Quando mio padre finì nel lavello
di Marta Aiello
La notizia che mio padre era morto me l’ha data lui. Mio padre. Ero andata da lui per comunicargli che io e Carlo ci eravamo separati, anche se era successo già da quasi un anno. Avevo messo in mezzo un tempo di sicurezza, una specie di punto di non ritorno per togliergli ogni speranza in un ripensamento.
Nasconderglielo non era stato difficile, i genitori sanno poco delle vite dei figli adolescenti, di quella dei figli adulti non sanno niente.
Eravamo seduti da soli nella cucina di casa sua, che è anche il salotto dove riceve le visite che ormai sono rarissime e non autorizzano lo spreco di una camera deputata a quest’uso. La cucina di mio padre inoltre è la sua camera da letto perché ci ha messo un divano per gli ospiti che non invita e ormai dorme sempre lì, ospite di se stesso. La cucina fa anche da camera da pranzo, mio padre mangia sul tavolo che usa come scrivania quando non è apparecchiato. Anche il suo studio è in cucina, infatti. È lì che guarda la tv, è lì che mio padre tiene centinaia di libri che nessun dispositivo elettronico è riuscito mai a scalzare definitivamente, sorte che non è toccata alle videocassette ormai obsolete. VHS di film, documentari storici che lui stesso ha registrato dalla tv: tutti i matrimoni delle corti reali, l’attentato alle torri gemelle, l’abbattimento della statua di Saddam, le fumate bianche per l’elezione dei papi, la caduta del muro di Berlino ma anche varie morti del cigno e Coppelie. In uno degli scaffali, nel terzo precisamente, ci sono i filmini di famiglia in vhs, girati con una telecamera oggi guasta. Nessuno li guarderà mai, i videoregistratori non esistono più e l’archivio si perderà ma mio padre non li butta.
Dovremo farlo noi, praticamente è come se ci lasciasse pieni di debiti. Mio padre è un capitalista della memoria, come tutti i capitalisti destinato a vedere scialacquare agli eredi tutto quello che ha accumulato, ricordo dopo ricordo.
Alle spalle del tavolo pieno di carte, fogli e penne e minutaglia dello stesso campo semantico della vecchiaia (occhiali, un portapillole, forbici, cartoleria varia, c’è pure una lente d’ingrandimento, fazzoletti ben ripiegati ma sporchi, fazzoletti appallottolati ma puliti, blister e boccette), c’è una seconda libreria alta fino al tetto, zeppa di libri impilati sia in verticale che in orizzontale. Nemmeno un buco libero, uno sgomento di vuoto adeguatamente rimosso.
Considerando che ce ne saranno una cinquantina per ogni ripiano e che sono in tutto nove ripiani, facendo un rapido calcolo approssimativo, mio padre possiede poco meno di cinquecento videocassette.
Considerando che ogni videocassetta è di quattro ore, fanno quasi duemila ore di scene accadute nelle vite degli altri e nella nostra, che mio padre aveva voluto salvare dall’oblio. Poi basta, poi sono iniziati i primi smartphone e gli archivi storici delle famiglie si sono persi meglio, in più dispositivi guasti la cui memoria pensiamo sempre che recupereremo e forse succederà davvero.
Lo faremo a consuntivo, quando ci volteremo a guardare al passato per raccontarcelo meglio, approfittando del fatto che i morti non ci potranno smentire.
Lo faremo per rivedere le immagini dei volti dei genitori che non siamo riusciti ad amare e finalmente per amarli da lontano, com’è facile amare tutte le cose che non amiamo affatto.
Lo faremo quando sarà troppo tardi per correggere la storia, andarli a trovare, tenergli la mano.
Lo faremo, insomma, quando saremo sgravati dalla possibilità di comportarci meglio.
La cucina-studio-salotto-stanza da pranzo-camera da letto di mio padre è la stanza più piccola della sua casa che ne ha in tutto cinque: la cucina, lo studio, il salotto, la stanza da pranzo, la camera da letto, ognuna di queste grande almeno il doppio della cucina dove sono certa che, se potesse, mio padre farebbe montare un cesso.
