Pedologi (sillabario della terra # 12)

di Giacomo Sartori

La terra viene studiata dai pedologi, adepti che scavano buche per vedere come è fatta in superficie e anche in profondità, cercando insomma di capirla nella sua oscura interezza. La loro disciplina non è molto conosciuta, e ancora meno gode di prestigio, ma per loro è quasi un elemento di distinzione. Per carpire meglio i segreti della terra si infilano armi e bagagli nelle buche che fanno o fanno fare, annegando fino alle spalle o anche più, e adempiono i loro seriosi rilievi senza timore di sporcarsi, come fanno anche i bambini che giocano. In genere sono affabili e alla mano, e forse anche un po’ ingenui, quindi il paragone non è del tutto casuale. Il loro modo di procedere è del resto prevalentemente descrittivo, cosa che rimanda ai primi vagiti della scienza.

Seppelliti nelle loro buche i pedologi scrutano con zoomate di filatelici questo e quello, trovano conferme delle teorie della loro disciplina, misurano e riempiono schede. Transustanziano il colore della terra e la sua consistenza e tanti altri attributi in codici numerici, visto che al giorno d’oggi tutto deve essere metamorfosato in cifre da dare in pasto alle voraci pance dei computer. Alcune di queste determinazioni nei fatti non servono a niente, anche travestite in segni matematici restano troppo soggettive, ma per vecchia abitudine, che forse è anche ostinata pignoleria, loro le eseguono lo stesso. Per ultimo prelevano i campioni destinati al laboratorio, quasi preparando un’offerta propiziatrice. Si intuisce che sotto la navigata distanziazione scientifica amano toccare e odorare la terra, che hanno una sedimentata dimestichezza con lei, che forse non ha nulla di scientifico. Si direbbe che provino piacere, a stare lì dentro a sporcarsi.

Io stesso, sono anch’io un pedologo, quando sono in una buca perdo la cognizione del tempo e di me stesso, e mi lascio cullare dagli odori di umido e di funghi. Mi sforzo di coglierne il meglio possibile i vari dettagli della sezione terrosa che ho davanti, e questa tensione mi assorbe completamente. Forse proprio perché so bene che molti aspetti mi sfuggono, e che non posso capire tutto. E anzi so che quello che comprendo è molto limitato. Ma certo non si tratta di una pura concentrazione cerebrale con qualche spruzzatina filosofica, le sensazioni fisiche restano sempre presenti. Spesso chi mi sorprende così dedito mi domanda quale è il mio vero impiego, non possono pensare che quello sia un lavoro retribuito.

Quando rientrano nei loro uffici, alle pareti dei quali ci sono sempre scolorite fotografie o anche polverose sezioni di terra, i pedologi tirano le somme dei rilievi, perdendosi nei meandri delle loro arzigogolate classificazioni. Sono lingue simili a quelle degli uccelli, chiunque le orecchi arguisce che alla base c’è dell’entusiasmo e una fiducia nella vita, ma senza penetrarne anche un solo suolo. La tassonomia più in uso in Italia manco a dirlo è statunitense, una colonia resta una colonia, e contorce la bocca in ardite ginnastiche: Vitrixerandic Haplocryepts, Acrudoxic Thaptic Hapludands, e via dicendo. Loro però non sorridono, perché considerano l’inquadramento tassonomico una essenziale investitura scientifica, quasi un sacramento. Del resto non è solo colpa del loro puntiglio eccessivo, è la terra che è ostica, e che ha mille tipi e sottotipi, ciascuno con infiniti intergradi con quelli più vicini.

La loro precipua attività è però elaborare le carte pedologiche, dove macchie colorate segnalano la presenza dei vari tipi di terra nelle varie porzioni dei paesaggi. Di solito le chiazze sono molto frastagliate, fanno pensare a fiordi norvegesi, perché i suoli cambiano passando da qui a lì, rifuggendo la regolarità geometrica. Ogni carta ha poi un’aureola di scritte con nomi astrusi e simbolismi che nemmeno gli egittologi capiscono bene. Ora queste mappe si fanno e si guardano sugli schermi, ma la decifrazione per i non addettissimi ai lavori resta egualmente preclusa.

Le montagne in genere le lasciano in pace, seppure a malincuore, visto che ai loro occhi le terre più selvagge e più belle, e anche più importanti, sono lì. A nessuno dei loro riluttanti committenti interessa però sapere com’è la terra delle asperità prive di campi e case, senza la più remota possibilità di cavarci dei guadagni. I loro rapporti con chi tiene i cordoni della borsa non sono mai facili, in effetti: nell’epoca della velocità e dell’automazione fanno fatica a spiegare che i loro rilievi sono certosini e macchinosi, e ancora più faticano a farseli pagare in maniera dignitosa.

