Da poeta a traduttore: la memoria vivificante di Seamus Heaney

 

Di Matteo Bianchi

Seamus Heaney fu affine a Giovanni Pascoli ancora prima di conoscerne l’opera. A testimoniarlo con una sinestesia d’antan è il secondo verso del secondo dei Glanmore Sonnets: «Words entering almost the sense of touch» – «parole che quasi penetrano il senso del tatto», tradotto da Paolo Febbraro in Fild Works (1979). E il delicato understatment del “quasi”, il modesto pudore dell’avverbio di quantità, libero da trionfalismi, conferma la polisemia e la completezza sensoriale, ossia il “sensing” tipico del poeta nordirlandese.

L’antologia On Home Ground – Come a casa e Given Notes, il numero 3 (anno II) del semestrale “Laboratori critici”, editi entrambi da Samuele e curati, rispettivamente, da Marco Sonzogni e Leonardo Guzzo, sono incentrati sull’organicità della produzione heaneiana e argomentano come, sia il poeta sia il traduttore, attingano alla medesima radice essenziale. Il Nobel non tradusse mai per professione, anzi, lo considerava un atto prevalentemente pratico e di matrice empatica. Ogni volta che si approcciava a un testo stabiliva con l’autore esaminato una corrispondenza tra l’oggetto da interpretare e un lembo del proprio immaginario; come motiva Irene De Angelis nell’articolo “Come a casa: Seamus Heaney, Derek Mahon e Michael Longley”, Heaney componeva «nella sua casa e della sua casa, nella sua patria e della sua patria», e lo dichiarava sin dal primo distico della sua prima raccolta: «Between my finger and my thumb / The squat pen rests; snug as a gun» – «Tra il mio pollice e l’indice riposa / la tozza penna, comoda come una pistola» (M. Sonzogni, Digging, 1966). D’altronde, era figlio di un contadino, Patrick Heaney, e lo diventò lui stesso sostituendo la penna alla vanga, ma senza scordare l’attitudine di scavare, l’umiltà di adagiare l’orecchio al suolo per poi andare in profondità e mantenere vivido il contatto con la terra originaria.

Nella foto in copertina a On Home Ground, scattata da Bobbie Hanvey in una torbiera di Bellaghy, il borgo natio in Irlanda del Nord, nel 1986, Heaney impugnava il bastone del padre, e ne indossava cappotto e cappello: il poeta indossa simbolicamente gli abiti di chi lo ha preceduto, di chi lo ha cresciuto, pur non avendone più bisogno – diversamente da ciò succedeva abitualmente sino agli anni Cinquanta del XX secolo, specie in un contesto povero – prendendosi amorevolmente carico delle spoglie altrui, e coltivandole mentre si sdruciscono nuovamente all’aria fredda della campagna irlandese. Svestendosi del giudizio del presente, Heaney si assumeva la responsabilità di tramandare qualcosa: «All that “Do unto others / As you would have done unto you”? / Mistaken? Virtue?» – «Tutto quel “Fa’ agli altri / ciò che vorresti fosse fatto a te”? / Un errore? Virtù?» (M. Sonzogni, On the gift of a fountain pen, 2013). Parallelamente, nella lirica pascoliana la figura paterna è onnipresente nella sua tragica assenza. Un’assenza bevuta talvolta con voluttà, il pianto delle stelle di San Lorenzo che in silenzio ha agito dentro Heaney durante la lettura, mescolandosi alla sua musa più gutturale e più virile.

 

