Calvino: tre maniere stilistiche (1963-1972)

 

È apparso per la casa editrice il Mulino La lingua di Calvino di Chiara De Caprio, terzo volume della Collana Italiano d’autore, diretta da Andrea Afribo, Roberta Cella, Matteo Motolese. Per gentile concessione dell’editore, si pubblica il paragrafo Tre maniere stilistiche (1963-1972), tratto dal cap. 3 (Stili e maniere, forme e generi).

 

Calvino: tre maniere stilistiche (1963-1972)

Lungo il decisivo giro di boa degli anni Sessanta si collocano due sperimentazioni stilistiche: l’una è nella Giornata di uno scrutatore (1963), romanzo cui Calvino consegna una lucida e sofferta analisi della condizione di stallo, politico ed esistenziale, di un intellettuale comunista, Amerigo Ormea; l’altra prende corpo e forma nei racconti di Cosmicomiche (1965), Ti con zero (1967) e La memoria del mondo (1968). Risalgono invece agli anni Settanta le maniere di Dall’opaco (1971) e del racconto Sapore, sapere (I ed. 1972).

Con La giornata di uno scrutatore diviene significativa la presenza di sequenze di spiccato tenore ragionativo in cui occorrono moduli funzionali alla formulazione di ipotesi:

Seguendo questo filo di pensieri, già Amerigo arrivava a sentirsi soddisfatto, come se tutto ormai andasse per il meglio (indipendentemente dalle oscure prospettive delle elezioni, indipendentemente dal fatto che le urne si trovavano dentro un ospizio, dove non avevano potuto né tenersi comizi, né manifesti essere affissi, né vendersi giornali), quasi che la vittoria fosse già questa, nella vecchia lotta tra Stato e Chiesa, la rivincita d’una religione laica di dovere civile, contro… (GS, 14-15).

E come chi, tuffandosi nell’acqua fredda, s’è sforzato di convincersi che il piacere di tuffarsi sta tutto in quell’impressione di gelo, e poi nuotando ritrova dentro di sé il calore e insieme il senso di quanto fredda e ostile è l’acqua, così Amerigo dopo tutte le operazioni mentali per trasformare dentro di sé lo squallore della sezione elettorale in un valore prezioso, era tornato a riconoscere che la prima impressione – di estraneità e freddezza di quell’ambiente – era la giusta. (GS, 15).

In queste sequenze l’andamento sintattico-testuale assume talora anche movenze ipotattiche: come mostrano i due passi, la frase reggente può essere circondata da strutture subordinanti e correlative sia a destra, sia a sinistra. Il ragionamento più spesso, però, procede espandendosi orizzontalmente ed assume forme dilemmatiche e spezzate. Sono infatti frequenti le strategie retorico-testuali attraverso le quali, mantenendo un andamento paratattico, sono moltiplicate le possibili interpretazioni di situazioni e dinamiche; fra queste, i grappoli di interrogative dirette: «Cos’è questo nostro bisogno di bellezza? si domandava Amerigo. Un carattere acquisito, un riflesso condizionato, una convenzione linguistica? E cos’è, in sé, la bellezza fisica?» (25). Svolgono una funzione analoga – e sono notevoli per frequenza e ampiezza – gli incisi e le sequenze poste fra parentesi, con cui sono forniti ulteriori dettagli o sono illustrate le obiezioni che Amerigo Ormea rivolge a sé stesso. Si noterà che nel romanzo del 1963, con modalità analoghe a quelle della coeva scrittura saggistica, Calvino agisce anche sulle strutture intonative della lingua: per non sacrificare l’ampiezza e la complessità dei ragionamenti, lo scrittore calibra con fine esattezza il peso di più linee parallele di svolgimento del discorso e ne scandisce ritmicamente lo spazio ricorrendo a frasi parentetiche e interrogative. Si veda, ad esempio, il seguente passo:

Però, qualcosa in lui faceva resistenza. Cioè: non in lui, nel suo modo di pensare, ma lì intorno, proprio nelle stesse cose e persone del «Cottolengo». Ragazze con le trecce s’affrettavano con ceste di lenzuola (verso – Amerigo pensò – qualche segreta corsia di paralitici o di mostri); camminavano gli idioti in squadre, comandati da uno che pareva appena meno idiota degli altri, (queste famose «famiglie» – si chiese con improvviso interesse sociologico – come sono organizzate?); un angolo del cortile era ingombro di calce e sabbia e impalcature perché sopraelevavano un padiglione (come si amministrano i lasciti? quanta parte va alle spese, agli ampliamenti, agli aumenti del capitale?). Della inutilità del fare, il «Cottolengo» era la prova e insieme la smentita.

