A fondo nel Mar Rosso

 

di Nick Casini

Fa freddo in fondo al Mar Rosso. La pubblicità sulla rivista della compagnia aerea spergiurava che il primo respiro sott’acqua è come il primo bacio: non si dimentica. E io ci ho creduto, nonostante non ricordi nulla del mio primo bacio. Passati i trent’anni, vittima volontaria di una routine inesorabile (la machine, se ci si tiene a citare Deleuze), sono disposto a qualsiasi novità.

Sam, l’istruttore egiziano, fa cenno a Yosef, il mio compagno di corso, di iniziare. L’esercizio, da svolgersi interamente sott’acqua, prevede di sfilarsi la maschera, nuotare per venti metri in una direzione qualsiasi, girarsi, nuotare indietro fino al punto di partenza, rimettersi la maschera e svuotarla dall’acqua usando l’apposita tecnica che ci è stata spiegata in precedenza. E questa non è la parte più difficile. In ginocchio sul fondale, con cinque metri d’acqua sopra la testa, ad ogni respiro i miei polmoni si riempiono d’aria e mi trascinano verso la superficie come un salvagente. La mia testa non ha ancora capito cosa vuol dire respirare sott’acqua, e allora ingerisco più aria di quanto abbia bisogno e mi trasformo in una boa. Poi mi dimeno ed espiro come un drago per tornare con le ginocchia sulla sabbia e non fare la figura dell’inetto. Sam non si scompone, deve averne visti tanti come me. Mi lancia un’occhiata per capire se è tutto a posto. Intanto, Yosef chiude gli occhi, si sfila la maschera e pinneggia in avanti. Il suo corpo, avvolto in una muta a mezze maniche, si flette come un tubo di gomma. È inglese, ma biondo come un vichingo. I peli chiari sulle braccia, colpiti dalla luce del sole, si accendono come fiammiferi. La distanza che ci divide è opaca, nonostante l’acqua sia di una trasparenza cristallina. Intorno a noi nuotano pesci a strisce gialle e grigie e, poco più in là, l’ombra scura della barriera corallina si proietta sulla sabbia. Sam accompagna Yosef con lo sguardo e poi lo aiuta a fare marcia indietro. Il movimento delle sue pinne solleva piccole nuvole di sabbia dal fondale; i pesci, infastiditi, corrono via. Io mi concentro solo sul rimanere sul fondo.

 ***

All’uscita dell’aeroporto di Sharm El Sheikh mi investe una folata di vento torrido che quasi mi butta a terra, poi scorgo tra la folla un foglio di carta con scritto MR. CASINI e gli corro incontro. A tenerlo tra le mani è un egiziano con indosso un paio di jeans spessi un dito, mocassini neri, una camicia button down bianca e occhiali da sole stile aviator. Nell’aria c’è odore di tubo di scappamento. La prima cosa che mi dice è che sono due ore che aspetta, ma nella sua voce c’è rassegnazione e non risentimento. Do tutta la colpa ai ritardi della compagnia aerea e alle cervellotiche pratiche di controllo bagagli del personale dell’aeroporto (cani, mitra e metal detector), ma è una giustificazione superflua: il mio autista non è arrabbiato, ci tiene solo a farmi sapere che nonostante l’attesa non mi ha abbandonato al mio destino.

Trovato un varco tra le mura bianche e le divise mimetiche che circondano l’aeroporto, piombiamo ai margini di un immenso cantiere. L’orizzonte è occupato da terra smossa riarsa dal sole, scheletri di palazzi a tre piani e check point presidiati da soldati armati. Ruspe avvolte in nuvole di sabbia, manovrate da operai in jeans e scarpe da ginnastica, continuano a scavare nonostante ci siano in giro centinaia di edifici abbandonati e mai finiti. La strada che percorriamo ha quattro corsie per senso di marcia – modello Los Angeles – ma il traffico è quello di un Ferragosto a Roma. Non c’è una vera vegetazione, solo qualche cespuglio ingiallito che fatica a farsi largo tra cumuli di pietre. Avanziamo per chilometri senza incontrare un cavalcavia, ma solo enormi rotatorie e periodiche interruzioni nel guard rail centrale che permettono improvvise inversioni ad U. Le creste rocciose del deserto del Sinai sfumano alle spalle di uomini seduti sul ciglio della strada ad aspettare un passaggio. Tutti i colori sono mutati, circoscritti tra l’ocra e il bianco, una palette turbata solo dalla mano dell’uomo: i cartelli stradali verde smeraldo, le gigantografie del presidente al-Sisi e del suo grande amico re Salmān d’Arabia, i negozi deserti dalle insegne enormi e le vetrine sovraffollate che appaiono a macchie. Il resto è asfalto e sabbia, fino a che appaiono i primi resort. Allora, d’improvviso, è un florilegio di aiuole erbose irrigate a getto perpetuo, di statue dorate, di ingressi monumentali, di palme e di fontane. Giardinieri in tenuta mimetica annaffiano colossali bouganville e prati all’inglese. Compaiono – addirittura – piste ciclabili deserte e polverose, slanci modernisti in un luogo che tra afa e tempeste di sabbia sembra l’incubo di qualsiasi ciclista.

