Dove si situa lo scrittore? Un dialogo con Filippo La Porta
[L’11 aprile usciva su questo sito un mio pezzo dal titolo: Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #2. La guerra alla scienza e al giornalismo | NAZIONE INDIANA. In coda al post, sono intervenuti alcuni lettori e, tra gli altri, Filippo La Porta con un suo commento articolato. Questo commento fa parte, in realtà, di un dialogo che esiste da tempo, in forma prevalentemente privata. Ci è sembrata un’occasione per rendere pubblico quest’ultimo scambio, anche perché, per quanto mi riguarda, tocca un punto importante: il posizionamento dello scrittore di fronte alla realtà di cui parla. a. i.]
di Filippo La Porta e Andrea Inglese
Caro Andrea,
ho letto con grande interesse il tuo intervento. Analisi largamente condivisibili, citazioni perfette, ma tu lì dentro dove stai? Ti trovo a fatica. Somiglia a una delle relazioni che nei ’70 preparavano i congressi del Manifesto (cui appartenevo), e che dovevano dare a noi militanti il “quadro” della situazione e motivarci alla lotta. Bene, ma tu sei uno scrittore, non un leader politico né il direttore di Limes – e poi un padre, e poi un cittadino italiano emigrato in Francia, etc. – , da te mi aspetto qualcos’altro. Il mondo da quale prospettiva lo vedi, e lo subisci? Qual è la tua percezione personale della situazione politica attuale? Te ne senti oppresso? Condizionato? Disturbato? Le spettacolari bullshit di Trump per caso ti tolgono il sonno? I bambini di Gaza scuotono la tua coscienza e ti rovinano la giornata (Elsa Morante una volta mi disse che se non sei un po’ qualunquista non puoi neanche prenderti in pace il cappuccino la mattina)? E poi: dato che niente avviene senza il nostro consenso passivo, a quali pratiche sociali e consumi e logiche di potere dai ogni giorno il tuo consenso? Quali compromessi stabilisci per vivere in quello che specie i letterati amano definire l”inabitabile”( e che pure abitiamo, con alcuni privilegi)? Io me lo chiedo continuamente, a proposito di “stili di pensiero e di azione”. E trovo interessante che ce lo diciamo.
Proprio la nostra tradizione, eretica e libertaria, dei Chiaromonte e Castoriadis, mette al primo posto l’individuo, responsabile e inappartenente. Ecco, io vorrei che nei nostri scritti politici e civili ci fosse sempre l’individuo, e cioè una voce personale e unica, insomma noi che parliamo e agiamo nel mondo.
Mi soffermo solo su un tema. La fine del sogno americano, che secondo te già era internamente corroso, già conteneva il buco nero che lo avrebbe inghiottito. Può darsi, lo aveva presentito Scott Fitzgerald nei suoi racconti. Quel sogno di libertà è da subito intrecciato con il mito del successo e con l’imperativo di make money. Ora, non voglio entrare nel merito del New Deal, che comunque fu un grandioso esperimento di patto tra capitale e lavoro (anche se escludeva dei soggetti sociali), e ha indicato un orizzonte in cui muoversi (quello keynesiano della redistribuzione del reddito, dato che il capitalismo non si può eliminare), ma nel ‘900 tu vedi esperimenti sociali emancipativi a cui richiamarsi o da cui farsi ispirare?
Parto da una mia esperienza. Nel 1971 attraversammo l’America in auto, io e tre amici. Venivamo ovunque ospitati (spesso in vere e proprie comunii, tutti quelli che incontravamo per strada – specie in moto – ci facevano il segno “V”, con loro parlavamo del mondo nuovo che stava concretamente affiorando, a volte si faceva sesso (purtroppo non io, allora sovrappeso, ma i due dei quattro diciamo più “carini”!). Ricordi Camus: creare cellule di un’altra società dentro questa società? Come Pasolini qualche anno prima, mi innamorai della New Left: integri e tolleranti, radicali e antidogmatici, fraterni e non ideologici. Altro che i terribili tribuni della plebe delle nostre facoltà occupate. Che “morale” trarne? La cosa più vicina alle nostre utopie politiche, ai nostri ideali comunitari l’ho trovata in alcune isole protette dentro il capitalismo più avanzato (permesse anche dalla ricchezza materiale di quel sistema, o se vuoi dalle sue briciole), e non – ad esempio – nel mostruoso, distopico regime cubano ( ci sono stato 4 volte: dominio dispotico di un ceto politico-burocratico che ha corrotto una delle popolazioni più vitali dell’AL, incoraggiando la delazione del vicino di casa).