Lo storicista, in Amerigo, riprendeva fiato: tutto è storia, il «Cottolengo», queste monache che vanno a cambiare le lenzuola. […]

Bastava che Amerigo continuasse a farne il giro e sarebbe incappato cento volte nelle stesse domande e risposte. Tanto valeva tornarsene al seggio; la sigaretta era finita; cosa aspettava ancora? «Chi agisce bene nella storia, – provò a concludere, – anche se il mondo è il “Cottolengo”, è nel giusto». E aggiunse in fretta: «Certo, essere nel giusto è troppo poco» (GS, 42-43).

Nel brano le riflessioni di Amerigo sulla vita dei malati accolti dall’istituto di cura Cottolengo scavano una seconda linea di ragionamento che corre parallela alla prima, ma è più sotterranea; questa seconda linea, posta fra parentesi e segmentata da domande e ipotesi, costringe Amerigo a chiarire meglio a sé stesso la sua posizione, ad ammettere l’incepparsi dei suoi ragionamenti e, infine, a prender fiato prima di poter sostenere che «tutto è storia».

Anche il tipico corredo calviniano dei segnali discorsivi e connettivi testuali qui è funzionale a mostrare non solo come Amerigo provi a spiegare le proprie ragioni agli altri («Non può esprimere la sua volontà, cioè non può votare», 65 [dd]) e a sé stesso («idee dei sani […] cioè idee di privilegiati, cioè idee non universali?», 41 [narratum]), ma anche come possa giungere a sdoppiare o rovesciare ogni possibile argomento. A sua volta, l’interpunzione, fitta e nervosa, sottolinea pause e snodi del ragionamento; spiccano lineette correlative e parentesi «in frenetica concorrenza» fra loro [Tonani 2023, 128], e si registrano occorrenze dei connettivi posti fra il punto fermo e i due punti («Però, qualcosa in lui faceva resistenza. Cioè: non in lui, nel suo modo di pensare, ma lì intorno, proprio nelle stesse cose e persone del “Cottolengo”», GS, 42): è quest’ultimo uno stilema che Calvino impiegherà sempre più spesso anche nei testi pressappoco coevi o successivi, dalle Cosmicomiche e Ti con zero a Se una notte d’inverno e Palomar. In sintesi, tutte queste strategie ottengono effetti complementari; per un verso, frastagliano e segmentano il procedere ragionativo, per altro verso lo ampliano e dilatano: come mostra la sequenza in cui sono riportate le riflessioni del protagonista sul suo dirsi «comunista», un unico ampio blocco testuale di quattrocentosessantasei parole (GS, 9-11), le risorse sintattico-testuali sono qui impiegate affinché «una disperata forza di coesione» tenga insieme ciò che sempre più appare «un cumulo di macerie» [Scarpa 2023, 282]. Infine, guardando alle relazioni e ai legami stilistici fra i testi narrativi, va sottolineato che per lo scrittore La giornata di uno scrutatore è anche una sorta di laboratorio, così come lo sono i racconti cosmicomici, che Calvino comincia a scrivere proprio dal 1963 e che pubblica in rivista dall’anno seguente. In effetti, alcune soluzioni sperimentate nel romanzo dedicato allo scacco esistenziale di Amerigo Ormea, l’arrovellato alter ego di Calvino, sono impiegate anche nei racconti cosmicomici, dove però vi è un narratore, Qfwfq, dall’affabulazione estroversa e fantastica; ed egualmente tornano in Se una notte d’inverno un viaggiatore e Palomar: in questi testi in alcuni casi Calvino alleggerisce la gravitas con la misura dell’ironia e con una giocosa vocazione al catalogo dei mondi possibili; in altri casi, invece, opta per una postura meditativa e interrogativa che presenta alcune analogie con quella del romanzo del 1963.

