Moravia e la sabbia magica

di Fernando Bassoli

Credevo fosse l’Africa: era solo Sabaudia, ma nel 1981 avevo dodici anni e le bianche mura dell’albergo delle vacanze mi sembravano quelle del palazzo di un romanzo d’avventura. Sembra ieri, ma non è così. Eppure è  tutto nella mia memoria: le palme che facevano capolino dalla vegetazione, simili a colonne di templi dalla cupola smeraldina, le staccionate di canne avvinte dai rampicanti, il viluppo sinuoso di policromie floreali, una scala interminabile che s’inabissava verso la spiaggia in un baccano di zoccoli, il bagnasciuga di velluto blandito dal respiro complice della natura, la tavola rassicurante di un mare blucobalto e il colore carminio del tramonto, estrema scintilla di vita di quelle giornate di fiaba…

Poi ricordo un pomeriggio speciale, quando incontrai un uomo misterioso, ormai di una certa età. Stava per conto suo, seduto nella sdraia, sotto un ombrellone. Il viso ben rasato, il capo reclinato, quasi fosse troppo pesante. Pareva aspettasse qualcosa o qualcuno. E qualcosa in effetti arrivò: il mio pallone lo colpì mentre era assorto nei suoi pensieri. Avevo una palla rossa con gli esagoni neri: a volte si lasciava addomesticare, altre assecondava i capricci del vento. Prese una traiettoria sghemba, si mise a ruzzolare sulla sabbia resa irregolare dai giochi dei bimbi, e gli centrò un ginocchio.

“Che succede?” sbottò.

“Mi scusi.” sibilai. Lui sorrise. Aveva il volto squadrato, con due sopracciglia bianche.

Alla sua destra notai un bastone, ficcato nella sabbia. Aveva l’impugnatura dorata, da lord inglese. Pareva un uomo che ne aveva viste di tutti i colori. In lui intuivo una certa sofferenza, forse dovuta a qualche malanno.

“Non preoccuparti.” sorrise. La voce era di porcellana. Eppure suonava fluida, nasale. Si chinò a fatica in avanti e indugiò sui miei piedi.

“E questi sarebbero piedi da calciatore? Sono troppo lunghi.” sentenziò. Io rimasi muto.

“Ci tieni tanto al tuo pallone?” rilanciò.

“Veramente me l’hanno prestato.” spiegai stentoreo.

“Come ti chiami?”

“Manuel.”

“Uhm… un nome spagnolo. Mi piacciono i nomi insoliti.” spiegò senza fretta. Ora le sue parole erano dense: sembrava di poterle toccare. Ogni tanto tossiva: doveva avere un bruscolo di catarro nella gola, da fumatore. Ad ogni sbuffo torceva la bocca. Ma subito si sforzava di rischiarare la voce.

“Io però sono italiano.” obiettai.

“Lo vedo.” commentò pacato. Mi scrutava. Poi sentì il bisogno di aggiungere qualcosa. Pian piano avevo la conferma che in quel corpo anziano si nascondeva un uomo affamato di vita.  Lo capivo dal modo in cui, di tanto in tanto, rimirava l’arruffio di fronde che adornava il Promontorio del Circeo. Gettava l’occhio verso quelle morbide linee o sulle cosce delle donne che sfilavano sul bagnasciuga. Erano guantate da costumi a fiorami, che a fatica trattenevano l’ondeggiare dei glutei e i fieri sussulti dei seni floridi della maturità. Oggi quei costumi sarebbero ridicoli, ma allora risvegliavano il desiderio, specie quando quelle donne si preparavano ad imbarcarsi sul pattino e ridevano a voce alta, senza motivo apparente, svelando bocche fiammeggianti di bagliori impuri e scambiando occhiate d’intesa.

L’uomo osservava la scena ed era chiaro che memorizzava ogni gesto e ogni dettaglio. Poi raccolse una manciata di sabbia nel pugno e la guardò cadere al suolo, lasciandola scivolare tra le dita affusolate. Solo quando la sabbia fu caduta, riprese a punzecchiarmi di domande.

“Dicevo: ti sembra così importante, la bellezza di questo posto?”

“Penso di sì. Le cose belle… sono belle da guardare.” spiegai. Dissi proprio così. Il mio viso dovette apparirgli una maschera sciocca e patetica, ma lui s’illuminò come uno che avesse trovato quel che cercava, ché fosse infine riuscito a farlo affiorare.

“Hai buon gusto: in effetti Sabaudia è un piccolo Paradiso. E sappi che questa sabbia è magica.”

