Non premiatemi, sono un poeta
di Max Mauro
Sono un poeta. Negli ultimi dodici anni ho partecipato a 128 concorsi letterari.
Tengo il conto di tutti perché sono un tipo preciso. In camera, in una cartellina dentro il cassetto dei documenti, conservo le ricevute delle raccomandate di ogni singola spedizione, ché quando si spediscono cose di valore come le poesie è indispensabile la lettera raccomandata. 128 concorsi non sono noccioline.
Mica sono come Onelio che va in giro a dire di essere un pittore solo perché ha le pareti della casa piene di fogli A4 spalmati di colore. Ce ne sono perfino in bagno, così se uno va a fare i bisogni non può fare a meno di notare tanto impegno artistico e chiedersi se si trova veramente nella casa di un pittore o nel bagno di una galleria d’arte. Solo che Onelio è quasi orbo: ha gli occhiali spessi come copertoni di motocoltivatore. Il suo problema principale è tuttavia che ha un braccio solo, l’altro lo ha perso mentre viaggiava in moto con suo fratello. Stavano superando una coda di automobili in autostrada, lui era seduto dietro, a un certo punto un tipo che era in colonna ha aperto la portiera del fuoristrada. Suo fratello se ne é accorto all’ultimo momento ma è riuscito a piegarsi di lato, mentre Onelio, che era già orbo come oggi, ci ha messo troppo a capire da dove veniva il pericolo e si è trovato con un braccio mezzo tranciato. Ha avuto fortuna, poteva perdere la testa, poteva. Ma il fatto è che Onelio è mancino e il braccio che gli è rimasto è il destro. Come può dire di essere un pittore in quelle condizioni? E io, non sarei un poeta solo perché non ho mai pubblicato un verso? Mi volete prendere in giro?!! Ho partecipato a 128 concorsi, ho tutte le ricevute e non mi hanno mai rifiutato, mai, nemmeno una volta hanno rispedito indietro le mie poesie. Me ne sarei accorto perché conservo tutte le lettere e le cartoline che ricevo, anche quelle della pubblicità.
L’ho detto ad Amilcare, l’assistente sociale che fa visita a mia zia Linda tre volte a settimana. Amilcare ha l’hobby dell’editoria. Cura il bollettino della Pro Loco e aiuta in biblioteca l’ex segretario comunale che fa il bibliotecario part-time. Controlla che i libri siano in ordine e telefona a quelli che ritardano nelle consegne. Se ritardano più di una settimana sale sul motorino e va direttamente a casa loro a riprendersi il libro.
L’altro giorno l’ho incontrato a casa della zia e gli ho chiesto quando si decide ad aprire una rubrica di poesia sul bollettino della Pro Loco. E’ da un po’ che glielo chiedo. Non sono mica scemo, la poesia va di moda, gli ho spiegato. Ma lui mi ha risposto che il bollettino è una cosa seria, ci stanno i conti della Pro Loco, i resoconti della festa del mattone (che si fa in settembre) e di quella del coniglio alla cacciatora (che si tiene in primavera, ai primi di maggio), e poi l’articolo del parroco e quello del presidente dell’associazione carabinieri in congedo. C’è poco spazio per altre cose, mi ha detto. E poi chi dovrebbe pubblicare poesie? Tu? Saresti un poeta, tu?, ha eruttato dalla sua crassa bocca pelosa.
E’ uno sbruffone, ecco quello che è. A quella frase non ci ho più visto dal nervoso. Prima gli ho detto dei 128 concorsi e tutta la storia che vi ho raccontato prima, chiamando in causa Onelio e qualche altro amico mio che non vi sto a dire ma che la racconta lunga come le budella del toro, ma lui sorrideva e faceva come se gli stessi raccontando delle balle. Io che racconto balle! Uno deve proprio odiarmi per pensare una cosa simile. Allora ho preso il forchettone per la griglia che stava nel lavello e gliel’ho piantato nella mano, così, come si vede fare nei film western. E che cavolo! Mica mi faccio prendere in giro così dal primo babbuino che cura il bollettino della Pro Loco. Cosa ne sa lui di poesia, poi. Il forchettone era mezzo storto e gli ho giusto graffiato due dita, ma ha preso paura ed è scappato via urlando che sono pazzo che me la fa pagare che devo venire rinchiuso. E’ solo uno sbruffone fifone, ecco quello che è.
Nelle mie poesie parlo della vita.
Intendiamoci, gente come Amilcare non è vita. Quelli come lui sono le casualità malate della natura a crearli. E’ gente cattiva, che con i principi della vita non c’entra. Nemmeno quelli come Onelio hanno a che fare con la vita che io rappresento nelle mie poesie. Io parlo del giorno annunciato dalle sirene stonate delle fabbriche, delle mutande bianche alte stese ad asciugare dalla sorella del prete, dello stracchino che come il cuore di una gallina si sfa nella mia mano ma solo quando è fresco fresco. Questa è la vita, non le cattiverie inutili di gentaglia come Amilcare.
E’ lui che ha detto ai vigili di venire a cercarmi.
Voleva mettermi paura, ma io sono più intelligente di quello che crede. Quando sono arrivati, prima che suonassero il campanello li ho visti dalla finestra. Mi sono messo la felpa da ragazzino e le braghe corte e sono andato ad aprire la porta. Avevo indosso anche il berretto col frontino con la scritta “I love hamburgers”. Gli ho aperto e ho incrociato i loro sguardi spiazzati. Hanno pensato che fossi un adulto mai cresciuto, come potevo fare male a qualcuno? Hanno chiesto se c’era la mamma, gli ho detto che era uscita. Hanno chiesto se c’era mio fratello, perché pensavano che quello pazzo fosse mio fratello. Non c’è neanche lui, gli ho detto. Se ne sono andati mogi mogi, forse pensando che il pazzo fosse Amilcare.
