Mortacci mia

di Piero Salabè
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dal romanzo di Piero Salabè, “Mortacci mia”, La Nave di Teseo 2025
Colui che da giovane si era infervorato per il sacro fuoco della ricerca, non credeva più a nulla. Quella vita avvampata negli anni della passione, amore o scienza che fossero, ormai non gli apparteneva più. Aveva visto gli uomini come sono, non c’erano sorprese da attendersi. Era diventato difficile farlo uscire di casa, rinunciava alle proposte culturali, adducendo emicranie. Meglio, invece, le proposte culinarie. Adorava le ciliegie, ce n’era sempre una scodella in cucina, ed era particolarmente goloso del gelato al cocomero che andavamo a prendere a Corso Trieste nelle serate di giugno. Si sbrodolava come un bambino e mia madre lo rimproverava. Il gusto di quel mondo era inequivocabile, la fresca fragranza della frutta che si scioglieva in bocca senza essere interrogata. Di tutto il resto, i cosiddetti ideali, invece meglio tacere. Gli sembravano inafferrabili, falsi, fraudolenti. Non voleva parlarne con i figli per non influenzarli con il suo pessimismo. A volte lo spaventava scoprire nei loro sguardi una vena di risentimento: “Siamo così perché tu sei così.” Quel senso di colpa era alleviato dalla negligenza e dall’egoismo dei figli che in certi momenti riconosceva lucidamente. Sì, anche loro erano come gli altri, volubili ed egoisti. Anch’io, il letterato, che mi ripresentavo dopo mesi di assenze e telefonate poco affettuose, con iniziative riparatrici che di solito declinava: andare a un museo, al cinema. Ero orgoglioso di mostrargli certi interessi presi da lui, ma il mio entusiasmo si arenava contro l’abulia di chi aveva smesso di interessarsi delle cose. Lo volevo coinvolgere nelle questioni che mi agitavano, confidando in un focolaio ancora vivo del suo spirito. Provai a discutere con lui di Buñuel, del coltello a forma di croce in Viridiana, del rapporto fra eros e agape, ma lui faceva finta di non capire, “Sono troppo stupido per queste cose”. Una sera gli proposi di andare a vedere un film di Kiarostami. Pensavo che vedendo le insegne nell’alfabeto arabo, sentendo una lingua sconosciuta sarebbe scattata una molla in lui. Poco dopo l’inizio, mentre sullo schermo scorreva l’infinito viaggio in macchina dell’aspirante suicida per le polverose strade di Teheran, mio padre si era addormentato. Non c’era modo di risvegliarlo, e restai da solo a misurarmi con l’angoscia del personaggio che aveva già scavato la propria fossa. Dopo quella serata per me fu chiaro che con lui non ci sarebbero più state discussioni sul senso della vita, su “essere o non essere”: il sapore delle ciliegie, che nel film aveva convinto il protagonista a non togliersi più la vita accettandone la bellezza, non poteva più trasformare i giorni di mio padre, ma solo incatenarli a nuovi giorni. A me, invece, rimase una scodella colma di domande, tutte per me.
Anche Ostia, la nostra brutta e squallida Ostia, con le sue spiagge di sabbia nera, offre le dune a chi ha voglia di spostarsi verso i cancelli. Tutti al mare, a mostrà le chiappe chiare. Adesso però Ostia s’è rifatta, più squallida ancora, nessun grattacheccaro, ma solo ciofeche e discoteche. È lì che torneremo, Aič, sul litorale disprezzato e deprezzato, a noi basteranno quei pochi metri di sabbia, non potranno toglierci l’accesso al mare. Saliremo sul bus alla fermata Cristoforo Colombo, quello che non parte mai, e non importa se siamo senza biglietto, perché i controllori oggi portano le pinne, non uno che in trent’anni di carriera sia riuscito a fare una multa. Roma zozzona che tutto perdona. E poi cammineremo lungo il litorale, là dove ci sono i grandi di arbusti di pitosforo: se affondiamo il viso in quei cespugli potremo trovare tutte le cose perse, il campanello di ottone, il singhiozzo prima di dormire, il polso dell’orologio, Ali Agca e il coniglio mannaro, i petardi mai scoppiati, il grido di mamma, il fumo dietro cui lui traspare, le pesche della nonna che marciscono sul campo di bocce, le api dell’invisibile, l’alito di menta di zio Antonino, il borotalco della nonna, il tuffo di papà nel mare senza mai voltarsi, il primo pisello illuminato da una torcia, la sorca e le sise, il criceto suicida, il palo fatto con i maglioni, li porteremo in spiaggia Aič, faremo un gran mucchio accanto alla buca, ma prima ci tireremo l’un l’altro le bacche, perché sarà l’estate che non finisce, sarà come tutte le estati, il tempo incantato del corpo e della pelle, del sapore e del fiore, il tempo non esiste Aič, siamo noi così strampalati a fare susseguire le cose, noi eterni, eternamente incapaci di eternità, ma lasciaci provare, eccoci, ci siamo, scava qui Aič, la sabbia è un po’ meno acquosa, adesso gli facciamo una cella enorme, cosa mi dici Aič, che non sono aquiloni quelli lì in cielo, che la tela ocra che sventola è il Policlinico, un’astronave in miniatura che adesso vola via perché si è strappato il filo, quell’altro aquilone invece che resiste è la nostra casa, il labirinto di quindici stanze, tieni bene i fili altrimenti tutto cade, il tavolo apparecchiato, il servizio della nonna, la porta di servizio, l’opera completa del ricercatore, il basco mai usato e le vene varicose, la chiamata senza risposta, l’arrivo a Termini. Scava in fondo, non avere paura dei vermi rossi, mettiamo sul fagotto un’immagine ciascuno, come facevano gli egizi, mi dici, Aič, di portare tutti questi cimeli via da qui, perché l’acqua fa crollare la buca, ma noi dobbiamo scavare oltre, più in fondo, raggiungere il punto più asciutto e incandescente, rifare la casa lì, stanza per stanza, dove nessun verme può più mordere, senza il tempo di congedarsi, per recuperare la parola incomprensibile sepolta in fondo al mare, la perla in cui ancora e sempre ci possiamo trasformare.