Con tutte le sue cose, mio padre vive lì dentro da anni ormai come se lo scarico del lavello, un po’ alla volta avesse risucchiato oggetti e funzioni e memorie. Che poi è quello che fa la vecchiaia, risucchia le cose e le consegna alla morte che le ingoia.
Le case ci somigliano e nel tempo, la sua si è ridotta sempre di più, come se cercasse una consuetudine progressiva con la bara che diventerà la sua ultima casa.
Eravamo seduti da soli, io e mio padre, nella cucina di casa sua e lui mi guardava senza vedermi. Non perché è vecchio, è stato così sempre. Io non gli interesso.
Per questo quando vado a trovarlo non parlo mai di me ma di cose generiche, notizie del telegiornale per lo più.
A un certo punto mi ha interrotto seguendo il filo dei suoi pensieri e ha esclamato:
“Lo sai chi è morto?”
“Chi?”
“Il mio amico…”, e ha detto un nome.
“Ma chi è?”, ho fatto io che non l’avevo mai sentito nominare. Di solito, infatti si trattava di sconosciuti che mio padre stesso non aveva mai frequentato né stimato né degnato di un pensiero e che diventavano suoi amici solo quando ne leggeva i necrologi sul quotidiano, che acquistava esclusivamente per tenersi informato sui defunti della città. Suoi coetanei, soprattutto.
Non usciva di casa quasi più mio padre, ma per questi morti indossava il loden blu, si faceva mandare un taxi e partecipava ai loro funerali.
Una volta l’ho accompagnato io. Stavo seduta su una panca in fondo alla Chiesa e lo osservavo. Nel breve tragitto verso la bara posta sotto l’altare, l’ho visto rinverdire, sollevare le spalle in una postura di composta dignità, muoversi agile nella piccola folla degli intervenuti, stringere la mano a questo e a quello, guadagnare la scena come un parente stretto del defunto, rivolgere a tutti espressioni di contrizione per un morto che non poteva sollevarsi a sedere nella cassa, dare di gomito a qualcuno ed esclamare “Ma questo chi cazzo è?”
Ha terrore di morire mio padre e le morti di questi sconosciuti che, tutti in riga davanti ad un plotone d’esecuzione vanno cadendo, lo rassicurano. Come se la morte fosse un idolo pagano da placare sacrificandogli un numero specifico di vittime che non può essere superato: sette fanciulli e sette fanciulle per il Minotauro per dire, antichi retaggi della sua cultura classica.
E insomma, a un certo punto gliel’ho detto, “Io e Carlo ci siamo separati quasi un anno fa. A giugno, ed è definitivo. I ragazzi l’hanno presa bene, la casa dove mi sono trasferita è vicina alla nostra. Insomma, alla casa dove Carlo è rimasto. I ragazzi sono grandi, vanno e vengono. Una settimana da lui, una da me”.
Ho aspettato tutto il silenzio che è venuto dopo e d’un tratto mi è venuta una tenerezza che da me, proprio non mi aspettavo. Per la soddisfazione d’essere riuscita a dirglielo senza temere il suo giudizio, di colpo lo volevo abbracciare come ci succede dopo una vittoria. Che cosa avevo vinto? Una nuova solitudine, lo sapevo già. Ma era la mia, era quella che avevo scelto. Ho resistito all’impeto, sono rimasta immobile e a un certo punto, lui mi ha guardato con tristezza.
“Mi dispiace per Carlo”.
Ho avuto bisogno di qualche istante per capire. Ero rimasta senza casa, la mia vita era andata in pezzi.
“E per me non ti dispiace, papà?”
“Tu sei forte”, ha detto. E non era un complimento.
Forse avevo sbagliato le parole per dirlo.
Avevo davanti agli occhi interi scaffali pieni di libri zeppi di parole, combinazioni innumerevoli di un seppur sparuto alfabeto e stavano chiuse tutte lì, dentro i libri che non mi avevano aiutato, scrigni senza chiave. Avevo usato le parole nella combinazione sbagliata.
