Fine di Kaliyuga

Immagine generata da AI

di Danilo Chillemi

Schopenhauer credeva derivare dal sanscrito Brahmā il nostro italiano bramare – capitale osservazione, da meditare mi dico, mentre vago sperduto nella notte senza una trama. Piove deliziosamente. Gironzolo per Corso Magenta deserto per l’avanzata ora notturna. Sotto l’ombrello mi accompagnano pensieri e note di flauto malinconiche – chissà da dove: le aule del Conservatorio sono anch’esse buie e deserte. Fisso la mente invasa dal sonno nella facciata coi due telamoni dell’austero palazzo di drammatico Seicento dell’augusto liceo Arnaldo. Mi dà una malinconica felicità essere in questo parco piovoso e, finalmente, a quest’ora tarda, silenzioso. Penso a Omero che fonda una relazione tra le nebbie e la nostalgia, mentre le sirene degli autoimmondizie si mandano segnali nella notte nebbiosa.

Cercando un’uscita gnostica nella Luce (artificiale) riprendo la via del Corso. Le vetrine illuminate dei negozi sembrano reperti di luce pompeiani, scoperti da scavatori. Attraverso la strada. Titolo di giornale sul Grande Diluvio di Valencia ridotta a giungla meccanica, all’edicola – una catastrofe che non mi tocca: non stanotte, stanotte mi sono messo in sciopero contro il Cosmo. Mi aggiro fra semafori e fanali di auto, come un astronauta viandante all’ascolto del cosmico segnale in Morse che il grande Disco rotto dell’Universo rimanda ininterrottamente nell’Espace Infini. Sono le due di un venerdì. Piazza Duomo è una grigia nebulosa chimerica urbana da cui emergono incongrue cupole. Prendo la galleria centrale che s’inserpenta verso i portici, dove il corridoio si spalanca su una fuga di pareti a specchio. Sul citofono un nome che pare dettato ex alto per me: “Freud” (forse lontana discendente?). Urino contro l’uscio, amichevolmente, e quella strana piscia, ha, su di me, un effetto di calma. Dopo vent’anni di “analisi interminabile” faccio rapido ritorno su via Trieste, finalmente sgravato dal blocco vescicale del mio Traum…

Più in là riconosco la fermata della metropolitana di Vittoria. Scendo: giro i locali a più piani, da un senso all’altro dei binari. Non so che fare salvo chiudermi nel cesso. Eccellente lettura della Bhagavad-Gītā facendo bidet caldissimo nel silenzio della stazione. Quindi risalgo. La piazza è gioiosamente vuota, la sospensione della vita notturna l’ha magicamente bloccata nell’ambra. In una nicchia all’angolo della farmacia un video pannello indica agli uomini la loro via mortis: “il tumore della prostata”. Evocazione involontaria di Paolo (professore di filosofia che rimane prezioso amico nella teca del cuore) che mi dice della soluzione in lui maturata dopo repentina, interminabile, tachicardia: il suicidio preventivo. Gli telefono subito – a vuoto. Suo sms mi avvisa che stanotte non potrà raggiungermi, ma mi manderà intorno alle quattro dell’Energia a distanza per sostenermi durante il cammino.

Continuo la mia fuga di Majorana con sigaretta nell’Invisibile. Sognando di teleguidare sulla Terra addormentata un meteorite che la trafigga, avanzo sotto centralissima villa di via Tosio grondante gelsomino. Pioggia diluviale redentrice, a scrosci. Momentaneo riparo alla fermata del bus dove mi perdo in nere cogitationes sullo spleen – cafard acedia tristitia o come dicit vulgus Schifo – coinvolgente me stesso e tutto l’infinito Niente detto impropriamente Universo. Per terra un pacchetto di Marlboro vuoto e un pezzo di carta gialla.

Sotto uraganico temporale me ne torno rasentando muri a piazza Vittoria. Quasi mi butterei giù dalla metafisica Torre dell’I.N.A., ma farei un brutto vedere là sotto, in fradicio cappotto cammello gualcito. Dopo mancato tuffo ad angelo nel vuoto, costeggio la grande scalinata con architrave in marmo del Palazzo delle Poste, sotto file di finestre strette e oblunghe. Giro, giro, giro, come un pipistrello nella sera al suono dei miei passi. Con divina emozione mi fermo a guardare da sotto deliziosa Loggetta del Monte di Pietà – la visione di Piazza Loggia avvolta in grigia luce quasi lagunare, con la sua cupola di Titanic stellare naufragato a rovescio dentro Buco Nero. Rintocco di campana che pare un colpo profondo di gong: alle 3:00 antimeridiane dell’Orologio sono ancora qui, meditante sotto l’ombrello aperto. Medito sulla mia straordinaria somiglianza ideale con Gregor Samsa, alter ego nottivago in questa Notte randagia senza giorno: lui scarafaggio boemo, io minuscolo scarabeo egizio col supplizio tantalico di spingere il Sole sulla via del ritorno.

Dunque mi dico, vado. Infilo l’angolo della piazza, passo in via San Faustino, esploro. Dopo lungo e lento peregrinare giungo in Carmine – davanti a incantevole chiesa di Santa Maria la luce intermittente d’un lampioncino segnalante gli S.O.S di Dio. Sui muri graffiti “Eco non Ego” e altre scemenze: io proseguo nel mio Friday for Past. All’angolo di via Santa Caterina mi imbatto in bellissima ragazza accennante, che subito scambio per un segnale insensato della Luce, ma è invece uno dei tanti Miracoli della Réclame su cartellone. Improvviso a mia sola memoria un epicedio alle sue Tette.

