle sale alla fine del 2021 e ora visibile anche sulle piattaforme Sky e Prime. Parla di carcere, di rapporti umani, di cambiamento profondo, di empatia, punizione e controllo. Il film si svolge in un vecchio carcere in dismissione dove, per problemi burocratici, restano bloccati dodici detenuti e un manipolo di agenti di polizia penitenziaria. La direttrice, unica presenza femminile nel film, viene trasferita, le cucine chiuse, le attività sospese, compresi i colloqui con le famiglie, e i carcerati spostati tutti nella zona centrale del penitenziario, un panottico controllabile con maggiore facilità. La direzione del carcere passa, per anzianità, a Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) che, fin dal principio, si troverà in una posizione scomoda, con nuove responsabilità e, soprattutto, con un punto di vista differente sulle faccende umane, sulla fallibilità, il riscatto, la colpa.

EB: Qual è la domanda da cui parte Ariaferma?

LDC: Da quando facevo documentari mi sono sempre interessato a personaggi che, per lavoro, scelta religiosa o ideologica, sono a contatto con le componenti più problematiche della società  e, di fatto, hanno compiti di mediazione sociale: gli insegnanti di una scuola dell’obbligo in una periferia ad alta percentuale di dispersione scolastica,  che decidono di non usare la sospensione come strumento disciplinare; la responsabile di un centro ricreativo per bambini a rischio in un quartiere dominato dalla camorra;  una  sindaca di una piccola città del sud, che cerca di imporre regole uguali per tutti in una comunità retta da corruzione e nepotismo.  Tutti personaggi che, nella loro azione, oscillano continuamente nel dubbio tra regole generali e legge morale.  E che, per far coesistere queste due cose, devono inventarsi nuove strade, creare nuove forme di convivenza. Quindi, era naturale che, prima o poi, sarei arrivato al mondo del carcere, un universo molto raccontato dal cinema, con veri e propri capolavori.  Mi sono domandato come fare. Ho pensato che il punto di vista avrebbe dovuto essere il più possibile nel mezzo, tra l’uno e l’altro dei gruppi che abitano il carcere, tra detenuti e agenti, perché volevo uscire dalla divisione manichea tra buoni e cattivi, soffermarmi sull’evoluzione dei personaggi, raccontare un luogo di violenza che è fatto anche di umanità.

Dodici detenuti, un panottico che sembra un chiostro, una specie di prima e ultima cena. È un sottotesto?

Nello scrivere ci siamo resi conto che, mettendo insieme fatti e comportamenti dei personaggi, piano piano emergevano elementi religiosi, riferimenti al cristianesimo primigenio; ma all’inizio non li avevamo cercati, ce ne siamo accorti in corso d’opera. Con questa consapevolezza poi li abbiamo usati e gestiti.

Set del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. Nella foto Toni Servillo e Silvio Orlando.
Foto di Gianni Fiorito.

Che tipo di racconto è Ariaferma?

Se mi fossi attenuto a un tipo di racconto realistico non ce l’avrei fatta a restituire l’idea che mi ero fatto dell’universo carcerario.  Ho realizzato che avrei dovuto cercare di costruire un tipo di racconto che fosse “sollevato” dalla realtà. Rispetto ai film precedenti, con Ariaferma avevo bisogno di qualcosa di più romanzesco, in un certo modo favolistico, un racconto un po’ separato dalla realtà.

Falsità e finzione, come funziona da spettatore?

Io vengo dal documentario, quindi il problema del vero e del falso è una questione che mi si è posta sin dal primo momento in cui ho toccato una telecamera.  Ma presto ho maturato la convinzione che, trattandosi di costruire cinema, il problema sarebbe stato la credibilità e non che i fatti narrati fossero veri o falsi. Un documentario può sembrare molto più falso di un film di fantascienza. Dipende da come si usano gli elementi del racconto e, soprattutto, dal patto che si stabilisce tra il racconto e lo spettatore. Poi può capitare che lo spettatore, all’inizio del film, prenda una porta sbagliata (che inconsapevolmente il regista ha lasciato aperta) e che, quindi, tutto gli appaia falso e non credibile.  In definitiva, il regista deve stare attento a non lasciare porte aperte indesiderate che possono deviare lo sguardo dello spettatore, e lo spettatore deve porre attenzione nel cercare di capire qual è il percorso auspicato dal regista.

Dietro una storia, una narrazione c’è il regista la sua visione del mondo ed è questo che cerco quando guardo un film. Questo mi permette anche di apprezzare e di godere di film, accettare film che possono sembrare poco riusciti.

Cosa vuol dire per te cercare e trovare la forma giusta per raccontare?