Ogni pedologo/a sa bene che chi decide dei destini commerciali delle terre, o anche solo progetta gli impianti di irrigazione, non tiene conto delle sue mappe, perché non ci capisce niente, o più semplicemente non vuole perdere tempo. Del resto lui stesso/lei stessa pensa che esse non rappresentino tanto bene la realtà della terra, così complessa e inafferrabile, e vadano prese con le pinze. Lui stesso/lei stessa non ne è pienamente soddisfatto/a, questa è la più profonda verità, e ritiene quindi che chi le ignora o insomma le sottovaluta non ha poi tutti i torti. Alla base della loro carenza di autorevolezza c’è insomma qualcosa di torbido, assimilabile per certi aspetti a un complesso di colpa, alla consapevolezza di un peccato originale. È difficile riuscire a convincere, quando si hanno troppi dubbi.

Sanno di essere una specie in via di estinzione, il che non è incoraggiante per nessuno. Constatano che ormai sono ascoltati solo gli specialisti di certe branche più alla moda, che vedono un’unica faccia della terra, e non sanno nulla delle innumerevoli altre. Osservano questi azzimati esperti che sfoggiano i loro corredi di strumenti e gerghi, e sono un po’ gelosi che siano considerati molto più scientifici dei loro, molto più al passo dei tempi. Reputano, e non hanno tutti i torti, che solo loro hanno una visione d’insieme, e possono fondere assieme quello che scoprono i vari tecnoscienziati con i paraocchi. Si dicono che la terra è un ostico puzzle che nessuno sa assemblare, anche perché a differenza di un vero puzzle i pezzi si incastrano molto male, o non si incastrano affatto.

Tendono allora a essere un po’ lamentosi, sconfinando troppo spesso nei complessi di persecuzione, il che non li aiuta a trovare dei fondi. Accusano i tempi, senza rendersi conto che sono loro i primi a essere anacronistici. Nell’era dell’euforia per i sensori e per le macchine intelligenti loro continuano a cercare di capire come si capiva duecento anni fa, osservando e ragionando, annotando con la matita, stilando cataloghi e classificando. Certo, usano come tutti GPS e immagini satellitari e banche dati elettroniche, ma sono convinti che nessun marchingegno ci capisca meglio di loro, reputano che la loro esperienza lo provi in modo inconfutabile. Non sono cose facili da spiegare in questi tempi, se ne rendono conto essi stessi.

Chi maneggia le sorti dell’agricoltura e dei territori non ama però i distinguo e le spiegazioni arzigogolate. È avvezzo a ubbidire ai dettami perentori dell’economia, non apprezza le incertezze e le titubanze, le considera sofismi inutili. Ascolta di preferenza chi stando dietro a ampi schermi sforna cristalline mappe con pretese di precisione nanometrica. In quelle stanze con il brusio delle ventole dei computer la terra tutta sporca e disordinata non è mai entrata, e anche i pedologi vestiti in genere in maniera trasandata, o insomma con capi comodi da esploratori, non sono invitati. Lì si dà retta piuttosto alle equazioni e alle promesse magniloquenti di una branca che va di moda in quel momento, come l’intelligenza artificiale.

Versando lacrime di rabbia sulla parabola commerciale del mondo, i pedologi  si chiudono ancora di più nei loro borborigmi tassonomici. Proclamano che ormai si punta alla loro sparizione fisica, visto il poco lavoro che ricevono: nessun giovane sensato può seguire le loro tracce. E allora un giorno non ci sarà più nessuno in grado di capire la terra: i suoi nemici potranno ingaggiare contro di lei una battaglia finale. Si considerano martiri che stanno morendo nelle trincee per difendere palmo a palmo la terra. Il bello è che hanno perfettamente ragione, anche se naturalmente non sono eroi, ma semplici brontoloni che amano la terra.

Poi però è sufficiente che spunti la possibilità di andare a studiare le terre di una regione che non conoscono, e si ringalluzziscono. Subito tornano di buon umore, perché adorano calarsi nelle loro buche fresche e odorose di ife fungine, utilizzando i loro metodi descrittivi tanto deprecati. Spesso i veri moventi dei loro committenti non sono tanto limpidi, a volte è in gioco solo l’immagine pubblicitaria, ma loro sono solo ansiosi di sporcarsi di una terra esotica, spesso addirittura eccitati. Partono alla scoperta di vergini contrade ai loro occhi ammantate di fascino tellurico, e non pensano più alla loro estinzione ormai prossima. Come tutti gli ingenui si dicono che forse poi le cose miglioreranno.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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