Un’ulteriore e importante svolta nella ricerca di Calvino è rappresentata dai racconti di Cosmicomiche, di Ti con zero e La memoria del mondo. La novità stilistica è dovuta alla continua mistione di tecnicità e colloquialità, all’ostentata ricreazione di effetti di parlato e alla pervasività di una sintassi dall’andamento «aperto» e «informale» [Mengaldo 1991, 286]. Se ne veda un esempio:

Gli incontri a quei tempi erano rari: eravamo così in pochi! Con l’ultravioletto per poter resistere bisognava non aver troppe pretese. Soprattutto la mancanza d’atmosfera si faceva sentire in molti modi, vedi per esempio le meteore: grandinavano da tutti i punti dello spazio, perché mancava la stratosfera su cui adesso picchiano come su una tettoia disintegrandosi lì. Poi, il silenzio: avevi un bel gridare! Senz’aria che vibrasse, eravamo tutti muti e sordi. E la temperatura? Non c’era niente intorno che conservasse il calore del Sole: con la notte veniva un freddo da restarci duri. Fortunatamente la crosta terrestre si scaldava da sotto, con tutti quei minerali fusi che andavano comprimendosi nelle viscere del pianeta; le notti erano corte (come i giorni: la terra girava su se stessa più veloce); io dormivo abbracciato a una roccia calda calda; il freddo secco tutt’intorno era un piacere. Insomma, quanto a clima, se devo essere sincero, io personalmente non mi trovavo troppo male (Co, 124-125).

Come mostra il brano, forme e moduli colloquiali dilatano una narrazione che accumula non solo eventi e fatti, ma anche ipotesi e spiegazioni sull’universo e i fenomeni fisici, chimici e biologici. Le storie di cui è protagonista Qfwfq sono da lui raccontate con tono brioso, interpellando il lettore in modi giocosi e anticipandone spesso la curiosità con l’uso di interrogative dirette («E la temperatura?»). Sotto gli occhi di chi legge si dipana un racconto mosso e a tratti dal ritmo vorticoso, che mima la concitazione del parlato e sfrutta tratti morfo-sintattici ed espressioni colloquiali. Scandito da strutture di sintassi marcata, frasi nominali («Poi, il silenzio»), esclamative («eravamo così in pochi!»), incisi posti fra parentesi o lineette correlative, l’organizzazione sintattico-testuale assume a tratti un andamento a spirale, in cui paratassi e ipotassi si alternano ed «elidono a vicenda» [Mengaldo 1991, 286]. Inoltre, sono ampiamente sfruttati, nelle loro diverse funzioni, i segnali discorsivi e i connettivi: ora a indicare rettifiche e chiarimenti (ad esempio, «Ossia: non bruciavamo, vi eravamo immersi come in un’abbagliante foresta», Co, 107); ora per trasferire nel testo scritto i soprassalti e i picchi emotivi di una conversazione a voce: «Certo, anche per me […] questo suo argomentare così filato suonava come una novità» (Co, 150 [narratum]); «Insomma, non volevo saperne né degli uni né degli altri; che si scannassero a vicenda!» (Co, 174 [narratum]); «– Allora non sei prigioniera degli uccelli! – esclamai» (TZ, 245 [dd]); ecc. Oltre alle occorrenze di allora, certo, comunque, insomma, è significativo l’impiego di fra due enunciati con identico contenuto proposizionale («e lo vidi, lo vidi», Co, 92), così come l’uso di e no prima di un nuovo enunciato con il quale sono forniti chiarimenti su quanto detto in precedenza («e immediatamente sentivo […] il moto della Luna svellermi dall’attrazione terrestre. , la Luna aveva una forza che ti strappava […]», Co, 83; «no: lì faceva troppo freddo», Co, 97). Calvino, insomma, qui spinge sul pedale del parlato e della colloquialità per dar forma ad un racconto-conversazione.