Poi entro nella stazione metro. Siccome ho fame, mi ingozzo di cioccolata e biscotti a una macchinetta. Prendo la scala mobile che scende e poi risale dentro labirinto di pareti trasparenti più numerose di quelle di un tempio Indù. Masticando a bocca piena esco nella pura tenebra: ma sbaglio strada e imbocco caleidoscopica Galleria Tito Speri che non finisce mai. Deambulo a vuoto come in sogno fino alla fine del tunnel, un po’ drogato dal farmaco Serenase (5mg) che ho preso per frenare certe pirofobiche ossessioni. All’uscita della galleria enorme cartellone di Agenzia Viaggi con spiagge di arena bianca invita a spensierato volo low-cost nei Felici Tropici. Da una ringhiera su cielo plumbeo fantastico su mio risveglio in altri mondi dopo un volo in anestesia totale.

Nel frattempo, lungo il percorso – coppia di gatti che si insegue ai piedi del monumento di Mazzini, strillando perversamente, io che fuggo il Pólemos tra sessi opposti invocando Dioniso, protettore delle grida notturne. Ho sete e per fortuna i distributori automatici continuano a funzionare. Scelgo quello colorato di verde, che ha un buon assortimento di bevande zuccherate, roba buona per profughi analcolici come me. Sotto l’acqua scorrente dai gradini della Memoria riscendo a caracollo sulla diagonale che attraversa il centro storico. All’incrocio un vento da Highlands mi srotola la sciarpa fino a coprirmi gli occhi mentre passo col rosso. Mi ritrovo in via Musei: tutt’intorno alle alte finestre delle case aleggia la Lebbra-Nebbia, io ci sono sommerso come in una campana in fondo al mare.

Cammino, cammino e arrivo al Foro – mi affaccio sul fondale di carie da guerra atomica dove giacciono i rottami del Tempio, fumando e cogitando su una remota Pompei extrasolare che una tempesta magnetica ha sepolto sotto un vulcano morto. Il buio sbuca perfino dai tombini. Rileggo per la millesima volta la scritta «IMP.CAESAR.VESPASIANUS.AUGUSTUS…» del frontone, mentre fari squarciatenebre emanano nella bruma le loro deboli fosforescenze. Improvvisamente, una voce risuona nell’aria alle mie spalle: «Dovrebbero inciderlo sui frontoni dei cimiteri: “Toda la vida es sueño”». Mi volto: è Nicola, più che amico fratello che mi parla. Si toglie la giacca, se la drappeggia sulla spalla sinistra con le dita a uncino, e mi si fa incontro: «Vengo qua dal Vantiniano. Un cartello sul cancello dice che il cimitero rimarrà chiuso fino a tempo indeterminato. I becchini devono saperla lunga sull’Indeterminazione del Tempo…» Mi saluta, lasciandomi del Mana sulle mani e sparisce: «Ci vogliamo bene, però somos dos fantasmas».

L’allucinazione mi lascia, mi riconosco seduto su una panchina di Tebaldo Brusato, sprofondato nel verde con la testa rovesciata, a guardare nell’Erebo voraginoso degli spazi in cui agonizzano mute le Nane Bianche e gli Eoni dharmici si esauriscono come pile elettriche. Ho in tasca una lettera per Bianca che non imbucherò, come un ultimo messaggio lasciato inascoltato nelle segreterie telefoniche del Tempo. Un modo come un altro di occuparmi esclusivamente del Passato, nell’essenziale certezza di saperlo introvabile…

Nel frattempo, la fosforescente luce al neon di un parchimetro mi prende per incantamento. Che cosa indichi non so, forse, soltanto, che sono le cinque. Mi precipito nel vicolo semibuio, ma mentre corro sull’asfalto come un allucinato solitario in stracciato cappotto cammellato, per poco non mi rompo il braccio sinistro per scivolamento su una merda. Nemesi karmica o arcana corrispondenza di eventi cosmici? Domande che mi tengono dietro mentre tuffo, lasciandola a mollo, la scarpa sotto una fontana.

Corso Magenta, ore 5:30: dopo mezz’ora di corsa nel pallore di smog della Vanitas urbana mi ritrovo al punto di partenza. Sto rimirando vecchio grandissimo tavolo da biliardo che campeggia dal fondo oscuro della boutique di un antiquario. Biliardo come (buddisticamente) surrogato del Saṃsāra o forse vero Saṃsāra? Non siamo che palline d’avorio che un Giocatore scaraventa con colpo preciso nella buca preparata. Chi vince, chi perde. Chi reincarnato. Chi entrato in Nirvāṇa. E subito il gioco della Maya ricomincia: la pallina bianca rispunta dalla buca.

Qualcuno (chi? L’inglese John Lennon?) diceva della morte: è solo scendere da un’auto per salire su un’altra. La frase mi trova d’accordo. Salgo sul primo autobus che incontro nell’ora magica crepuscolare delle sei. La notte sta dileguando con estrema dolcezza agonica di nuvole che si sfilacciano in vortici distanti. Mi abbandono a un proverbio indiano sull’andirivieni del mondo. Sepolta nella tasca tengo la Bhagavad-Gītā che apro a caso. Le sue pagine sono un sonnifero insuperabile. Combatto col Sonno che vuole annebbiarmi la Conoscenza, ma ho gli occhi troppo stanchi, li chiudo: Om̐.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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