Nulla si sa, tutto si immagina: Fellini e la letteratura

 

di Daniele Ruini

Francamente, raccontare mi sembra l’unico gioco
che valga la pena di giocare (F. Fellini)

Chissà come avrebbe reagito Federico Fellini se gli avessero detto che il suo centenario sarebbe coinciso con una pandemia… Forse avrebbe pensato che questa nostra società, sguaiata e narcisistica, un po’ se l’era meritato; o magari, lui che aveva trascorso gli ultimi anni tanto celebrato quanto sempre più mal sopportato dai produttori, avrebbe riso sornione di fronte all’agitazione del gran circo dello spettacolo alle prese con chiusure e cancellazioni. Di certo tale coincidenza non avrebbe lasciato indifferente il Maestro, attratto dai mondi dell’occultismo e dello spiritismo e così attento al significato profondo di numeri e sincronicità.

Tra le iniziative per festeggiare i 100 anni del regista, nato a Rimini il 20 gennaio 1920, c’è stata anche la giornata che l’Istituto di studi italiani dell’Università della Svizzera italiana ha dedicato al tema “Il cinema di Federico Fellini e la letteratura”, e di cui Quodlibet ha pubblicato gli atti con il titolo Nulla si sa, tutto si immagina. Introdotto da una premessa del curatore Stefano Prandi, il volume contiene quattro interventi (a firma di Corrado Bologna, Valeria Galbiati, Giacomo Jori e Marco Maggi) più un’intervista a Ermanno Cavazzoni (che sceneggiò l’ultimo film di Fellini, La voce della luna, ispirato al suo Poema dei lunatici).

Come sottolineato da Giacomo Jori,

Il rapporto di Fellini con la letteratura è costante e articolato, e riguarda tanto le sceneggiature che rielaborano o si ispirano a opere letterarie, dal Satyricon a La voce della luna, quanto gli scrittori e letterati che lungo tutta la sua parabola artistica collaborarono alle sceneggiature dei film: Pinelli, Flaiano, Guerra, Pasolini, Zapponi, Cavazzoni. […] Fellini esordisce come scrittore, e anche nell’impegno per il cinema la pubblicazione delle sceneggiature fa di lui, a tutti gli effetti, uno scrittore in dialogo con scrittori.

In effetti il rapporto con i libri e la scrittura attraversa tutta l’esistenza del grande regista riminese, che non ha mai smesso di frequentare scrittori e di farsi ispirare dalle loro opere.

Tra i temi toccati nella giornata di studi ticinese vi è, per esempio, l’ammirazione sconfinata di Fellini per Kafka, scrittore di cui –come rilevato da Corrado Bologna– il Maestro amava in particolare la «comicità metafisica» e gli aspetti più grotteschi. Non a caso in Intervista (1987) Fellini ha messo in scena sé stesso impegnato a girare un film da America, romanzo dell’autore praghese di cui apprezzava soprattutto il personaggio di Brunelda (possibile modello dei vari donnoni che popolano il cinema felliniano: dalla Saraghina di 8 ½ alla tabaccaia di Amarcord). E si potrebbe ricordare che tra i sosia che partecipano alla becera trasmissione televisiva messa in scena in Ginger e Fred (1986) compaiono anche quelli di Proust e dello stesso Kafka.

Ragionando intorno al Viaggio di G. Mastorna (film mai realizzato di cui ci resta la sceneggiatura), sia Bologna che Valeria Galbiati toccano poi la questione della presenza di Dante nella cinematografia felliniana, un tema a cui alcuni anni fa era stato dedicato un convegno ravennate (si veda Fellini & Dante, l’aldilà della visione, Genova, Sagep. 2016) oltre a un bel saggio di Massimiliano Chiamenti (Effigi di Dante e di Leopardi in Fellini, in «The Italianist», n. 24/2, anno 2004, pp. 224-237).

Valeria Galbiati rimarca inoltre l’importanza rivestita per Fellini da uno scrittore come Tommaso Landolfi, molto presente nella biblioteca del regista (si veda I libri di casa mia: la biblioteca di Federico Fellini, a cura di Oriana Maroni e Giuseppe Ricci, Rimini, Fondazione Federico Fellini, 2008): se il racconto Cancroregina potrebbe aver influenzato la conclusione del Mastorna, altri testi dello scrittore frusinate (come La pietra lunare e Il racconto del lupo mannaro, e il romanzo La pietra lunare) hanno certamente contribuito alle atmosfere de La voce della luna, debitrici anche di Leopardi, come testimoniato da Ermanno Cavazzoni.

E, a proposito dell’attrazione di Fellini per quegli scrittori che –come Kafka e Landolfi–frequentano il fantastico, il grottesco, l’irrazionale e il mistero, vale la pena di menzionare sia la collaborazione con Dino Buzzati per il progetto abortito del Mastorna (la cui vicenda prende le mosse da un suo racconto), sia la partecipazione al film collettivo Tre passi nel delirio/Histoires extraordinaires (1968), che consiste di tre episodi ispirati a racconti di Edgar Allan Poe (quello girato da Fellini, Toby Dammit, è tratto da Mai scommettere la testa con il diavolo).