Volgendo ora l’attenzione agli anni Settanta, possono riunirsi entro il perimetro di una medesima ricerca stilistica testi come Dall’opaco e il racconto Il nome, il naso, da cui si traggono due campioni:

cosicché nella forma del mondo che ora sto descrivendo le case appaiono come a chi guarda i tetti dall’alto, la città è una tartaruga là in fondo dal guscio quadrettato e in rilievo, e non perché la vista delle case dal basso non mi sia familiare, anzi posso sempre chiudere gli occhi e sentirmi alle spalle case alte ed oblique quasi senza spessore, ma allora basta una casa a nascondere le altre possibili case, la città più in alto di me non la vedo e non so se ci sia, ogni casa sopra di me è una tavola verticale dipinta di rosa appoggiata alla china, tutti gli spessori si schiacciano in un senso ma non è che nell’altro s’allarghino, le proprietà dello spazio variano a seconda delle direzioni in cui guardo in rapporto al modo in cui mi trovo orientato (DO, 90).

Così adesso mi alzo per cercare questo schifo di stufa a gas e metterci dei pennies per farla andare, cammino con la pianta del piede sopra i capelli sopra i sederi le chitarre le cicche le latte di birra le tette i bicchieri rovesciati di whisky sulla moquette qualcuno deve averci pure vomitato, è meglio che mi metta a quattro zampe almeno vedo dove cammino del resto mica mi reggo in piedi […]. (NN, 119).

In questi casi l’organizzazione sintattico-testuale procede per blocchi nei quali le frasi sembrano innestarsi le une nelle altre e quasi germogliare le une dalle altre: le sequenze sono caratterizzate da un andamento giustappositivo e accumulativo e da uno stile interpuntivo in cui domina la virgola o, soprattutto in corrispondenza di confini fra unità, possono mancare i segni di punteggiatura. Insomma, la fluidità affabulatoria determina l’indebolimento delle giunture sia coordinative sia subordinative, «allo scopo, essenzialmente conoscitivo, di dar conto di realtà che sfuggono alla rete della grammatica» [Testa c.s. (b)]. A ciò si aggiunga in Dall’opaco l’effetto di taglio e stacco fra le sequenze: separati tra loro da spazi bianchi, talora chiusi dalla virgola o privi di un segno d’interpunzione di chiusura, i blocchi testuali sembrano estratti da un flusso di pensiero più ampio, di cui essi sono i lacerti e frammenti. Nel tentare una valutazione di queste sperimentazioni si è parlato di stile vischioso o granuloso: volendo con queste categorie mettere in evidenza il fatto che il testo «procede a scatti» e i contenuti, sommandosi gli uni agli altri, si addensano in grumi [Testa 2023, 158]. In effetti, questi testi portano in primo piano i dati che via via emergono dai sensi: e, in certo qual modo, la sintassi e la testualità puntano a mimare la vischiosità e complessità dei processi con cui le percezioni diventano parziale e provvisoria conoscenza delle cose e del mondo.

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  1. Riferimenti bibliografici

Mengaldo, P.V. [1991], Aspetti della lingua di Calvino (1989), in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, pp. 227-291.

Motolese, M. [2023] (a cura di), Le parole di Calvino, Roma, Treccani.

Scarpa, D. [2023], Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, Milano, Hoepli.

Testa, E. [2023], Sintassi, in Motolese [2023, 147-159].

– [c.s. b], Due prose a confronto: «La strada di San Giovanni» e «Dall’opaco», in corso di stampa in P. Benzoni e S. Poli (a cura di), Primi piani su Calvino. Esercizi di (ri)lettura, Firenze, Cesati.

Tonani, E. [2023], Punteggiatura, in Motolese [2023, 119-133].

 

  1. Sigle per le opere di Calvino

Co       Le Cosmicomiche (RR2)

DO      Dall’opaco (RR3)

GS        La giornata di uno scrutatore (RR1)

NN      Il nome, il naso (RR3)

TZ       Ti con zero (RR2)

 

  1. Volumi dai Meridiani da cui si cita

RR1     Italo Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, prefazione di Jean Starobinski, 3 voll., Milano, Mondadori, 1991-1994, vol. 1.

RR2                 Italo Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, prefazione di Jean Starobinski, 3 voll., Milano, Mondadori, 1991-1994, vol. 2. 

RR3                 Italo Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, prefazione di Jean Starobinski, 3 voll., Milano, Mondadori, 1991-1994, vol. 3.

 

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ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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