DENTRO LA CONTRADDIZIONE

Con l’inchiostro Heaney portava sul foglio il frutto di uno scavo interiore, filologico, perché sentiva che le parole lo perquisivano: le sue origini rurali avevano ingenerato in lui un profondo senso di colpa. Sin dall’esordio era stato cosciente dei tratti di superiorità e di inferiorità della lingua madre, della dialettica che s’instaurava nel frangente della scrittura tra potenza e insufficienza linguistica di fronte alla stratificazione della realtà; perciò la faceva echeggiare, nominando e convocando la materia sulla pagina. Se da poeta Heaney scriveva “a casa”, da traduttore lo faceva “come a casa”. E Come a casa è la traduzione che Leonardo Guzzo da infedele, ma veritiero, rende del titolo della lectio magistralis tenuta all’Università di Bologna, nel 2012, per il centenario della morte di Pascoli: letteralmente “su un terreno familiare”, se si rinunciasse all’immediatezza e all’icasticità della lingua inglese. “Come a casa” condensa, perciò, il bisogno del poeta di entrare nella dimora immaginifica altrui e di arredarla con il proprio mobilio esistenziale, tastando così la familiarità indispensabile per praticare l’atto della traduzione. L’incontro tra Heaney e Pascoli non fu volontario, ma per questo non meno fatidico: nel 2001, il poeta si recò a Urbino per ricevere una laurea Honoris Causa e l’amica docente Gabriella Morisco gli fece leggere pubblicamente L’aquilone. Proprio la sovrapposizione tra l’aquilone lanciato in volo dai bambini pascoliani e il colle ventoso marchigiano, tra un passato remoto e un’anonima contingenza, gliene ricordò un altro dalla lunga coda, un correlativo oggettivo “fatto in casa”, in carta pesta, involato proprio dal padre Patrick di fronte alla truppa dei suoi figli piccoli in libera uscita. Ma ancora, in conclusione alla lirica pascoliana risalta tragico un bimbo che muore, mutando improvvisamente l’atmosfera dei versi, che non poteva non agganciarsi alla scomparsa di suo fratello, all’età di quattro anni, a causa di un incidente, e al quale il poeta dedicò Mid-Term Break, che pure è contenuta nella raccolta del ’66, Death of a Naturalist: durante la guerriglia civile a Belfast e nonostante la conseguente sofferenza che si aggiunse alla precarietà di quel periodo storico, il poeta sceglieva un titolo sentitamente contradditorio. In Morte di un naturalista si staglia sia l’esigenza di andare oltre il reale impostoci dalla vista, sia l’incapacità di poterlo fare coerentemente. È doveroso distinguere qui l’atto volontario di ricordare un dettaglio utile al compimento di un’azione abitudinaria – un debito di coscienza – dalla memoria involontaria che si compone del dimenticato quotidiano, che non serve strettamente per vivere, ma che risorge proustiana con moti inaspettati.

 

IL GERUNDIO DEL VERBO “MORIRE”

L’uno e l’altro, immersi in due secoli precari e violenti, si fecero sopraffare dagli affetti: ognuno a suo modo rispondeva al fallimento della storia maestra con il proprio segmento personale e procedendo per allusioni spesso non immediate, evitando che lo strazio del presente finisse per ricattarli. L’unico modo condiviso affinché le parole non morissero, espunte da un tempo immemore e aggressivo, fu proprio proiettare su di esse i rispettivi affetti.

Nel laboratorio di Heaney la fase della traduzione era anticipata dall’incorporazione: l’aveva già vissuto con Virgilio, praticando così un esercizio di riconoscimento fuori da qualsiasi gogna temporale: prendeva dei versi di Pascoli, parimenti a quelli prelevati dal Libro Sesto dell’Eneide, e li inseriva nel componimento che avrebbe sigillato la sua Human Chain (2010). Un componimento che Heaney destinò ad Aibhín, nome gaelico con cui la nipotina veniva appellata in famiglia, che invera la tradizione orale del suo bacino culturale. Egli decise di destinarla a lei in quanto rappresentazione di un lascito immateriale, letterario ma prima di tutto umano: «Rises, and my hand is like a spindle / Unspooling, the kite a thin-stemmed flower / Climbing and carrying, carrying farther, higher» – S’innalza, e la mia mano è come un fuso / che si svolge, l’aquilone un fiore dallo stelo sottile / in ascesa, e porta lontano, più e più lontano, più in altro» (Luca Guerneri, A kite for Aibhín, 2010). I versi pascoliani donati simboleggiano un’eredità valoriale che lo aveva preceduto, ricevuta in dono da altri, e che avrebbe dato seguito alla cosiddetta “catena”. Solo in un secondo momento sopraggiunse la decisione di tradurre integralmente L’aquilone, tendando di riprodurre, sebbene con inventiva, l’endecasillabo pascoliano e la terza rima. Fronteggiare un’armatura metrica tanto resistente nel tempo fu per lui un esercizio tecnicamente difficile, che lo spronò a mettere in campo una strategia creativa e ad attuare delle forzature. Dietro un’apparenza talvolta emozionale e naturalistica, Pascoli era un poeta fono-simbolista che lavorava caparbiamente a una rimotivazione, a una rifondazione della lingua: stando a Tradurre è abitare la poesia, l’intervento di Federica Massia che segue le versioni pascoliane, egli voleva ritrovare il significato delle parole attraverso il suono, anticipando il contenuto semantico che veicolano.