Un film si costruisce in una dialettica continua tra forma e contenuto, ammesso che abbia ancora senso mantenere questa divisione. È la storia che detta la forma ed è quest’ultima che indica la storia.

Quando mi vengono poste domande su questioni di forma mi viene sempre in mente il lavoro di Rithy Panh, il regista cambogiano con cui, nel 1995   nell’ambito dei progetti degli Ateliers Varanho fondato una scuola di cinema per documentaristi a Phnom Pen. Rithy Panh ha avuto la sua famiglia distrutta durante il regime di Pol Pot e dei Khmer Rouges.  La quasi totalità dei suoi film raccontano del genocidio e sono film spesso molto diversi dal punto di vista formale. È come se Rithy continuasse ad interrogare le forme filmiche come tentativi di cogliere l’irriducibilità dell’orrore e del genocidio che ha colpito lui ed il suo paese.

Per quanto mi riguarda, ad un certo punto del mio percorso mi son reso conto che, con il documentario, non sarei riuscito a raccontare quelli che, piano piano, diventavano i miei desideri di storie. Quindi ho ritenuto necessario far ricorso alla finzione. E lì si sono aperte altre questioni, altre riflessioni, un altro modo di ragionare, anche se, facendo finzione, con me porto come bagaglio molti attrezzi del fare documentario.

Set del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo.
Foto di Gianni Fiorito.

Per questo hai deciso di usare la fiction per Ariaferma, mescolando attori non professionisti con attori di professione?

Sì, perché non ce l’avrei fatta a realizzare questo tipo di narrazione solo con attori non professionisti. Poi ho scelto due attori importanti e li ho messi fuori ruolo. Eduardo diceva: l’attore deve stare scomodo. Così ho assegnato a Toni Servillo la parte di guardia carceraria e a Silvio Orlando quella del boss carcerato, di fatto mettendoli entrambi “fuori ruolo”.

Nel film uno dei protagonisti, Gaetano Gargiulo, da agente di polizia penitenziaria che esegue gli ordini, diventa responsabile del carcere e a sua volta esercita il potere. Questo innesca un cambiamento in lui, che diventa anche un modo differente di vedere l’altro da sé.

Questi personaggi della periferia, nella geografia sociale sono messi a confronto con dilemmi morali che possono portare a questo tipo di cambiamenti o evoluzioni.  A Gaetano capita perché, da esecutore di ordini, diventa responsabile del carcere; questo spostamento di ruolo nella gerarchia gli dà la possibilità di guardare in modo diverso i detenuti.  In altri casi, il dilemma tra legge del gruppo e legge morale è costante: nel mio film precedente, L’intrusa, la protagonista Giovanna viene ingannata dalla moglie di un mafioso a cui ha dato ospitalità; avrebbe tutte le ragioni per reagire di conseguenza ed espellerla, come richiedono le altre mamme; invece, capendo la condizione di fragilità di quella donna, decide di non cacciarla mettendo così a rischio l’esistenza stessa della comunità.

Inizio o fine di un film, cosa ti viene più facile?

Di solito i miei finali sono delle sospensioni. Da spettatore, i film che si concludono con un finale preciso li dimentico subito.

E infatti, sia nel finale de L’intrusa (uscito nel 2017) sia in Ariaferma, non c’è un congedo definitivo, ma sempre un’apertura a qualcosa che potrà accadere oppure no. Non vendi facili soluzioni o happy end. Però è sempre molto chiaro il tuo modo di guardare il mondo.

Più che soluzioni o finali a me interessa restituire un sentimento o un pensiero su un tema su cui ho deciso di fare il film. Per esempio, ho deciso di girare Ariaferma dopo aver fatto un’esperienza al carcere di Lecco. Con gli sceneggiatori Bruno Oliviero e Valia Santella, sono andato a un incontro con i detenuti ed era anche presente una scolaresca. Abbiamo trascorso un’ora insieme, anche con momenti conviviali. Poi la comunità si è sciolta: l’umanità che si era costituita è stata sospesa e gli agenti di polizia penitenziaria hanno richiuso i detenuti nelle celle. Quest’atto l’ho sentito molto violento e mi ha così colpito che è diventato quello il sentimento che ha guidato la scrittura e la realizzazione del film.  Spero che il sentimento dello spettatore uscendo dalla proiezione sia in qualche modo simile al mio uscendo dal carcere di Lecco.

Set del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. Nella foto Pietro Giuliano e Nicola Sechi.
Foto di Gianni Fiorito.

