La Discesa

di Silvano Panella
Ero nella mia camera d’albergo. Bussarono alla porta. Aprii. Nel corridoio non c’era nessuno, a terra una busta da lettera, nella busta un cartoncino scritto a penna. Il direttore mi invitava a visitare le segrete dell’edificio. Andai in recezione. Il portiere mi riconobbe e, senza inutili chiacchiericci, mi accompagnò a una tenda di velluto color lillà. La sollevò. Sorrise mentre il drappo ricadde sulle sue spalle, a fatica ne sopportò la spinta – era un portiere giovane, ancora inesperto di alberghi e tessuti pesanti.
Un frastagliato varco di mattoni sporgenti e mancanti dava accesso a una discesa di gradini in pietra. Da qui in poi, un filo di lampadine fissato con chiodi storti al muro di massi squadrati. Sentivo vociare, scherzare. In fondo alla seconda rampa in pietra trovai il direttore e i suoi due ospiti, un imprenditore e una sceneggiatrice in vacanza in questa antica città. Scendemmo. Diligenti all’inizio, sfogammo poi il nostro scetticismo.
L’imprenditore domandò se le segrete fossero soltanto scalette e scalini, la sceneggiatrice raccontò di quando si perse in un negozio traboccante di oggetti al punto che vi si immerse con l’intento di nuotare un po’. Forse stava evocando la prossima sceneggiatura da scrivere per una pellicola dell’orrore.
«Avete scoperto qualcosa?», domandai al direttore.
«Sì», egli rispose, il passo sicuro mentre ci precedeva, e indicò verso la semioscurità. «Attenti, ci sono parti sconnesse», disse.
«Pensavo volesse mostrarci il primo rinvenimento della nostra serata. Scusate, del nostro pomeriggio. Sapete, è così buio che potrebbe essere successo di tutto, in superficie, persino una…»
«Starà mica immaginando una pellicola dell’orrore?», l’imprenditore interruppe la sceneggiatrice, rubò il mio pensiero, impedì al direttore di controbattere.
«Lei cosa produce?»
«Perché? Cerca finanziamenti?»
«Potrebbe inserire prodotti commerciali all’interno della mia pellicola.»
«La sua pellicola. Ma non è solo la sceneggiatrice?», domandai, irritato dal sentirmi spettatore.
«La mia, la nostra, di chi ci lavora e di chi ci lavorerà. E lei? Ha qualche idea da prestarmi? Pagandola, s’intende.»
«Certo, possiamo accordarci. Ma dovrei farlo un momento prima di partire per una località remota. Già, la curiosità mi assalirebbe, non la tigre, desidererei leggere la sceneggiatura, assistere alle riprese. Non so quale delle due eventualità è la peggiore. Preferisco la tigre.»
«Dovete perdonarlo, la sua sincerità risulta spesso sgradevole», il direttore disse.
«Oh, a me piace. Abituato a trattare affari, non a farli fallire, ho poca dimestichezza con la sincerità», l’imprenditore disse.
Ci fermammo per ispezionare gli anfratti scavati all’interno della roccia, anfratti di polvere e frammenti d’ossa. Catacombe. Catacombe svuotate. Chi le avesse svuotate, e perché, era un mistero. Proseguimmo giù.
La sceneggiatrice ci assillò con il soggetto che aveva appena abbozzato a mente.
«Una cripta rinvenuta da ragazzini che stavano giocando a rinvenire cripte. Via i ragazzini, a casa dalle loro madri, arrivano gli adulti, tre uomini e una donna diversi in tutto ma accomunati dal fato, ovvero: sono là. L’imprenditore, non lei ma un altro, vuole aprire un parco di divertimenti e chiede aiuto all’avventuriero, non lei ma un altro. Il confronto tra i due è ricco di spunti che la sceneggiatrice, io, proprio io, coglie e ruba. Il direttore d’albergo, che può benissimo essere lei perché tanto non cambia – scusi se ho fatto mia la sgradevolezza del suo ospite – tende a mettere tutti d’accordo. E ci riesce, purtroppo. Ma ecco che trovano un manufatto che li fa sragionare, che li rende…»
«Io credevo che sragionassero fin dalla sua prima parola. O forse, era lei che sragionava, non noi», dissi.
«Non erano noi, erano altri noi», il direttore puntualizzò con un candore così irritante che mi avrebbe portato ad allearmi con la sceneggiatrice se solo fossi rimasto in silenzio.