Ecco, i due vigili nelle mie poesie ci stanno. Sono due figure epiche, due guardiani del tempio inviati in missione nella casa del vate. E io li faccio diventare degli eroi. La poesia che ho scritto quel giorno si intitola “Due come Due” ed è dedicata a loro:
Due come Due sono le pigne
in mano all’uomo
che irato guarda passare
il passero che va
va per la sua strada
che poi è la stessa
il caso dice
la stessa dell’uomo
dalla cui mano
volano le pigne
inseguono il passero
che va
va per la sua strada
che poi è la stessa
il caso dice
due come due sono i guardiani
che guardano la mano
da cui volano le pigne
due come due sono i calci
che raggiungono il didietro
dell’uomo
che irato guarda passare
il passero che va
Io sono un poeta. E’ la verità.
Qualcuno, non dico chi per rispetto dei defunti, mi ha detto che non sono un poeta vero perché non ho mai vinto un concorso, nemmeno una menzione avrei avuto. Secondo quel tipo, che non cito perché ha ancora qualcuno che lo rimpiange, sarei solo uno scribacchino di parole alla rifusa. Quello è, o meglio era, un individuo malato. Come può (poteva) dire una cosa simile? Il tempo ha deciso il giusto e una cosa così non la dice più, ora. Che forse da quanto era cattivo quello lì nemmeno Caronte lo ha voluto sulla sua barca. Con un calcio nel sedere lo ha mandato a fare il bagno nelle acque putride dello Stige. Gli sta bene. Ma non so se è andata così. Non ne sono sicuro. E’ una supposizione.
Io non ho mai vinto un concorso per una ragione semplice: nella lettera di presentazione dei poemi pongo sempre una specifica: “Non premiatemi, sono un poeta”.
Non è giusto premiare il poeta. Il poeta deve vivere di dolore e pane indurito. Il poeta non deve vivere di gioie e ricompense altrimenti la sua vena si rinsecchisce e diventa come il fiume che finisce addosso alla diga e si trasforma in un melmoso lago senza vita.
Sono sicuro di aver vinto almeno metà dei concorsi a cui ho partecipato, ma giustamente non mi hanno premiato perché così ho chiesto io. Sono concorsi seri, dove il presidente della giuria fa quello che deve fare il presidente della giuria, apre le buste e le passa a quello alla sua destra e poi sentenzia quello che gli passa scritto su di un foglietto quello alla sua sinistra.
Ho vinto almeno sessanta concorsi, mentre gli altri non mi riguardavano perché erano riservati a saggi o reportage giornalistici. Io ho spedito comunque le mie poesie perché penso che quei giurati dopo un po’ che leggono lunghe pizze seriose abbiano bisogno di dare aria al cervello e la poesia è il miglior ventilatore che c’è.
A me non importa quello che dice la gente. Uno come Amilcare non capirà mai il mio talento perché è in cattiva fede. Io dono le mie poesie a chi le merita. Sono sicuro che i giurati dei concorsi per racconti o saggi hanno apprezzato le mie poesie, hanno capito il mio gesto e si ricorderanno il mio nome. Ecco, il mio nome verrà ricordato dalle persone giuste, non da quelli come Amilcare, Onelio e quello che non posso citare per rispetto della privacy della famiglia nel cui cortile è sepolto all’insaputa del padrone di casa.
Perché nelle sue poesie non parla dell’amore? Così mi ha chiesto una giornalista che mi ha intervistato alla Comunità 29. Ci siamo incontrati lì più che altro per una questione di comodità (io ci passo i pomeriggi) e per non dare nell’occhio.
L’amore è come una pentola di fagioli dimenticata sul fuoco, le ho detto. I fagioli si induriscono e diventano un pastone che per tagliarlo ci vuole la roncola. Così succede ai sentimenti, che dopo un po’ diventano marmorei e ingombranti. Visto che non si può usare la roncola per toglierli di mezzo meglio farne a meno, eliminarli dal principio. E poi l’amore nelle poesie è banale. Così le ho detto. Lei ha chiuso il registro dove trascriveva le mie risposte e mi ha ringraziato. Gente come me ce n’è poca in giro, ha commentato andandosene.
Ora ho smesso di partecipare ai concorsi letterari.
Dopo 128 partecipazioni e almeno sessanta vittorie, sono soddisfatto. Andando avanti su quella strada rischiavo di esaurire la mia vena poetica. Ché è pur vero che non ho alcuna medaglia in casa, ma la consapevolezza di aver comunque vinto tutti quei premi rischia di darmi alla testa. Ho deciso che devo indirizzare la mia arte verso altre persone. Dopo aver conquistato le sfere più alte della cultura è giunto il momento di parlare al popolo, all’uomo della strada. Per questo, facendomi violenza, ho insistito con Amilcare per farmi pubblicare le poesie sul bollettino della Pro Loco.
E’ un pubblico selezionato, quello che legge il bollettino e, poeticamente parlando, totalmente analfabeta. Rivolgendomi a loro è come se parlassi con il mulo che carico di fieno scende dalla montagna. E’ un tipo duro, il mulo, apparentemente insensibile ai comandi vocali, risponde solo alle legnate che riceve sul groppone. In verità, anche lui a forza di insistere con le parole recepisce qualcosa. Sono convinto che il pubblico del bollettino della Pro Loco sia il più difficile da conquistare. Mi piacciono le sfide.
Bisogna avere pazienza e tenacia. Io le ho entrambe.
Prima o poi riuscirò a pubblicare le mie poesie sul bollettino della Pro Loco e allora nessuno potrà dirmi che non sono un poeta.