Grossman, attualità della guerra
Lisa Ginzburg
Il 7 Aprile è uscita su “Avvenire” la recensione al romanzo “Stalingrado” di Vasilij Grossman (Adelphi, traduzione di Claudia Zonghetti) qui ripubblicata.
“Le fiamme divampavano ovunque, appiccate da decine di migliaia di bombe incendiarie… Enorme, la città si spegneva tra il fumo, la polvere e il fuoco, nel boato che scuoteva il cielo, l’acqua e la terra. Lo spettacolo era tremendo, ma ancor più tremenda era la morte negli occhi di un esserino di sei anni schiacciato da una trave di ferro. Perché se esiste una forza capace di risollevare dalla polvere di città enormi, non c’è forza al mondo in grado di risollevare le palpebre dagli occhi di un bambino morto”.
Delle quasi novecento pagine di cui si compone Stalingrado di Vasilij Grossman (traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi, pp. 884, euro 28) quel che forse più impressiona e colpisce al cuore come un pugno è la sensazione di irreale eppure evidente attualità di questa poderosa ambientazione storica. Leggiamo dell’assedio di Stalingrado, la più flagrante e mortifera sconfitta dell’asse tedesco/italiano durante il secondo conflitto mondiale; una tragedia di guerra lontana nel tempo, ma il cui odore acre di morte, così come l’insensata conseguenza dello scatenarsi, perdurare, non finire del conflitto, coincidono con sensazioni contemporanee, odierne: attuali in maniera cupa e incontrovertibile. La furiosa battaglia scatenata contro la città di Stalingrado, quell’assedio che nelle menti di Hitler e di Mussolini sarebbe dovuto essere “immane, tremendo e definitivo” e che trovò invece straordinaria resistenza degli abitanti russi, vittoriosi nel respingere gli invasori, diversamente formulata e posizionata ci ricorda in modo drammatico gli orrori bellici cui da settimane assistiamo immersi a navigare in rete nei nostri computer, leggendo i giornali e guardando i telegiornali. Qui, grazie alla prosa somma dello scrittore Grossman (restituita in una lingua italiana fluida e particolarmente esatta dalla traduttrice Claudia Zonghetti, già preziosa interprete dell’altro capolavoro di Grossman, Vita e destino, Adelphi 2008) conosciamo la guerra non vedendo immagini, ma piuttosto leggendo un romanzo, un grande romanzo. Eppure l’angoscia e l’incredula pena che le sue pagine depositano in noi sono paradossalmente e senza dubbio vicine a quelle emozioni angustiate che da settimane attanagliano le nostre percezioni: nostre di oggi, delle vite di noi, cittadini d’Occidente nella primavera dell’anno 2022 del ventunesimo secolo.
“La scrittura di Grossman eclissa quasi tutto quanto in occidente oggi viene preso sul serio” ebbe a considerare il grande critico George Steiner. Parole prive di enfasi, perché densità e spessore letterario delle pagine grossmaniane sono evidenti, riconoscibili senza esitazione come lo è l’arte quando muove da necessità ed è dominata e veicolata secondo i più puri dettami del talento. Se possibile più ancora che in Vita e destino, qui, in Stalingrado (che Vasilij Grossman aveva pubblicato a puntate sulla rivista “Novyj Mir” nel 1952 con il titolo Za pravoe delo, (Per una giusta causa) ), straordinaria è la tecnica romanzesca che contraddistingue lo scrittore. Una tecnica capace di legare le vite dei singoli al corso della Storia. Ogni microcosmo di biografia individuale va a convergere nella sorte collettiva della guerra, quella guerra che “in quel momento era il mare in cui sfociavano tutti i fiumi e da cui tutti i fiumi nascevano”. Perché la Storia, e il saperla leggere, capire, romanzare, significa empatia: osservare un soldato, immaginare cosa stia pensando, individuare in quell’istante, in quei suoi muti pensieri supposti e solo figurati, il punto di svolta di un intero conflitto. E la guerra, oltre a fare da sfondo ad amori, gioie, dolori, allontanamenti, ricongiungimenti tra donne e uomini dai cuori ancora palpitanti e vivi nonostante il fiato della morte sparga ovunque il suo tetro silenzio, la guerra marchia tutto della sua impronta insensata. Mette in risalto ciò che nella vita conta e quel che invece non val nulla, è meschino, di nessun peso. Di nuovo, pare di leggere del nostro presente: per come, tra le righe del suo fluviale racconto, Grossman è sapiente incastonatore di riflessioni, in merito ancora una volta alla guerra. Meditazioni sul male, sul suo perdurare e inesausto distruggere; su quanto ogni guerra, proprio nella sua inutilità, sia un terremoto le cui scosse si assestano seminando un’angoscia che quella anche a sua volta necessita di moltissimo tempo per assestarsi, trovare uno spazio tra il dolore e lo sdegno insopportabili, e quella vita che invece, nella sua febbre, inevitabilmente va avanti, prosegue il suo corso. Sempre e comunque. Fu grande reporter Vasilij Grossman, e la sua penna di giornalista gli impresta la sicurezza necessaria per descrivere, da narratore, le figure di Hitler, Stalin, di gerarchi nazisti e di capi di battaglioni e di armate sovietici. “Chi compie crimini contro l’umanità è un criminale, e non smette di esserlo perché la storia serba memoria di quanto ha commesso: sono le sue devastazioni che i secoli ricorderanno. Non sono eroi: sono carnefici e sono farabutti. Sono figli di forze oscure e cieche”. La grande letteratura ha tra le sue capacità questa, spiazzante: sbalzarci dal passato e presente come non fosse trascorso nemmeno un giorno. Lo fece in Guerra e Pace il Tolstoj narratore da Grossman amatissimo, che anzi fa capolino, lui e la sua dimora di Jasnaja Poljana, nelle pagine di Stalingrado E nel mentre racconta di un mondo in fiamme, dove ogni valore umano pare bruciare tra le lingue di fuoco di una gigantesca pira assurda, sconsiderata, con la forza d’impianto del suo romanzo Vasilij Grossman nondimeno celebra la vita, non smette di celebrarla. Accadeva in Tolstoj, accadeva in Vita e destino, accade in modo emozionante in Stalingrado. Fiume copioso di un lungo racconto nel cui letto, accanto alla città assediata e distrutta, giacciono come rivoli storie di individui vivi e dai cuori pulsanti nonostante la morte muova e sbatta le sue grandi ali sopra le loro teste, sopra i loro destini, sopra le loro salvezze, e i loro riscatti mancati, cosi tante (troppe) volte sino alla morte.