Un’estate con Manzoni #L’immaginario (Ghost Track)

David Hockney, “A Bigger Wave”, 1989

 

[La rubrica “Un’estate con Manzoni” ci ha accompagnate/i per tutto il mese di agosto, ogni giovedì. Ecco oggi l’ultima puntata, non prevista: una Ghost Track. Per rileggere tutti i pezzi, basta seguire il tag Un’estate con Manzoniot]

 

di Marco Viscardi 

C’è un passaggio che, ad una lettura veloce del testo, può sfuggire. Siamo nel settimo capitolo e don Rodrigo sta progettando di rapire Lucia e chiudere così la partita. Per farlo, bisogna organizzarsi, così stila un piano di battaglia col Griso, che sa perfettamente dove poter stabilire il quartier generale di questa efferata azione:

Abbiam bisogno d’un luogo per andarci a postare: e appunto c’è, poco distante di là, quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa… vossignoria non saprà niente di queste cose… una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da riattarla, e l’hanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani che son pieni d’ubbie, non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l’oro del mondo: sicché possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a guastare i fatti nostri.

Lo sguardo del Griso è materialista: il casolare è abbandonato perché è andato a fuoco e, in tempi di carestia, non ci sono i soldi per rimetterlo in sesto. Pensiero puro e visione disincantata. Mentre il pensiero popolare è creativo e fa di una casa-rovina il luogo di un Sabba, il Griso ha una visione disincantata del mondo. La sua esperienza di uomo d’arme lo mette a riparo dalle credenze dei nullafacenti. Sull’immaginario dei villani cade la sua risata distruggitrice. Certo, se leggiamo con attenzione, il laicissimo Griso non è così convincente… ma non è sabato, e me ne rido, certo andarci in giorno di Sabba, di notte, lontano da tutti… quella sarebbe un’altra storia!

A quelle streghe, però, Manzoni doveva tenere, se il rapido accenno viene amplificato da questa stralunata vignetta di Gonin, che spezza il periodo e ci restituisce visivamente quelle che erano le paure di Renzo e Lucia:

Come pensano i personaggi dei romanzi? Conosciamo gli immaginari di alcuni, sappiamo quali sono i sogni di Chisciotte e quelli di Emma Bovary; Werther e Ortis ci hanno confidato chi sono i loro eroi e quanto costi non adeguarsi a loro, ma non usciamo dalla letteratura. Anzi, i loro sogni sono letteratura al quadrato: Chisciotte pensa ai cavalieri antichi, Emma Bovary alle eroine dei romanzi e del melodramma, Ortis legge Plutarco e Werther declama Omero e Ossian… si potrebbe tornare a Paolo e Francesca che capiscono qualcosa dei loro caotici sentimenti solo attraverso le azioni immaginarie di Lancillotto e Ginevra.

Non si esce dalla letteratura e, soprattutto, dalla parola scritta. Al contrario Manzoni ci porta in un immaginario illetterato e analfabeta. Ai margini della vicenda principale, il narratore si fa antropologo e investiga un mondo mentale dove non esistono confini netti fra il cielo e la terra, fra il giorno e la notte, ma ogni cosa è permeabile, aperta, modificabile.

L’indagine storiografica del romanziere si allarga a nuove, sorprendenti regioni, il suo sguardo penetra nell’inconscio collettivo delle paure, dei deliri, in un momento storico in cui queste credenze non sono ancora elementi di un folclore oleografico, ma determinano concretamente le azioni degli uomini nelle vicende della piccola cronaca e della grande storia.

Il Griso, da cui è cominciato questo discorso, è un galileiano inconsapevole. La grande rivoluzione scientifica stava modificando per sempre la comprensione del cosmo, mettendo il sole al centro di un universo meccanicista, svuotato da spiriti e fantasmi, ma colmo di materia in movimento. Era iniziato il tempo del movimento puro, senza bisogno di un Dio a costituirne l’origine: il tempo delle tassonomie e delle catalogazioni della realtà per quella che è.

Un nuovo modo di concepire il sapere che avrebbe lentamente ma implacabilmente distrutto le fantasie delle campagne e i deliri dei cittadini. Un mondo nuovo e piatto che poteva stare tutto in un foglio di carta, bastavano penna e inchiostro per metterlo insieme; e forse per questo Renzo è così diffidente (ma stavo per dire “inorridito”) dalla scrittura che voleva incasellare la bellezza e l’irregolarità della sua esistenza nelle colonne di un elenco da riempire di generalità e dati esterni all’anima.