“Fino agli anni Ottanta non c’era niente,” sospira il tassista vedendomi fissare il paesaggio. “Solo deserto, mare e beduini.”

Come tutti da queste parti parla un po’ di italiano, e ci tiene ad utilizzarlo al posto dell’inglese per via di vecchie ruggini colonialiste. Gli chiedo di accostare davanti ad un piccolo supermercato e scendo a fare qualche foto. L’edificio, basso e squadrato, è schiacciato tra un negozio di elettronica dal tetto a cupola e uno di souvenir che vende unguenti miracolosi, statuine degli dèi egizi e papiri che si illuminano al buio. Più dietro, attraversato da una strada sterrata, si intravede quello che sembra essere un quartiere residenziale. Ci sono edifici a due piani dalle facciate scrostate, motori di condizionatori e parabole satellitari appesi ovunque. Toyota anni Settanta sono parcheggiate lungo bassi muri di cinta. Il tassista lascia l’auto accesa e mi viene dietro. Attraverso i finestrini rimasti aperti ci segue il suono dell’autoradio, che da quando siamo partiti è ferma sul canale che diffonde la preghiera islamica (il 999 AM). La stessa preghiera viene recitata dall’altoparlante appeso fuori dal negozio di souvenir. Le preghiere islamiche mi pedineranno per tutta la vacanza, un’onnipresenza viva, invisibile e ineludibile, che si scontra con quella morta (cristiana) a cui sono abituato, fatta di simboli e simulacri muti.

Passeggio seguito come un’ombra dal tassista, mentre la sagoma infuocata del sole di fine aprile scivola sotto l’orizzonte. In giro non c’è nessuno, non un negoziante che mi inviti nel suo negozio né un passante che mi offra un affare imperdibile. Poi, appena la preghiera si interrompe, le strade si popolano di nuovo. Dalle case e dai negozi escono uomini (solo uomini) di ogni età. Incrocio qualche sguardo interlocutorio che prova a capire se sono interessato o no a fare acquisti, poi tutti si mettono a mangiare con la voracità tipica dei giorni del Ramadan. Chi non ha una sedia, o uno scalino, dove sedersi si siede a terra con il sedere appoggiato su un piede. Anche l’autista del taxi mi abbandona al mio destino e torna alla macchina a mangiare riso da una ciotola di plastica trasparente, ma la mette via appena faccio ritorno. Si pulisce la bocca con il dorso della mano mentre un pullman carico di turisti romani parcheggia dietro di noi. I miei connazionali scendono alla spicciolata nascosti sotto cappelli da baseball ed occhiali da sole a specchio. La guida che li accompagna li conduce verso il negozio di souvenir.

“Sembra San Basilio,” è l’unica frase che riesco a cogliere prima di ripartire.

