Su “Parte lesa”

Massimiliano Cappello, Parte Lesa, Arcipelago Itaca, Osimo (AN) 2025

di Ugo Fracassa

Abbiamo convenuto che ne parla solo chi c’era”: questa la policy per una voce poetante che, in Parte Lesa, titolo d’esordio di Massimiliano Cappello (Arcipelago Itaca, 2025), pare provenire da un fiancheggiatore, cronista embedded impegnato a riferire in pubblico (quello residuale della poesia) ciò che riguarda una parte – militante, antagonista – e che, pertanto, solo pochi intendono. Tuttavia, chi possiede la chiave di lettura non necessariamente coincide con il pubblico dei lettori potenziali, non è qui il destinatario. In ciò consiste la difficoltà del testo, la sua presunta oscurità (“in codice”, lo definisce Andrea Inglese che firma la postfazione): “No’ tuto quelo che penso e vedo / Vol i me versi spiegar e dir…”, giusta la professione di reticenza di Giacomo Noventa, qui esibita tra gli esergo. D’altra parte, non importa quanto ristretto il circolo dei “lettori modello” in possesso del grimaldello ermeneutico atto a decrittare il testo, dal momento che “si è sempre chiari per qualcuno e oscuri per qualche altro”, e non soltanto in poesia, secondo quanto riferiva Franco Fortini, intervistato da Alfonso Berardinelli (“Dell’oscurità”, 1973).

Il “lettore reale” che voglia intendere, dunque, è chiamato a confrontarsi con queste pagine come se si trattasse di un percorso di iniziazione; un apprendistato spesso frustrante che costringe a dover resettare, a ricominciare da capo a ogni piè sospinto, a ogni volgere di pagina. Ciò che spiega i numerosi Insert coin disseminati nella raccolta, brevi prose caratterizzate dal prefisso 0, come a negare l’ordinamento progressivo del libro di poesia. Il primo dei tre collocati in conclusione della raccolta finisce su questo a capo: “Vi dobbiamo sembrare incomprensibili”. Una clausola ambigua, tra l’apodittico e il suppositivo, giocata cioè sul registro dell’anfibologia, uno dei tratti caratterizzanti il profilo retorico di questo esordio. Risuona qui l’eco lontana – giusto mezzo secolo – di un altro esordio poetico (Strana categoria, ciclostile del 1975 appena ripubblicato in versione digitale da Diacritica), di un’altra militanza – trotzkista, novecentesca –, quella di Carlo Bordini: “noi vi dobbiamo sembrare una strana categoria” (un noi all’epoca genericamente assunto ad indicare l’“intellettuale di sinistra”).

Parte lesa è titolo che pesca nel vocabolario della giurisprudenza, una “lingua speciale” o linguaggio settoriale che connota in queste pagine lo Stato come contro-parte. Anche il testo di legge, almeno dal punto di vista strettamente linguistico, è testo per pochi, ma la legge, in quanto nòmos, non ammette ignoranza, anche se la giustizia (sociale) è spesso negata: “In realtà è una vecchia storia, quella che oppone díke e nómos, legge divina e legge umana” (p. 7). La stessa Storia (filosofia della) cui Walter Benjamin aveva dedicato, alla fine degli anni Trenta, alcune Tesi, la più celebre delle quali afferma: “Non è mai documento di cultura [giuridica] senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie [politica]” (mie le integrazioni tendenziose in parentesi quadra). Tuttavia il riuso del codice nel titolo della raccolta è immediatamente volto in funzione parodica, ovvero di controcanto (canto-contro), poiché “certe lotte per la casa, per gli spazi, per i territori […] non bastano i decreti, le sentenze o le persecuzioni per allontanarle” (p. 7). Nella fattispecie, all’Ente immobiliare costituitosi come parte lesa nel processo (seguito, nel 2022, all’occupazione di spazi abitativi a Milano, nel quartiere Giambellino), si sostituisce qui la soggettività poetica dal cui trauma, non legato alle vicende milanesi soltanto, scaturisce il testo: “fine aprile, notte senza aggettivi, è in ogni fibra delle palizzate che proteggono i vetri ancora integri su Rue Tolbiac, tamburi, chi c’è c’è […] / sono scene primarie, ma non c’è l’amore dentro” (p.9). Bisogna saper leggere, insomma, a partire dal titolo che va interpretato in senso contro-informativo. Inoltre, mutato il segno della formula, l’accento pare cadere piuttosto sul primo membro del sintagma – “parte” – che non sul secondo, in accezione più faziosa e partigiana che traumatica o vittimistica, per intenderci. Ciò che conta innanzitutto qui è la “parte”: riconoscerla, sceglierla, prenderla (“il meglio che ci può succedere è […] prendere una parte”, p. 21) e stare da quella.