Il labirinto che ci hai donato.
La montagna lui non l’amava, chissà come ha fatto a far finta su quella foto. A lungo ho creduto che fosse la più bella immagine della loro unione, lui già malato, nel bosco dietro a un ruscello che gli sopravviverà. Così piccoli, fragili, indifesi nella vecchiaia, eppure insieme, malgrado tutto, ridenti, contenti di aversi. Finché poi mia sorella Maddalena mi ha detto che è stata la peggiore delle loro vacanze, che sono rientrati in anticipo. L’ultima, perché nostra madre dopo non ha più voluto andare con lui in montagna. Adesso capisco, lui l’abbraccia sorridente per essere riuscito a imporre il ritorno a Roma, non ha concesso neppure quello alla consorte, di godersi le montagne da lei così amate. Non sono due che finalmente si trovano, dice Maddalena, ma due intenti ad abbellire il ricordo, costruire un’energia rispetto a tutto ciò li separa. Sforzo che molti fanno coincidere con l’amore. Forse è stato così anche per loro. Li vedo spersi, ma mi piace vederli così piccoli e indifesi. Le fotografie non sono la vita, se si sommano tutti gli scatti, non ammontano a più di dieci minuti, quei sorrisi genuini o impostati, sono tutto e nulla. Resta il compito infinito di trovare le vere immagini, più in fondo.
Non ho mai letto le sue lettere d’amore a mia madre. Erano in francese, lingua usata per necessità di comunicazione, ma anche per essere diverso – la vita, una lunga fuga. Nessuno ha voluto conservarle, c’è un’intimità che persino i figli non dovrebbero toccare. Penso che il loro inchiostro sia sbiadito presto, stipate in qualche astuccio, sotto al sotto più sotto della cantina, si saranno squagliate assieme agli angeli di cera del presepe tedesco nell’estate più calda della storia, prima di finire nel container dove tutto finisce. Per questo le devo inventare. Non so se conoscessero quella canzone di Modugno, per me nelle sue parole si trova la corta, immensa lettera che si sono scritti, Dio come ti amo. Corta perché la fiamma, l’invisibile che vede l’amore non può durare – non ci è dato di essere solo fiamma in vita. Poi c’è quell’altra lettera d’amore più grande e più vera, quella che non viene mai scritta ma solo vissuta, fatta anche di zozzeria, mute grida, risentimento, inenarrabili fantasie – se fosse, cosa sarei potuto diventare… Non esiste vita migliore, anche se ogni vita avrebbe potuto essere migliore. “Potere”, verbo maledetto che ci perseguita vita natural durante. Chi può cambiare l’amore? “Nel cielo passano le nuvole che vanno verso il mare.” Come potessero essersi trovate persone così diverse – ma non è ogni diversità sempre la massima, il dove che ci dovrebbe fare innalzare e volare, “sembrano fazzoletti bianchi che salutano il nostro amore”? Tutto il mondo come nessuno al mondo, Dio come ti amo. Non c’è una lettera che si sia conservata, solo alcune dediche nei libri in francese, Noces. Mio padre che regalava Camus a mia madre “non è possibile” – quel suo male di vivere un tempo era fatto di “sole, i baci e profumi selvaggi”. Luce su ruderi romani di una fondazione fenicia in cima al mare, mai visti, solo immaginati. Un fuoco di luce bianca, amore senza misura per tutti e per tutto, eterno ritorno all’origine. “C’è un tempo per vivere e un tempo per testimoniare la vita”, scrive Camus. Quanto più difficile è rendere conto della forza che ci ha infiammati, quando precipitati dalle altezze turbinose, restiamo muti a osservare sempre la stessa cosa – per quanti anni ancora? – che la vita null’altro è che la mancanza della propria vita. “Né se l’uomo cerchi rifugio presso la persona che egli ama…” scrisse chi si suicidò presto e piuttosto che fare il professore sarebbe voluto andare al mare, a Grado o Pirano. Invece lui cercò rifugio nella persona amata, nelle persone amate, e lo trovò, nonostante la solitudine, la zozzeria che non si raschia via, “un bene così caro, un bene così vero”, “avere fra le braccia tanta felicità”. Sì, caro padre tu ci hai toccato nel corpo e nell’anima, fa lo stesso, e io, qui adesso confesso, nella nostra più segreta stanza, non ti ho saputo toccare in quegli anni finali, come invece la madre, le sorelle, io che tanta paura ho dell’amore, quell’immensa paura… “Mi vien da piangere” canta Domenico, ha lo stesso baffetto di Rudy rubacuori. Mia madre non poteva resistere a quel fascino e a quelle lettere che io non ho mai letto, ma che ci hanno catapultato nella vita. Eccoci, tocca a noi. Chi può cambiare l’amore? Chi può fermare il fiume che corre verso il mare?