Pazzesco! Il sogno di una cosa ritrovato dentro il sogno americano (o almeno dentro una delle declinazioni del sogno americano)! Lo spirito più bello e utopico del ’68, quello del Mondo salvato dai ragazzini, era nelle canzoni di Dylan e dei Jefferson Airplane, nei concerti di Jimi Hendrix (ne vidi uno, pomeridiano, al Brancaccio di Roma nel ’68, avevo 15 anni), nel film di Arthur Penn “Alice’s restaurant”, nella esplosiva controcultura americana dei ’60 e ’70, nel Manifesto di Port Huron (1962), in Paul Goodman e nel discorso di Mario Savio a Berkeley del 1964, nel Grande Lebowski dei Coen, non nel libretto rosso di Mao, nelle istruzioni di Giap sulla guerriglia o negli anatemi antimperialisti di Castro o – dispiace dirlo – negli orrori dei vietcong dopo la loro giusta lotta di liberazione (un milione in fuga sulle barche un milione nei gulag)!
(i nostri Chiaromonte e Castoriadis lo sapevano bene: ovunque il comunismo ha preso il potere ha prodotto miseria materiale e morale, quando non lo ha preso ha prodotto menzogna, ambiguità, tatticismo. Possiamo anche citare Benjamin, che sempre ci dà qualche gratificante brivido teologico, ma la dura smentita della Storia è ineludibile….dato che la parola “comunismo” resta una bellissima parola, per consolarci, con Giuseppe Samonà – su sua proposta – ci definiamo “comunardi”…ma sarebbe un lungo discorso)
Ecco, può darsi che oggi l’America sia solo dominio senza egemonia, però quando vado negli States ritrovo sempre qualche preziosa traccia dell’altra America, di un pensiero dissidente e meravigliosamente libertario, che alimenta la mia immaginazione politica. Anzi, idealmente sento di stabilire un ponte tra la vecchia Europa, con la sua saggezza ironica e tragica, capace di autocritica (unico continente senza la pena di morte), e l’altra America (tutti “parassiti” per Trump!). Inoltre: se pensiamo alla cultura pop, le serie TV e di cartoni animati più importanti per capire oggi chi siamo, per interpretare il nostro presente (Breaking bed, Homeland, Succession, Billions, Mad Men…., l’umorismo nero del genialissimo “South Park”, etc.) sono americane. Qui sembrerebbe che la “egemonia” continui…. E influenza stili di pensiero e d’azione.
Un abbraccio
Filippo
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Caro Filippo,
cercherò di non lasciarmi obnubilare dall’invidia per il concerto di Jimi Hendrix che hai visto a Roma quando eri quindicenne. E premetto anche, che non tenterò di rispondere alla domanda che poni nella seconda parte del tuo commento: “nel ‘900 tu vedi esperimenti sociali emancipativi a cui richiamarsi o da cui farsi ispirare?” La lascio, però, macerare per bene, tanto è cruciale, in vista di un’altra occasione. Così pure farò per quella sui rapporti con la cultura statunitense. (Una parziale risposta, in questo caso, la avresti ripercorrendo alcune pagine del mio romanzo La vita adulta, che hai letto e di cui hai anche parlato.) Vengo, quindi, alle questioni che tocchi nella prima parte.
“Ma tu lì dentro dove stai?”
È una domanda importante, a cui io cerco di rispondere costantemente, elaborando un certo tipo d’interventi, di presa di parola, che non riguardano la mia specifica identità di “scrittore” o di “poeta”. La considero, questa domanda, uno degli insegnamenti più preziosi del femminismo. “Da dove parli?” Ma rispondere a questa domanda, integrare in un proprio intervento una descrizione del contesto più personale e biografico, all’interno del quale emerge un determinato tema, una specifica urgenza del discorso, non riguarda per forza “l’inappartenenza dello scrittore”. In un saggio sull’antirazzismo europeo, ad esempio, scritto un po’ di tempo fa, ho ritenuto importante spiegare perché la discriminazione nei confronti dei “neri” riguardi anche me, “bianco”, e la mia particolare storia familiare, il contesto sociale in cui vivo, ecc. (l’articolo dapprima uscito su “Testo a fronte”, si trova in formato ridotto anche qui). Così ho fatto, ad un certo punto, in uno degli articoli che ho dedicato su NI alla distruzione di Gaza. Ho spiegato perché la sorte dello Stato di Israele e della popolazione palestinese non equivale, per me, a un evento di politica estera come un altro. Ma questo non c’entra nulla con la mia singolarità di scrittore. Qui intervengono semmai le mie appartenenze d’italiano ed europeo, erede di una storia che include i crimini del nazifascismo e le conseguenze che questi hanno avuto su popolazioni, come quella palestinese, del tutto estranee all’obiettivo della soluzione finale, voluta dal III Reich sul territorio europeo. In molti, casi, insomma, l’esplicitare il proprio posizionamento, il situarsi di fronte a un paesaggio, significa riconoscere delle proprie appartenenze, di classe o di genere, culturali o nazionali. E questo ha senso proprio per ricordare che non siamo menti disincarnate, monadi pensanti o poetanti, al di sopra dei condizionamenti e delle pressioni della storia.