«Idiozie», dissi, e guardai in alto, da dove provenivamo. Avevo voglia di abbandonare tutti, di abbandonare questa esplorazione su scalini scheggiati, di anfratti cinerei.
«Perché non ci narra una sua avventura?», l’imprenditore mi propose. «Magari spronerà la sceneggiatrice a scrivere qualcosa di autentico, aiuterà me con il parco di divertimenti che in effetti ho in programma, dissuaderà il nostro direttore dallo stupirci con scale cadenti e vani sbriciolati.»
Ancora una volta una intromissione nel mio pensiero. Ancora una volta lasciai correre perché niente mi stuzzica più di poter raccontare un’avventura. Evocai una giungla di tronchi eretti, radici affioranti, rovi, cespugli, chiome, animali dispettosi, uomini sanguinari. Quadrumani staccano galle dai rami solo per poterle tirare contro di me. Circondato da sacerdoti armati, la cattura è l’unica speranza perché prospetta la fuga futura. Di notte l’altare allestito per il mio sacrificio, un onore. Ma prima, l’ignispicio. Il fuoco distrae – magari tra le fiamme c’è davvero qualcosa di trascendente, uno spirito rimasto bloccato nell’ardore. Sciolgo le corde, via di corsa. Ma i sacerdoti conoscono la giungla meglio di me. Non per questo fuggire è un errore, anzi, l’ignispicio gli ha fatto cambiare idea, nessun sacrificio ma solo sonnifero somministrato tramite cerbottana, un pungente premio all’escapologo che sono. Il risveglio beato di mattina all’interno di una casetta di foglie verdi e rami secchi. Vado via tranquillamente.
«Che storia è mai questa?», la sceneggiatrice domandò, offesa, bloccandosi.
Per poco io e l’imprenditore non finimmo addosso alla donna, avremmo ruzzolato giù per gli scalini e il direttore avrebbe ostentato il suo tempismo per scansarsi, salvarsi.
«Quale è il problema?»
«Troppo favorevole, troppo pulita, troppo repentina.»
«È la versione breve, adeguata a un pubblico distratto come il mio.»
«Dove sono i mugugni? Dove le frustrazioni?»
«Oltre alle vostre? Volevo appunto fingermi altrove. Genere d’evasione, mi sembra che si etichetti.»
«Soggetto inaccettabile. Interromperebbe l’assuefazione degli spettatori al nostro cinema.»
«Preferisco il cinema delle intelligenze artificiose. Ho ceduto le mie memorie a uno studio specializzato. Creano bei corti.»
«Pieni di mutamenti ingiustificati, suppongo. Un attimo prima è lei, un attimo dopo il suo amico, un attimo prima siete nella giungla indiana, un attimo dopo nella foresta amazzonica.»
«In verità, i mutamenti ricostruiscono il mondo così come lo intuiamo, così come lo sogniamo, danno la possibilità ai protagonisti di somatizzare le loro evoluzioni interiori. Non è più il mondo vincolato alla realtà e al tempo presente ma il nostro»
«Belle scuse. Belle scuse», la sceneggiatrice disse, furente, e proseguì la discesa assieme al direttore e all’imprenditore. Si ripeté ancora due rampe più giù.
Questi scalini avrebbero portato a un fondo di preziose rimanenze d’epoche estinte? L’imprenditore avrebbe suggerito al direttore d’albergo il miglior modo di valorizzare questi scalini che poggiano su uno spesso strato di meraviglie? La sceneggiatrice si sarebbe decisa a scrivere di stupori e incantamenti? Ne dubitai e così iniziai a risalire. Le voci dei miei tre ex compagni di discesa divennero suoni di provenienza abissale. Ero solo, potevo protrarre la permanenza a mio piacimento, contemplare muri e anfratti che erano soltanto muri e anfratti. La mancanza di oggetti, decorazioni, iscrizioni mi avrebbe spronato a immaginare per questo luogo un passato fantasioso, irreale, pieno di licenze narrative, avrei potuto essere testimone di mutamenti, ciotole, pitture, lapidi vivificate dalla loro innaturale ricrescita, indizi di una illusione onirica oppure artificiale. Sarei stato io, sarebbe stata l’IA. IA non vorrà forse dire intelligenza artificiosa?