L’apertura di Ariaferma è una battuta di caccia, le guardie intorno a fuoco, fuori dal carcere, parlano, bevono. Poi rientrano nella struttura penitenziaria e per tutto il film non si esce più. Che strana idea.

L’inizio trae spunto dal racconto dell’ex direttrice del carcere di Bollate, Lucia Castellano. Al penitenziario Marassi di Genova era rimasta colpita dai giovani agenti di polizia penitenziaria che lei vedeva disperati. Nel tempo libero andavano a sparare alle lontre… e poi una parte di racconto riguarda me. Sono io che, adolescente, andai a caccia con mio fratello maggiore. Sparai ad una tortora e la ferii poi, invece di ucciderla, la tenni con me curandola, le mettevo la penicillina sull’ala e sopravvisse, almeno per un po’. Da allora non sono più andato a caccia.

I tuoi film sono girati sempre in spazi chiusi, si allude all’esterno, ma si resta sempre dentro. Così è per L’intrusa, dove la storia si svolge all’interno de La Masseria, un centro ricreativo per ragazzini e ragazzine e lo stesso vale per Ariaferma, girato interamente all’interno di un carcere in dismissione. Alludi all’esterno e vuoi restare dentro, dove accadono davvero le cose, addirittura nel carcere c’è un dentro più dentro, ovvero il panottico dove accade quasi tutto.

Si c’è sempre un luogo, che diventa il teatro dove i conflitti si manifestano e si sciolgono, conflitti che rimandano ad un esterno: il mondo è fuori, è evocato invece che mostrato. Addirittura, con L’intrusa, mostrando i palazzoni di Napoli, mi sembra di essere uscito troppo.

Nei tuoi documentari hai trattato più volte il tema dell’adolescenza, in particolare in Cadenza d’inganno segui le giornate di Antonio, un ragazzino adolescente “tutto in potenza e niente in atto”. Non è appassionato di niente, non sa fare niente, rappresenta la totale assenza di trama esistenziale, lo stato liquido dell’adolescenza. A un certo punto Antonio dice basta e non vuole più essere ripreso, un po’ di anni dopo ti richiama e ti chiede di continuare il documentario… che rapporto hai con le trame?

Il mio sogno è fare un film senza trama.

Set del film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo. Nella foto Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane e Salvatore Striano.
Foto di Gianni Fiorito.

Avresti voluto fare l’insegnante ma dici di non essere stato capace, usi spesso la parola incapace anche quando stabilisci di non essere in grado di portare avanti un progetto che vorresti con una certa forma. Poi trovi una soluzione. Per esempio la questione dell’anima, tu vuoi l’anima del personaggio e con un attore è più facile ottenerla…

I film si fanno con l’incontro tra il tuo desiderio, quello che puoi fare e quello che riesci a fare. I soldi che trovi, i personaggi, la tua capacità. È un incontro. A un attore posso dire mettici la tua anima, tanto non sei tu.

In cosa ti metti a rischio quando giri un film?

Penso che tutti che quelli che fanno cinema o opere di creazione mettano sé stessi in gioco e quindi rischino e la paura è sempre quella di dire cazzate. Io faccio fatica ad assistere alle prime proiezioni di un mio lavoro. Dopo averci lavorato così tanto perdo una visione d’insieme, non so più cosa io racconti: so il film che volevo fare, non quello che ho fatto. Dalle reazioni degli spettatori e dalle domande che mi vengono poste, da quello che leggo nelle critiche mi accorgo cosa è passato, nel film realizzato, del film che volevo fare. Spesso il senso va anche oltre le cose che avevo pensato. E questo è bello.  Mi fa piacere che lo spettatore si appropri del film e faccia sua la storia.

Sassari, 29/11/2020 – Il regista Leonardo Di Costanzo sul set del suo nuovo film Ariaferma.
Foto di Gianni Fiorito.
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2 Commenti

  1. grazie per questa intervista. Molto interessanti, per me, soprattutto i ragionamenti su “vero e falso”, documentario o finzione, questioni che dunque si presentano a un autore cinematografico come potrebbero presentarsi a uno scrittore, ed è interessante – mi ripeto – riflettere su quali risposte possano dare l’uno o l’altro. Guardando il film, davvero notevole e che ho molto apprezzato, non mi ero reso conto di avere di fronte due interpreti “fuori ruolo”; è stata, in effetti, una scelta forse non semplice ma giustissima.

    • È vero, Davide, neanch’io ci avevo pensato, mi ero limitata a constatare la “misura” di Servillo in questo film, a differenza di altri – e invece lo spostamento ora mi è evidente: quanto entrambi gli attori sarebbero stati più prevedibili a ruoli alternati.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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