Se il Griso deride le streghe, molti invece credono alla loro esistenza, e non solo fra la povera gente. Nei capitoli nei quali Manzoni descrive la diffusione della peste, egli parla dell’assalto della folla impazzita alla lettiga del protomedico Ludovico Settala, autorità medica del Seicento milanese, colpevole di non aver colluso con le politiche di quanti volevano occultare il morbo per tenere tranquilla la popolazione. La moltitudine che l’attacca ravvisava in lui «il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici». L’ingiuria e la violenza sono il premio che «gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone», ma

quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei, allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito.

«Del pari con la perversità, crebbe la pazzia»: I Promessi sposi sono saturi di storia, e anche le fantasie della notte sono storiche. Per comprendere la portata del contagio, non basta il conto dei malati, dei guariti e dei deceduti, ma bisogna capire il valore simbolico che la malattia assume agli occhi dei contemporanei, indagare quali paure riattiva, quali sogni e, soprattutto, quali incubi vengono scambiati per avvenimenti reali. Possiamo immaginare il grande Manzoni intento a leggere le cronache di quel contagio e, in particolare, quelle del Ripamonti e del Tadino, con gli occhi attenti a cogliere ogni vibrazione di irrazionalità e di pazzia che poi, rimeditati nella sua pagina, diventano chiavi essenziali per accedere ad un mondo oramai perso.

Leggiamone uno:

Due testimoni deponevano d’aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come al suo rifiuto quelli se n’erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, «che sino al far del giorno vi dimororno»

Sembrerebbe il racconto di una cattiva digestione, ma siamo all’anticamera dell’orrore. Gonin si diverte a declinare il tratto allucinato e luminoso di Füssli in un interno milanese: manca lo splendore del corpo stravolto dal tumulto della mente, sostituito dall’espressione strozzata di chi sente davvero un pericolo la sua esistenza, fra le coltri di una casa non miserabile. Il lupacchiotto sotto al letto rima con l’allucinato cavallo, i gattoni hanno la stessa espressione della scimmia, ma passata al setaccio delle fiabe dei Grimm, persino le coperte si richiamano. Il russare di questo poveruomo si contrappone al silenzio sublime della sua compagna di travagli.

Anche un sogno può diventare documento, ora che tutto è storia, tutto è utile ad allargare la conoscenza sulla permanenza dell’umanità su questa terra.

L’inconscio individuale comprende sempre le paranoie collettive. Non si delira mai da soli ma, nei momenti più atroci della storia umana, il delirio è sempre generalizzato e l’occhio di una moltitudine spaventata deforma la realtà fino a renderla inconoscibile.

Il diavolo in persona passeggia in carrozza per le vie di Milano, sotto l’aspetto di «un gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia». È arrivato in città per reclutare portatori di morte, i famigerati untori e, per meglio tentare le sue prede, li porta direttamente nella sua dimora, che sembra uscita da un delirio manierista:

Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta d’un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio.

L’episodio è riportato dagli storici del tempo, è una notizia realmente diffusa ed è arrivata velocemente sino alle contrade lontanissime, se persino il vescovo di Magonza si è interessato presso il suo omologo milanese sulla veridicità della faccenda.

Siamo davvero nel mondo di Ariosto, ma soprattutto di Tasso; nel palazzo diabolico gli estremi, più che fondersi, si contrappongono, quasi si rispecchiano. Indimenticabile il tratto d’orrore dei fantasmi seduti a consiglio; la vignetta ci fa vedere questa combinazione di natura e cultura, dove la facciata del palazzo sembra una furba copertura al buio spaventoso della grotta, in cui si intravedono spettri e figure indistinte. Ma il centro è occupato dal buio che tutto vuole inghiottire: l’oscurità verso la quale è attratto il lettore, con la paura che se avvicina troppo il naso alla pagina, possa venire inghiottito da quell’abisso assoluto e inconoscibile. Non ci stupiremmo se da quella grotta, oltre alle fantasime manzoniane, uscissero anche i pagliacci assassini della narrativa dell’orrore statunitense.

Il lupo, il diavolo e i gattoni sopra al letto! Ci sarebbe da ridere, se da questo immaginario goyesco non scaturisse la cieca violenza. «Da principio, – scrive Manzoni – si credeva soltanto che quei supposti untori fosse mossi dall’ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si credette che ci fosse non so quale voluttà diabolica in quell’ungere, un’attrattiva che dominasse la volontà». Nella caldea dell’immaginario, l’untore è un messo diabolico, posseduto da una voluttà, da una attrattiva, che ne tengono in scacco la libertà dell’arbitrio. Sono uomini che agiscono sotto la deduzione di quello che Ezio Raimondi ha definito «eros stregato e delirante». Spargere morte genera il godimento. L’immaginario collettivo partorisce i suoi mostri. Il ricordo degli untori lacera il mondo finzionale del romanzo e porta nel testo la violenza di una giustizia amministrata per compiacere il ventre e i sensi grossi delle masse. Il famoso processo della Colonna Infame, quello a cui Pietro Verri aveva dedicato le Osservazioni sulla Tortura e Manzoni l’appendice storica al romanzo. Due uomini, due innocenti, Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza vengono torturati, giustiziati come untori, e le loro case vengono abbattute. Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune. Il cristiano esercita la propria libertà, dice Manzoni in quella pagina, non arrendendosi all’orizzonte comune, ma seguendo la ragione e la pietà. Il ripudio della libertà, della ragione e della pietà hanno portato all’uccisione di due esseri umani: «un olocausto di innocenti, attuato e subìto dalla società milanese-lombarda del secolo barocco», secondo le parole, bellissime e tremende, di Ezio Raimondi.