Giacomo Jori si sofferma invece sul rilevantissimo contributo offerto al cinema di Fellini da Andrea Zanzotto, autore dei versi in dialetto veneto che accompagnano due scene del Casanova di Federico Fellini (1976), tratto dalle memorie dell’avventuriero veneziano, nonché dei cori cantati su musiche verdiane in E la nave va (1983). L’apporto di Zanzotto per questi due splendidi film, forse tra i meno celebrati di Fellini, costituisce in effetti uno dei capitoli più entusiasmanti della storia del rapporto tra gli scrittori italiani e l’arte cinematografica (una storia ricostruita da Gian Piero Brunetta in Attrazione fatale: letterati italiani e letteratura dalla pagina allo schermo: una storia culturale, Milano-Udine, Mimesis, 2017).

Ai nomi degli scrittori italiani chiamati a partecipare alle sceneggiature dei suoi film (tra i quali, oltre a quelli già citati, anche Luca Canali, autore dei dialoghi latini per il Satyricon) si possono poi aggiungere i molti e importanti autori, anche stranieri, che il Maestro era solito frequentare e con i quali ha spesso corrisposto: Roberto Calasso, Pietro Citati, Mario Tobino, Alberto Moravia, Natalia Ginzburg, Georges Simenon, Milan Kundera, Patricia Highsmith. Complice l’insonnia sempre più snervante, negli ultimi anni Fellini divenne inoltre un appassionato lettore di letteratura italiana contemporanea, spendendosi per promuovere gli scrittori che lo avevano più colpito: da Marco Lodoli a Pier Vittorio Tondelli, da Susanna Tamaro a Ermanno Cavazzoni.

Ampliando il discorso agli anni della sua formazione, si può ricordare inoltre che, prima di cimentarsi dietro la macchina da presa, Fellini si fece le ossa scrivendo per altri registi e lavorando insieme a Brunello Rondi e Tullio Pinelli, futuri sceneggiatori di molti suoi film. E, tra i progetti a cui collaborò, vi furono anche alcune riduzioni di opere letterarie, come gli adattamenti per lo schermo del romanzo di Gabriele d’Annunzio Giovanni Episcopo (diventato nel 1947 Il delitto di Giovanni Episcopo per la regia di Alberto Lattuada) e dei Fioretti di San Francesco (alla base di Francesco, giullare di Dio di Roberto Rossellini), e due film –Il mulino del Po di Alberto Lattuada (1949) e Il brigante di Tacca del Lupo (1952) di Pietro Germi– tratti da opere di Riccardo Bacchelli. Come riportato da Stefano Prandi nella sua premessa, Fellini, parlando nel 1980 del suo lavoro giovanile di sceneggiatore, dichiara che si trattava di un’attività che lo immalinconiva e lo irritava: «Le parole, l’espressione letteraria, il dialogo, sono seducenti ma appannano quello spazio preciso, quella necessità visiva che è un film». Resta il fatto che per lui l’approdo al cinema avvenne attraverso la scrittura, attività che, ancora prima che in qualità di sceneggiatore, aveva esercitato come autore umoristico per la rivista «Marc’Aurelio».

Naturalmente, di fronte a un campo di approfondimento così vasto come quello del rapporto tra la filmografia felliniana e la letteratura, i saggi contenuti nel volume non possono che rappresentare un’inchiesta parziale che, pur toccando alcuni punti decisivi, lascia spazio per ulteriori analisi. Ad esempio, se non abbiamo visto male, nel libro non si fa mai il nome di Carlo Emilio Gadda, che era uno degli autori che Fellini stimava maggiormente.

A tale riguardo, chi scrive aveva suggerito l’ipotesi di una possibile influenza del Pasticciaccio gaddiano su Le notti di Cabiria (1957), seguendo una pista che tirava in ballo anche il rapporto di Fellini con Pier Paolo Pasolini, chiamato dal regista a collaborare alla scrittura del film. Ma, al di là di questa suggestione, è indubbio che la storia della presenza di Gadda nella filmografia felliniana resta ancora da indagare; così come quella dell’altro grande milanese delle lettere italiane del ‘900, ovvero Giorgio Manganelli, i cui libri –tre dei quali con dedica autografa– figurano nella biblioteca di Fellini giunta fino a noi. Tra di essi compaiono due edizioni di Pinocchio: un libro parallelo, il che sarà da ricondurre all’attaccamento del Maestro per la figura del burattino di legno: non solo Fellini dichiarava infatti che quello di Collodi, di cui possedeva varie edizioni illustrate, era stato il primo libro che mai avesse letto, ma alcuni studiosi (come Paolo Fabbri e Nicola Dusi) hanno sottolineato la presenza di Pinocchio nel cinema felliniano e, in particolare, nel Casanova (film che contiene anche citazioni di Petrarca, Ariosto e Tasso).

Possiamo allora concludere con le parole di Marco Maggi: pur avendo dichiarato di diffidare dell’accostamento tra cinema e letteratura, Fellini ha dato ampie prove di una «spregiudicata disponibilità ad attingere a fonti letterarie per dare forma ai propri sogni» (p. 69). Delle sue letture voraci e disordinate, così come del suo amore generoso verso gli scrittori, sono impregnati tutti i suoi film, che continuano ad incantarci e ad offrirci motivi per non smettere di guardarli e interrogarli.

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ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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