 

LETTERATURA ED ESPERIENZA

Heaney scelse sempre le poesie di Pascoli in base al rapporto che riusciva a istituire con esse, non limitandosi a un segmento della sua esperienza personale, ma attingendo anche a quella letteraria. Possedeva una memoria gorgogliante e l’esempio più calzante rimane La cavalla storna (1903): il punto di contatto tra i due autori avvenne tramite il ricordo di una canzone popolare del Settecento, il lamento di Airt Uì Laoghaire, nel quale la moglie Eibhlìn canta la morte del marito, un giovane capitano irlandese ucciso da una pattuglia di soldati inglesi – la medesima contrapposizione che ritorna fatale nei Troubles della sua prima infanzia – e il cui cadavere viene lasciato senza riguardi sul ciglio della strada. Il cavallo che dovrebbe riportarlo a casa, torna da solo con le briglie insanguinate: la moglie le nota e angosciata dal presagio mortifero, monta in groppa all’animale per ripercorrere al galoppo la strada a ritroso e raggiungere il marito. La canzone incalza: «senza papa o vescovo / o chierico o curato / a mormorarti preci, / solo una vecchia al tuo fianco», avvolta nel suo manto ad annunciare la morte. La moglie si inginocchia di fianco al corpo trucidato, con il sangue che scorre ancora a fiotti e non lo pulisce, bensì la raccoglie nei palmi per berlo. Si tratta di un dettaglio fosco, macabro, che non si coniuga con l’immaginario del rigoglio pascoliano, ma fu utile a Heaney per comprendere il sentimento depositato nel testo. Non a caso, il Nobel confidò a Paolo Febbraro, convogliato tra i traduttori dell’Oscar Mondadori a lui recentemente dedicato, che l’erotismo del poemetto Digitale purpurea (1898) l’aveva conquistato: rispetto a D’Annunzio, Pascoli era più sensuale, anche se in maniera più segreta, più turbata, e dunque più efficace nel frantumare la tenuta del verso tramite il dialogo nell’hortus primigenio tra la bionda Maria e la bruna Rachele, tra la presunta conservazione e l’adempimento fantastico-carnale della sensualità. La resa di Heaney nello schioccante monosillabismo anglofono riesce a sconfinare nel senso del tatto: « “Maria!” “Rachele!” The hands of both are pressed / Together tighter still. In that moment they have seen / Their childhood, the dear world of the past» – «“Maria!” “Rachele!” Un poco più le mani / si premono. In quell’ora hanno veduto / la fanciullezza, i cari anni lontani».

 

UNA LINGUA PER UNA MOLTITUDINE

Nella premessa alla sua traduzione al Libro Sesto Heaney afferma di porsi nei confronti del testo antico «come uno studente su una versione di latino». È un approccio amatoriale, ma nell’accezione più alta del termine: l’approccio di un amatore, di colui che cerca di cogliere le pulsioni recondite, oltre qualsiasi nozione e struttura linguistica. Di certo, per lui rimase un deficit che compensava con l’ampiezza della sua sensibilità: fino alla fine Heaney si definì un “apprendista traduttore” come Hemingway si definiva un “apprendista scrittore”, poiché entrambe sono attività espressive eternamente in fieri, ed era consapevole di essere un modellatore imperfetto di una materia per sua natura instabile, perfettibile. Quando non poteva salvare le parole, Heaney tentava di salvare il senso, sino ad arrivare al sentimento del verso, mediando sempre tra la voce, il portato poetico e l’idea di bellezza della fonte. Accostandosi ai poeti italiani pure nella difficoltà di comprensione, a cominciare dall’idioma dantesco, era conscio di compiere anche un’operazione politica, di essere al culmine del suo digging: giunto all’humus comune da culture diverse, quali quella nordica e quella mediterranea, trovò un punto d’accordo tra sedimenti antropologici superficialmente inconciliabili. La possibilità di una conciliazione grazie al linguaggio, in quanto ricerca incessante di un terreno condivisibile tra popoli, è la missione di ogni intellettuale, secondo Heaney, nonché la speranza irrinunciabile dell’intera civiltà.

 

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2 Commenti

  1. IL MIO incontro in Heaney avvenne quando mi innamorai di lui da contadino, figlio di contadini che aveva l’obbligo familiare tacito di procurare legna per l’inverno e poi tagliarle a pezzi con
    L’accetta. E mi sentii confortato dal suo vivere vicino a chi lavora duro e poi studia .

  2. Forse non fu solo l’incontro con la poesia di Heaney ma pure con quella parte della poetica del PASCOLI che vedevo nel mio essere figlio di un operaio che per necessità fu pure boscaiolo ,ma volle che io studiassi e con gravi sacrifici mi consigliò” Io ti faccio studiare per alcuni anni, poi continua anche da,solo, se non puoi continuare a,scuola. E feci come mi fu detto. G.m

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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