A favore dell’urgenza comunicativa di questo avventato esordio ben oltre la cerchia dei sodali e dei coinvolti – di coloro, cioè, “de quibus fabula narratur” (cfr p. 10) – testimoniano i due corsivi che inanellano il testo: Circostanze attenuanti e aggravanti e Le cose in chiaro. Le due prose esplicative, tessute su un unico filo del discorso (la prima termina: “Ma non è nemmeno questo il punto” (p. 7); la seconda riprende: “il punto è che si parla di una cosa […]” p.69) costituiscono viatico per il lettore avventizio, a favore del quale ci si sforza di assicurare un minimo ancoraggio referenziale. Vi si legge, in particolare, che i riferimenti a una particolare lotta (quella per la casa, ad esempio) se valgono come archivio di immagini di una “vita non imposta” – formula dallo spiccato retrogusto francofortese –  non costituiscono però il nocciolo della questione. Ma intanto, se nel fuoco della controversia c’è “di che credere di essere vivi” (p. 13), si tratta allora di “espandere un presente non ostile” e di fare di questo tentativo “un’arte” (p. 69). Non può non tornare a mente qui, come frammento di memoria involontaria ereditato dal patrimonio della cultura egemone, la professione di fede riformista del Marco Polo calviniano nel celebre finale delle Città invisibili: “riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. In altre parole, l’aver preso parte, fino al rischio di pagare in prima persona, potrebbe non bastare a sanare il gap dell’appartenenza di classe per il poeta fiancheggiatore: “pensa sentirsi dare del borghese con le manette ai polsi” (p. 11).

Quale, allora, “il punto”, il “referente” ormai scomparso e impronunciabile sulle tracce del quale muove l’autore nei due corsivi allestiti ad uso del lettore empirico? “Si parla di una cosa” che tornare a menzionare suonerebbe “quasi ridicolo” (p. 69) alle orecchie di “chi tra noi […] si era già fatto ormai da tempo in parte / lesa” (p. 20). Che si tratti di quella “cosa” sognata dai personaggi del primo romanzo di Pasolini alle soglie degli anni Cinquanta o di una sua versione attenuata e up to date come il bene-comunismo, per “i defraudati di ogni referente” incatenati alla “repressione” (p. 20) le parole e le cose patiscono la medesima lesione.

Se la “storia” sia una “sceneggiatura cangiante” dove i “rapporti essenziali” restano “inalterabili” (p. 69), è il quesito irrisolto posto in clausola alla raccolta, proprio in fondo al corsivo Le cose in chiaro. E se con essenziali si allude ai rapporti sociali, ecco trasparire come in filigrana la traccia testuale di un materialismo dialettico che, dalla vulgata marx-engelsiana, è ricondotto a ritroso fino ai suoi prodromi presocratici. L’Insert coin intitolato Eraclito 53, infatti, tra rider pedalanti e fumiganti comignoli di CPR (cfr. p. 30), rimanda al frammento del Περί ϕύσεως che recita: “Pólemos [il conflitto] è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi”. È proprio a favore di chi ha ambito ad agire nel presente quel conflitto per operare “sullo stato delle cose” (p. 30), mosso da un “odio” di cui questo esordio intende recare traccia, che la voce poetica di Massimiliano Cappello si costituisce oggi “parte lesa”.

Ma per venire all’ambiguità di fondo su cui principalmente insiste il regime anfibologico della scrittura di Cappello, è proprio a quell’“odio” che dobbiamo guardare. Non si tratta, infatti, inequivocabilmente di un odio di classe o, almeno, non è infine declinato come tale. Si tratta piuttosto “dell’odio di una specie nella sua estrema guerra contro l’aleatorietà della vita” (p. 69). L’impressione è che una simile guerra non possa essere vinta ma che, nello stesso tempo, non sia concesso deporre le armi. Al riguardo parla chiaro la citazione leopardiana posta in esergo: “Men duro è il male che riparo non ha? dolor non sente / Chi di speranza è nudo?”. In altre parole, nello iato tra lotta di classe e “guerra di specie” si apre una contraddizione che l’autore ha il merito di lasciare aperta, beante come una vena recisa. Ciò vuol dire affrontare il rischio umanitario/umanistico che la lotta riguardi i repressori coi repressi, i giudici insieme ai giudicati, in quanto sottoposti entrambi all’“aleatorietà” di quel destino. Peraltro, la proiezione interclassista di quel “mal che ci fu dato in sorte” (Leopardi ne La ginestra) ovvero di “una mortalità promessa miserabile” (qui a p. 29), si rende più evidente in Parte lesa in ragione della dialettica tra i due principali poli geografici rappresentati: Feltre (p.zza Isola, Via Basso) / Milano (Giambellino, tribunale ecc.). Il bipolarismo tra polis e heimat connota infatti la rappresentazione del trauma rispettivamente come sconfitta politica su sfondo metropolitano e come lutto personale patito nel luogo d’origine. “In qualche sempre più rado weekend ci torno, a Feltre, a piedi, sulle mani” (p. 36), principia l’Insert coin che porta il nome di Dori, figura paterna acquisita al tempo della prima formazione politica ancor prima di lasciare il paese. Nell’episodio della traslazione clandestina della salma di Dori, viene inscenata l’assimilazione al natìo di una figura rispetto alla quale viene infine rivendicato un apparentamento su base personalistica, prima ancora che intellettuale o ideologica: “ti abbiamo trascinato sette piani perché morissi dove io ero nato”.