Finora abbiamo visto il narratore affrontare il terreno dei sogni e delle fantasie come un campo estraneo, nel quale si muove col passo dell’antropologo che osserva senza partecipare, ma in una scena del Fermo e Lucia vediamo come persino lui, il narratore intriso di cultura illuminista, conservi nel fondo dell’anima un residuo delle storie e delle leggende popolari. Parlo di Rodrigo che, nei Promessi Sposi, chiude la sua esistenza nel disfacimento e nel delirio della peste; nel Fermo, invece, la sua vita si chiudeva con la sfida suprema all’ordine divino. Dopo aver riconosciuto, fra le ombre del lazzaretto, Fermo, Lucia e Cristoforo, nella «mente sconvolta» dell’appestato si era ridestato «l’antico furore», assieme al «desiderio della vendetta covato per tanto tempo». Moribondo, Rodrigo tentava la disperata affermazione di sé: balzato «su le schiene» di un cavallo lasciato libero dai monatti «e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagne, e spaventandolo con gli urli, lo fece movere, e poi andare di tutta carriera» verso la chiesa del lazzaretto, fino a quando l’animale, «spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s’inalberava, e scappava vie più verso il tempio».  La carriera del libertino si chiudeva coi toni esasperati dell’ordalia «“Giudizii di Dio!” disse il padre Cristoforo: “Preghiamo per quell’infelice”».

La fine di Rodrigo richiama la cavalcata dei morti del folclore europeo. Il romanticismo europeo, l’immaginario stravolto della Germania si stava facendo strada a Milano, sia grazie alle letture delle opere della baronessa de Staël, impareggiabile mediatrice culturale fra Europa gotica ed Europa latina, sia alle traduzioni e alle riflessioni critiche di Giovanni Berchet, traduttore dei versi di Bürger e teorico di una poesia che affondasse le proprie radici nell’immaginario dei popoli. In un saggio di qualche anno fa, Francesco de Cristofaro ha ricostruito i rapporti di Manzoni con queste idee, analizzandone le presenze e i rimaneggiamenti, le nuove declinazioni, le censure e le rimozioni del Manzoni romanziere rispetto ad un mondo letterario e poetico – quello del romanticismo nordico – che non lo lasciava indifferente, pur se in contrasto con le sue idee. La scena del Fermo appena letta va ad alimentare il dossier della storia notturna dei Promessi Sposi.

Manzoni è uomo di complesse sintesi: illuminista e cristiano, ma allo stesso tempo romantico, nell’accezione milanese del termine, quindi lontano dagli eccessi e dai compiacimenti dei letterati d’oltralpe e interessato a raccontare le vite dei popoli, a investigare quanto gli storici avevano fino a quel momento trascurato. Nella sua Storia dei Longobardi, Manzoni eleva a suo modello ideale una fusione di Muratori e Vico, ossia della grande erudizione e della filosofia investigante e visionaria.

Per quanto Renzo diffidi della scrittura, è proprio questa che permette al suo mondo di esistere e di arrivare fino a noi. Manzoni evoca di continuo l’immaginario dei suoi personaggi, a volte con tenerezza, ma più spesso con diffidenza e orrore, e lo fa consapevole del pericolo che la superstizione ed i falsi miti arrecano alla vita associata. L’uso della ragione e della pazienza, insieme all’esercizio della pietà e del perdono fanno disperdere le ombre che rattristano l’orizzonte. Ma nella periferia del racconto insiste un mondo di storie, di leggende, di consuetudini che rendono questo romanzo più ricco di altri testi del suo tempo. Secondo Giorgio Manganelli, Manzoni era il solo scrittore italiano paragonabile ai russi. Ed è vero, c’è tanta aria di famiglia con Dostoevskij, ma anche con altri creatori di mondi, come lo sterminato Tolstoj, il bizzoso Gogol e il notturno Leskov.

In questi romanzieri, come in Manzoni, si sente il respiro del mondo, e il mondo non è un animale addomesticabile.

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Sound Track: Jean-Philippe Rameau, Le rappel des oiseaux -> play

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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