Il riconoscimento delle proprie “appartenenze”, intese come dati di fatto che precedono le nostre scelte di individui autonomi, non significa però aderire acriticamente a esse. E qui il discorso sulla non appartenenza dello scrittore è importante, e per certi versi, con me, sfondi una porta aperta. Ma questo concetto funziona in modo paradossale: faccio di fatto parte delle vostre istituzioni, ma non mi riconosco completamente in esse, e la scrittura è un territorio specifico in cui posso reclamare la mia appartenenza a un’ulteriore società, un ulteriore sistema di valori, che coincide utopicamente e immaginariamente, con i lettori per cui scrivo. Mi sottraggo così, nella zona protetta dell’arte o della letteratura, al peso della maggioranza, all’irrevocabilità del reale. Questo gesto, di per sé, non elimina certo i compromessi che lo scrittore, in quanto cittadino, stabilisce con il mondo sociale che lo circonda, ma gli permette di salvaguardare una certa dose di preziosa insubordinazione rispetto alle attitudini intellettuali della classe dominante. Il trucco di tanti scrittori, intellettuali, accademici, giornalisti culturali, che non vogliono rinunciare a nessuna delle opportunità che offre l’attuale mondo culturale, senza per questo farsi cantori delle posizioni più conservatrici e reazionarie, è quello di sostenere che o si dice di no a tutto, o si abbraccia un opportunismo radicale. Chi osa criticare il capitalismo, dovrebbe per forza vivere come un francescano. Chi denuncia la pochezza delle politiche sul clima, dovrebbe parlarne da una capanna fatta di frasche. Chi mette in guardia dalle minacce insite nella diffusione di certe tecnologie, dovrebbe scrivere sulle tavolette d’argilla. Il rifiuto pubblico di sottoscrivere certe idee e certe parole d’ordine dell’epoca è invece un’azione importante, di portata certo limitata, ma che non è scevra per altro di conseguenze negative. Il non accordarsi al coro, il non-concertare, lo si paga prima o poi, soprattutto nel mondo intellettuale. Ed è questa la prova migliore che l’insubordinazione dello scrittore, assieme ad altre forme di critica, infedeltà e antagonismo, non sono considerate innocue da coloro che difendono le “verità ufficiali”.
Mi chiedi quale sia “la mia percezione della situazione politica attuale”? Ho parlato di questo in un recente articolo su Gaza. Ho scritto che dormivo male. Che facevo incubi politici. Nello stesso tempo, mi dimentico ogni giorno dei bambini sotto le macerie, delle famiglie intere sterminate. (Elsa Morante ha senz’altro ragione. Ma come potrebbe essere altrimenti?) Posso aggiungere che di fronte a un mondo che abbraccia nuovamente forme di pensiero e azione fasciste, perde senso anche lo scrivere. Per chi scrivo? Per piacere a un lettore reazionario, fascista? Scrivo per un mondo che disprezza tutto ciò che non è traducibile in una realtà quantitativa: i soldi delle vendite, i like, i followers? Ma dicendoti questo non sono ancora andato fino a in fondo, fino al nocciolo. E il nocciolo è questo. Lo so benissimo, non posso fare nulla, a livello individuale, perché laggiù qualche innocente sia risparmiato dalle bombe o dai cecchini israeliani. O dalla malnutrizione. Ma questa impotenza trova un suo limite, nel momento in cui, leggo o sento qui, in Europa, in Francia dove vivo o in Italia da cui provengo, certe falsità, certe operazioni di censura o autocensura. Va bene, non posso fare nulla, non posso impedire che il governo Meloni venda armi o faccia affari con Israele, non posso convincere il governo francese a stabilire delle sanzioni, e così via, ma non mi avrete nel vostro coro e nel vostro compatto silenzio. C’entra il fatto di essere scrittore? Non lo so. Ma provo a rispondere alla menzogna, cercando di portare un po’ più di verità, nell’arco mio di comunicazione, anche se è minimo. Un migliaio di lettori soltanto? Ma lo devo fare. E lo faccio senza poter misurarne in alcun modo l’efficacia. E comunque 1) sono convinto che anche una comunicazione “piccola”, di corto raggio, abbia importanza (può fungere da modello per altre comunicazioni di quel tipo); 2) va fatta e basta. Il Winston Smith, di 1984, al colmo della sua impotenza politica, affermava: “La libertà consiste nella libertà di dire che due più due fanno quattro. Se è concessa questa liberta, ne seguono tutte le altre”. Le verità storiche non hanno certo il carattere cristallino delle verità matematiche. Ma Orwell vuole dire che non c’è verità, per autoevidente e universale che sia, a salvaguardarsi indenne dalla propaganda politica e dall’autocensura. Bisogna volerlo dire, e volerselo ricordare, che due più due fanno quattro, quando intorno a voi la gente non smette di affermare che due più due fanno cinque.