“In che senso?”

“Lo capirai col tempo… Ma toglimi una curiosità: perché è così importante questo pallone, per te?”

“Perché… ci gioco!” risposi con il candore della giovane età.

“Ti ho osservato, mentre palleggiavi…”

“Davvero?”

“Secondo me sei un brocco. Il guaio è che dovresti usare entrambi i piedi. Non hai solo il destro. O forse quando fai a botte usi solo una mano?” chiosò, concludendo il ragionamento.

“Non faccio mai a pugni con nessuno. Se poi gli faccio male?”

“E bravo, Manuel: dieci e lode. Ciò vuol dire che sei un ragazzino più furbo di quel che pensavo. A che servono i pugni, quando basta parlare e spiegarsi?”

“È vero. Ma… sono tanto schiappa?” chiesi di rimando, perché nel mio piccolo ci ero rimasto davvero male. Stavolta il vecchio colse il mio disorientamento. Seguì un gemito rauco, quasi avesse inghiottito qualcosa di malavoglia. Allora mi accucciai sul pallone. Non ci avevo capito niente, ma di una cosa ero sicuro: la compagnia di quell’uomo mi faceva stare bene. Forse avevo trovato un nuovo amico.

“Tu che lavoro fai?” lo incalzai.

“Io? faccio lo scrittore.”

“E cosa deve fare uno scrittore?” domandai con aria trasognata, perché quella parola, pronunciata in punta di lingua, m’era suonata ambigua, inusuale.

“Deve imparare ad ascoltare i battiti del silenzio.”

“Cosa vuol dire?”

“Deve raccontare quello che gli altri non vedono.”

“E perché non vedono? sono ciechi?”

“In un certo senso sì. Più che altro sono ottusi. Vedi, la Letteratura… Hai presente un ventilatore? quando lo azioni, ad un certo punto le pale girano sempre più in fretta… finché ti sembra di vedere una nube e non si vede più nulla. Eppure qualcosa c’è. Bisogna essere bravi a capire cosa. E raccontarlo agli altri, per farlo vedere anche a loro.” spiegò. Mi girava la testa, ma non lo davo a vedere: al contrario annuivo, fingendo d’aver capito.

“Dimmi: ti piace leggere?”

“Certo, adoro i fumetti!” risposi, e i suoi occhi sfavillarono. Bisbigliò poi un commento a mezza bocca, ma una brezza si levò tra le file degli ombrelloni e un fremito gli percorse il viso, quasi avesse colto una minaccia nell’aria.

Un attimo dopo si sollevò dalla sdraia, afferrò il bastone con la destra e s’incamminò verso il bar, risalendo la spiaggia in diagonale. Lo circondava un’aura luminosa, carica di mistero. Mi accorsi che tutti lo osservavano ossequiosi, scambiando timidi cenni di saluto, ma lui era indifferente, distaccato in maniera forse inconsapevole, eppure spopolava senza battere ciglio. Per farsi amare, gli bastava essere sé stesso, sempre impelagato nel nebuloso polverone di riflessioni che gli affollavano la mente. Lo seguii come un cagnolino, assecondando l’istinto e la curiosità senza sapere perché. Dopo avere percorso il vialetto a fianco della piscina, si volse e mi sorprese dietro di lui.

“Che fai ancora qui? Vai a giocare col tuo pallone. Devi allenarti… o vuoi restare un brocco per tutta la vita?” borbottò. Poi mi diede un buffetto sulla guancia e cominciò a salire la lunga scalinata. Mi accorsi che i suoi passi erano stranamente leggeri, quasi che, smessi i miseri panni umani, avesse i piedi sollevati di un palmo da terra. Alzai gli occhi al cielo, richiamato da qualcosa di anomalo. Era ancora giorno, ma la volta celeste brulicava di stelle. Aveva ragione lui: la sabbia di Sabaudia era magica.

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Lisa Ginzburg ha scritto i romanzi Desiderava la bufera (Feltrinelli 2002), Per amore (Marsilio 2016, Au pays qui te ressemble, Verdier 2019), Cara pace (Ponte alle Grazie 2020, candidato al Premio Strega), le raccolte di racconti Colpi d'ala (Feltrinelli 2006, Premio Teramo 2007) e Spietati i mansueti (Gaffi 2016, Premio Renato Fucini 2017), i mémoir Malìa Bahia (Laterza 2007), Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italo Svevo 2017) e Pura invenzione. Dodici variazioni su Frankenstein di Mary Shelley (Marsilio 2018). Collabora con Avvenire.
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