Di fronte al comune “destino di aleatorietà”, insomma, non sorprende, col senno di poi, che Luigi Di Ruscio poeta operaio ed Emile Cioran filosofo esistenzialista fossero giunti, tra il 1953 e il ’68, a formulazioni pressoché sovrapponibili partendo da presupposti di populismo progressista, da una parte, e di un cupo nichilismo, dall’altra. Il titolo d’esordio di Di Ruscio, infatti, apprezzato e prefato da Fortini per i suoi “gridi anarchici”, è tornato quasi identico in un appunto del filosofo di quindici anni posteriore (vi si descrive la figura dell’ormai anziano Gabriel Marcel, scrittore e pensatore cristiano), al punto che mi è possibile qui proporli entrambi in una citazione sola: “Non possiamo abituarci / rassegnarci a morire”.

Le voci si affollano e si sovrappongono anche nel dettato strenuamente citazionale di Parte lesa, al punto che il recensore si rende conto ben presto di non poter raccogliere la sfida del testo a riconoscere, fuori e dentro le virgolette, l’intero repertorio sotteso ed esibito fin nei titoli (cfr. il kafkiano Teatro naturale di Oklahoma). Importa però rilevare la strategia del riuso che mira a un’escursione semantica, eventualmente declinata su di un registro ludico, fino ai limiti dell’antifrasi. Un paio di esempi: a proposito dei “tentativi più o meno maldestri di ‘accennare a una musica sfuggente’ (come una volta è stato detto meglio di quanto io non possa fare adesso)”, il testo immediatamente prosegue: “Ovviamente bisogna avere orecchio, o farselo” (p. 69), in tal modo facendo seguire al parentetico moto di deferenza per una citazione tipograficamente esposta lo sberleffo pop di una citazione canzonettistica, ma dallo spiccato sentore meneghino; al dantesco titolo di Cocito corrisponde una composizione che si conclude come segue: “A dar morte e a morire mai nessuno senz’ira è venuto”  (p. 47), dove l’eco manzoniana (il Coro del secondo atto del Conte di Carmagnola) è risolta, previa inversione di segno, in antifrasi (“Qui senz’ira ognun d’essi è venuto”, si legge nell’originale).

La memoria letteraria di quel Coro, col suo sapore scolastico (l’incipit è celebre e di norma antologizzato nei manuali scolastici: “S’ode a destra uno squillo di tromba; / A sinistra risponde uno squillo:”) suggerisce infine un’ultima riflessione a margine di questo esordio poetico. Quello scolastico infatti costituisce un tema secondario della raccolta e insiste sul doppio fondo di un libro capace di contenere, in meno di settanta pagine, le strutture portanti di un bildungsroman. A partire dal primissimo componimento e fino all’ultimo rigo del corsivo finale, eventualmente dissimulata sul filo persistente dell’anfibologia, torna la memoria, anche lessicale, della scuola. Non diversamente dal Sereni di Una visita in fabbrica, cui il fantasma sonoro della sirena che udiva da ragazzo “tra due ore di scuola” subentrava a quella di una “lontanissima” officina, il poeta qui affianca  richiamo delle sirene che disperdono i manifestanti a Gare d’Austerlitz la similitudine con le “campanelle di una scuola” (p. 9). La questione capitale e irrisolta su cui Parte Lesa si chiude nelle ultime righe del corsivo finale – se sia la storia “inalterabile” seppure “cangiante” (p. 69) – induce un’ultima e subitanea regressione alla stagione degli studi liceali: “Sembra uno di quei compiti in classe che ci si sogna anni dopo l’esame di maturità, da adulti. Io, sinceramente preferirei una verifica su questa vita”, dove la doppia accezione del sostantivo verifica, mentre lascia risuonare un’ultima volta armoniche fortiniane, fa aggio sul significato della parola in ambito didattico, dove ha progressivamente sostituito proprio la locuzione di “compito in classe”. Ma è forse nella citazione esposta (interamente trascritta in maiuscolo) dalla filastrocca Alphabetum, composta da Edoardo Sanguineti per il figlio Federico, che il sottotema della scolarità e quello principale della militanza, e dei suoi rischi, entrano in contatto deflagrando in un corto circuito:

“Io che sussurro al Gatto: – questa cosa avviene

e lui: – ma sottotitoliamo ai democratici

et io sottovoce: – CHE ANDERÀ IN PREGIONE

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023 (Premio Pagliarani 2024). Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Storie di un secolo ulteriore, DeriveApprodi, 2024. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato i volumi collettivi Teoria & poesia, Biblion, 2018 e Maestri Contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, Biblion, 2024. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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