“Bene, ma tu sei uno scrittore, non un leader politico né il direttore di Limes (…)”
È un’osservazione di assoluto buon senso, Filippo. Perché mai dovrei interessarmi a un complesso studio per specialisti dei cicli egemonici e dell’economia-mondo, io che non sono nella redazione di riviste accademiche o specializzate in geopolitica? Io che non ho titoli per prendere la parola a riguardo? E come mi rimproverava un amico filosofo: Che ti metti a scrivere tu, non specialista, di cose, che qualcun altro scriverà meglio e in modo più approfondito di te? Scrivi poesia, allora fai il poeta! Intervieni sulla poesia contemporanea. Inculca nei pochi lettori dello scomparto “letteratura in versi”, l’idea che tu ne produci e anche ne hai da dire. In effetti, tante volte vorrei rinunciare a inoltrarmi in certe letture e ricerche, perché so che mi costano tempo, fatica, e inoltre non mi garantiranno nessun vantaggio simbolico (il gagliardetto dello specialista, la medaglia del poeta, la piuma sul cappello del militante di riferimento). Lo faccio un po’ mio malgrado, come spinto da un’ossessione che assomiglia a quella della scrittura di finzione, ma è “inclinata” in una diversa maniera. Voglio mettere ordine. Voglio penetrare più in profondità e in ampiezza, oltre la nube dell’attualità. Voglio percepire le strutture storiche, istituzionali e ideologiche che ci hanno dato forma. So leggere e scrivere: e questa concatenazione di pratiche, che ho appreso negli anni di formazione scolastica e universitaria, e nella mia esperienza di poeta e narratore, la voglio utilizzare per condividere con altri questioni comuni, questioni della polis, che ci riguardano tutti. E lo voglio fare al di fuori dei “ruoli” professionali, sanciti dal mondo della cultura e della politica ufficiale. Parlo come uno senza arte né parte, facendo leva esclusivamente sulla pertinenza dell’argomento scelto, della prospettiva abbracciata e della chiarezza dell’argomentazione. Metto in comune qualcosa fuori dalle tempistiche istituzionali. E mi dedico così a un duplice movimento: esploro l’utilità e l’efficacia di un certo strumento intellettuale (Arrighi, Silver, e la loro teoria) e, nello stesso tempo, lo restituisco. E lo faccio per giungere poi a dei nodi, che mi serviranno e che spero serviranno ad altri. Nodi concettuali e fattuali, come quello che sta al cuore di quell’intervento. Si tratta di una citazione che riprendo tal quale:
Abbandonando la promessa egemonica dell’universalizzazione del sogno americano, l’élite statunitense dominante non ha fatto che ammettere che la promessa era ingannevole. Come dice [Immanuel] Wallerstein, il capitalismo mondiale, così come è attualmente organizzato, non può soddisfare simultaneamente ‘le richieste combinate del terzo mondo (relativamente poco a persona, ma per molte persone) e della classe lavoratrice occidentale (relativamente poche persone, ma molto a persona)’.[4]
La civiltà che fino a poco fa è stata modello più o meno virtuoso, più o meno contraddittorio rispetto ad altre civiltà, si è rivelata una trappola. Inutile nasconderselo. Nessuno ha certo delle soluzioni immediate e globali da proporre. Ma non si dovrebbe parlare che di questo: della trappola, dell’abbaglio, della contraddizione insanabile, dell’idiozia basata sul diniego. Il fascismo montante ha a che fare con quel diniego. Prende slancio da quell’ignoranza voluta. Ognuno cerchi allora di dirlo, di orientare come può discussioni e mentalità, portando strumenti e in un’ottica di rottura con il sistema di vita esistente. Lo facciano i leader politici, lo facciano i direttori di Limes, lo facciano anche quelli senza arte né parte.
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Immagine: Peter Fischli e David Weiss.