Sono rimasta per un po’ a fissare i libri di mio padre. Non erano i miei, non aveva mai voluto che li toccassi. Appena ero stata più grande, i libri avevo iniziato a comprarmeli da sola e moltissimi erano copie di quelli che avevo in casa, nelle librerie di mio padre a cui non avevo accesso. Per questo i libri io li leggevo con fame, come in seguito avrei fatto ogni cosa che mi era stata negata, ma li trattavo sempre male, anche quelli che amavo. Amavo le parole, non i libri. Segnati a penna, con un pennarello che rendeva illeggibile la pagina del retro, lordati con disegnini e numeri di telefono appuntati sul momento, irti di emoticon ai margini, strappati, spiegazzati, con le pagine unte, le macchie di caffè e trucco ovviamente, coi dorsetti scollati e le copertine con i buchi delle ‘O’ e delle ‘A’ campiti con la biro, con segnacci orizzontali di penna sulla prima pagina, quella bianca, profondi come di lama di coltello, incisi scarabocchiando per far uscire l’inchiostro di una bic, mollati per terra, lanciati con un calcio sotto il letto, persi per incuria, abbandonati sotto il banco di scuola, prestati a chiunque senza richiederli indietro, gonfi e sformati perché caduti dentro la vasca da bagno e poi asciugati col phon o sul termosifone, messi a faccia in giù in castigo e schiaffati per terra, pieni di orecchie. I miei libri hanno subito da me tutte le angherie.
Eravamo seduti da soli, io e mio padre, nella cucina di casa sua. L’uomo contro cui avevo lottato e ora intendevo mettere di fronte alla verità della mia vita non esisteva più. Al suo posto c’era un vecchietto terrorizzato dall’idea di doverla fare finita. Non avevo più niente da dirgli, ho aspettato qualche minuto almanaccando dentro la testa una scusa qualunque per andarmene.
Mi sono alzata e ha detto:
“Ma lo sai che sono mesi non leggo più?”
“In che senso?” ho detto allarmata, “cosa non leggi, papà?”
“Niente. Non leggo più niente”.
“Romanzi? Saggi?”
“Niente. Neanche giornali”.
“E i necrologi?”
“Nemmeno”.
“Mesi? Cioè, da quando?”
Non mi ha risposto. Gliel’ho chiesto di nuovo “Da quanto tempo?” ma lui, niente.
Ho gridato, “Da quanto tempo, papà?”
Ha guardato un punto lontano ma non era distratto da qualcos’altro che aveva attirato la sua attenzione, semplicemente non guardava più nulla e si è alzato in piedi. Dovrei dire che in quel momento, mentre lo vedevo indietreggiare verso lo scarico del lavello, sempre più distante e più piccolo, girare su se stesso come dentro un vortice, salutarmi col braccio sollevato, poi la mano soltanto, lo sfarfallio delle dita a farmi ciao, scomparire risucchiato, ho provato nostalgia. Ma anche in questo caso, sbagliavo le parole. Non si ha nostalgia di quello a cui, anche potendo tornare indietro, non si tornerebbe affatto.
Mio padre era morto da quasi un anno e mi mancava come quando era vivo. Ci sono persone che non rimpiangiamo per quello che sono state ma per quello che avrebbero dovuto essere e non sono state mai.
Non avrebbe saputo della mia separazione. Non eravamo seduti da soli, io e mio padre, nella cucina di casa sua. Non era vero niente.
Grazie per questa traccia, per questo pezzo così pieno di disagio e terrore, tenerezza e ironia.
La descrizione perfetta di quel che ho provato verso mio padre, deceduto fisicamente nel 2016 ma morto mentalmente di un Alzheimer devastante già 3 o 4 anni prima. Il senso di debito delle (troppe) cose lasciate in silenzio essendo trattenute tenacemente, mi pesa ancora; fosse per me brucerei tutto in un immenso, catartico falò. Non posso farlo per via di mio fratello che, al contrario, tiene tutto minuziosamente da parte. Anche mio padre è stato una persona “che non rimpiangiamo per quello che [è stata] ma per quello che [avrebbe] dovuto essere e non [è stata] mai”: quanta verità in questa frase! Chissà quanti delusi e quante deluse lasceremo in vita quando toccherà a noi. Grazie della pubblicazione.
E’ resa bene la difficoltà dei rapporti ma anche, nonostante tutto, la tenacia nel volerli difendere, quei rapporti