 ***

Alloggiare in un villaggio turistico significa prendere parte ad una sessione di ipnosi collettiva. Fuori c’è il deserto, dentro le aiuole fiorite e le piscine. Il personale è gentile, sorridente e pronto a tutto (c’è pure chi di lavoro spinge i turisti sui materassini gonfiabili). I buffet sono labirinti di cibo all’ammasso e attraversarli significa sopravvivere a odori che cambiano ad ogni passo e terribili colpi di pentole e posate. Ai tavoli, tablet lasciati a volume da sagra di paese ammansiscono i bambini ma costringono tutti gli altri a trovare rifugio ai margini della sala o negli spazi adults only. Dopo cena, o quando vuoi, cocktails gratis per tutti; mediocri pure quelli, ma a caval donato (all inclusive) non si guarda in bocca. E poi, per le famiglie, vere tiranne dei villaggi, arriva il momento della baby dance: i genitori, frastornati e paonazzi, si accasciano su divani di pelle sintetica a guardare i culi delle animatrici (e degli animatori) mescolarsi ai movimenti epilettici dei figli. Di nuovo, volume da sfondare le orecchie. Si riesce a resistere solo perché intontiti dall’alcol e dal cibo, perché visto che era gratis si è mangiato e bevuto di tutto, e perché andare a letto con le budella che si torcono fa parte del godersela. Poi, il tempo che ci vuole a cacciare i bambini dal palco, si viene catapultati nello spettacolo serale. Senza fare niente, neppure lo sforzo di cambiare canale. Una sera ci sono gli acrobati, quella successiva i maghi, e poi il Carnevale di Rio o un Can Can in culotte. Gli ospiti affondano sempre più nei divani, il personale del villaggio ripete meccanicamente sorrisi e saluti. L’ipnosi è talmente profonda che ci si accorge solo al terzo giorno di vacanza che c’è una cornetta del telefono appesa nel bagno di camera, lussi da sceicchi di metà Novecento. Gli unici che sembrano non perdere mai la bussola sono gli animatori, capaci di sopravvivere per mesi (a volte anni) in un non luogo che è la materializzazione dell’eterno ritorno nietzschiano, dove è sempre vacanza, dove il tempo che intercorre tra il check-in e check-out è un presente continuo, dove si è sempre felici e dunque non lo si è mai davvero, dove le amicizie durano una settimana ma poi ne inizia un’altra identica al cambio delle camere, dove si è invidiati da tutti ma mai davvero, dove la cronaca mondiale è un’eco di cui nessuno vuol sentire il rumore. Dove basta un’escursione al villaggio beduino più vicino e si diventa custodi di aneddoti prêt-à-porter di sicuro effetto:

“Sai quanto costa una moglie beduina? Nove cammelli se è brutta, venticinque se è la figlia del capo tribù.”

“E se uno non ha cammelli?”

“Se uno non ha cammelli non è un beduino.”

Nei resort, come in città o nel deserto dai beduini, di donne egiziane non se ne incontrano, non una tra migliaia di uomini. Sorseggio un tè miracoloso dagli ingredienti che ho già dimenticato e chiedo ai mariti che fine hanno fatto. Mi rispondono che sono a casa e poi cambiano argomento. Solo alla riserva naturale di Ras Mohamed incontro una ragazzina venuta a vendere collanine alle turiste, ma scompare presto dietro un’acacia spinosa, l’albero con i cui tralci si narra sia stata intrecciata la corona di spine di Gesù Cristo. I beduini sono convinti che toccarne il tronco sia di buon auspicio.

  ***

L’esercizio successivo consiste nello sperimentare la mancanza d’aria. L’istruttore chiude la valvola che regola il flusso d’aria e l’allievo – in apnea – deve segnalare il problema al compagno e poi avvicinarsi per utilizzare il suo erogatore secondario. Stavolta, tocca a me iniziare. Faccio a Sam il gesto che significa OK (pollice e indice si toccano formando un cerchio mentre le altre dita rimangono distese) e continuo ad inalare aria fino a che dall’erogatore non esce più nulla. A quel punto, rimangono solo il sapore della gomma e dell’acqua marina. Non più rumori tipo Darth Vader, né bollicine, né quel senso di pienezza artificiale a cui mi stavo abituando. Yosef mi aspetta già con le braccia lontane dal busto e la testa girata di lato, di modo che possa raggiungere senza interferenze il suo erogatore di riserva (colorato di un giallo inequivocabile) e riprendere a respirare. Sam annuisce per incoraggiarmi. La sua pagina Instagram – che ho compulsato appena dopo averlo conosciuto – è un fiorire di video con vista sulla barriera corallina e foto in barca con allievi e colleghi, sempre sorridente e abbronzato. A volte il blu alle sue spalle è così profondo che non si riesce a vedere altro. Immergersi, come arrampicarsi, ha alla base una paura facilmente sperimentabile da qualsiasi essere umano: rimanere senza aria da respirare. Il pericolo che si corre è chiaro a chiunque – primitivo – non c’è bisogno di aver studiato nulla. Il diving è il cugino poco glamour dell’alpinismo, ma è rimasto nell’ombra a causa dell’assenza di eroi pubblici (non esiste l’equivalente subacqueo di un Messner). Forse perché è praticato in luoghi irraggiungibili all’occhio umano, forse perché gravato dall’eredità culturale che colloca da tempo immemore il paradiso nell’ascesa e gli inferi nella discesa.

Nuoto in avanti verso Yosef, dritto verso il giallo inequivocabile del suo erogatore di riserva. I pesci a strisce se ne sono già andati. Senza volerlo, provo a trarre un altro respiro e l’acqua mi riempie la bocca.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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